Merlo ammette: «Ci sono stati momenti di tensione, ma abbiamo ottenuto un bel risultato».
«Sette giorni pigiato tra le lamiere».
Parla l’operaio lodigiano salito sulla gru per salvare la Innse.Rassegna stampa - Ivana Castagnone, Il Cittadino di oggi.
Dopo una giornata di nervi tesi, sul carroponte, il grande risultato. La Innse di via Rubattino a Milano non sarà smantellata. Grazie ai quattro operai, tra i quali il lodigiano 53enne Massimo Merlo e il rappresentante della Fiom che hanno resistito sette giorni sulla gru dell’officina, si è riusciti ad evitare che i macchinari venissero svenduti come rottame. L’ex Innocenti è stata ceduta, dopo due giorni di lunga e intensa trattativa, al gruppo Camozzi.
Merlo, come ha vissuto questi sette giorni sul carroponte?
«Con tensioni, incavolature, in mezzo all’olio, al grasso, al caldo, sporchi, punti dalle zanzare e senza vedere il cielo. Come materasso usavamo i giornali».
Le sembra vero di aver dormito la scorsa notte in un letto?
«Certo che mi sembra vero: ho sentito che non mi trovavo più su una lamiera».
Cosa facevate tutto il giorno?
«Controllavamo quello che facevano polizia e vigili del fuoco in fabbrica; ci accertavamo che nessuno salisse. Anche di notte, facevamo i turni. Poi discutevamo di come stava andando la situazione degli operai della Innse all’esterno. Io mi sono trovato sul carroponte perché sono rappresentante delle Rsu, ma se non lo fossi stato, avrei dato il mio sostegno da fuori. Noi non abbiamo fatto cose eclatanti, se abbiamo resistito su è proprio perché c’erano le persone fuori che ci sostenevano».
Non aveva paura di star male là dentro? Hanno detto che la temperatura superava di molto i 40 gradi e non c’era un filo d’aria.
«Sì, l’umidità era pazzesca, ci trovavamo attaccati ai finestroni che sono ricoperti di lana di vetro. Sentivamo un pochino di fresco dalle 4 e mezza alle 8 della mattina».
Come avete fatto ad entrare?
«Lavoriamo qua da oltre 20 anni, conosciamo la fabbrica e tutte le possibilità di entrare come le nostre tasche. In passato, infatti, abbiamo dovuto impedire che entrassero a rubare».
Vi aspettavate un risultato così e di scendere martedì sera?
«Non ci aspettavamo al 100 per 100 di scendere, anche se c’era un sentore. Al risultato ci credevamo, altrimenti non saremmo rimasti 15 mesi qui a presidiare la ditta e 3 mesi e mezzo a produrre senza padrone. Avremo accettato il ricollocamento».
La giornata di martedì è stata la più dura?
«Martedì e lunedì perché c’erano le trattative in corso».
È la sua prima lotta in 32 anni di Innse?
«No. Nel ‘99 avevano tentato di portarsi via il materiale in lavorazione perché volevano chiudere. Allora presidiavamo la fabbrica anche di notte per impedirlo. Siamo riusciti a bloccare i camion. Ogni volta che portavano via un pezzo ne dovevano portare un altro. Abbiamo ottenuto che l’officina non venisse dismessa, ma venduta».
L’effetto Innse ora dilaga. Alcuni operai sono saliti sul silos in provincia di Roma.
«Ed altri operai hanno occupato una fabbrica ad Ascoli. È un buon segno, significa che si stanno svegliando. Ok agli ammortizzatori sociali, ma se gli ammortizzatori servono a chiudere le fabbriche non va bene. Bisogna presidiare le aziende per evitare che si portino via i mezzi di produzione. Senza macchine la fabbrica diventa una scatola vuota e nessuno entra più a lavorare».
Che consigli date agli operai in lotta?
«Di tenere duro».
Dopo essere stati isolati dalle istituzioni per 14 mesi siete diventati un caso internazionale. È incredibile no?
«È incredibile sì. Tutto poteva essere risolto 14 mesi fa perché lavoravamo e c’era già un compratore».
Ad un certo punto hanno detto che non potevate più caricare i telefoni, era vero?
«Avevamo avvicinato un altro carroponte dove c’era il 220 che serve per la manutenzione. Ad un certo punto le guardie del proprietario Silvano Genta hanno tolto la corrente. Per isolarci».
Sua moglie non l’ha mai rimproverata in questi sette giorni di essere salito lassù?
«Se siamo arrivati a questo punto è perché le nostre compagne ci hanno sostenuto. Il risultato è anche merito loro, se no avremmo dovuto combattere su due fronti e alcuni magari avrebbero ceduto e sarebbero scesi».
Cosa hanno detto i suoi bambini quando l’hanno vista?
«Erano contenti e mi hanno abbracciato. Gli ho spiegato che la fabbrica continuerà a produrre. Loro ci sono stati e la conoscono».
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