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mercoledì 14 ottobre 2009

La sicurezza degli impianti alimentati a gas - 2

L’uso domestico del gas: che fare?
Parte seconda.

I tipi di gas distribuiti in Italia.
In Italia si distribuiscono sostanzialmente due tipi di gas, entrambi privi di componenti tossici:
• Il gas naturale, comunemente definito “metano”, che dai giacimenti di estrazione arriva direttamente alle nostre case attraverso un sistema di trasporto primario e reti di distribuzione;
• Il GPL (gas di petrolio liquefatto), proveniente dalla distillazione del petrolio greggio, che viene generalmente commercializzato in bombole o in piccoli serbatoi. In particolari zone, nelle quali è difficile o antieconomico portare il gas naturale, il GPL viene distribuito anche mediante piccole reti canalizzate.
Il fatto che siano distribuiti gas combustibili tra loro diversi per le loro caratteristiche chimico-fisiche, impone di osservare una serie di precauzioni.
In particolare:
• Prima di acquistare ed installare, nonché trasferire apparecchi a gas da una località all’altra, è necessario consultare un installatore qualificato, per accertarsi che gli apparecchi stessi siano idonei a funzionare senza inconvenienti nel posto dove si intende utilizzarli;
• I dispositivi di sicurezza, controllo e regolazione automatica, che fanno parte di un apparecchio, non possono essere modificati se non dal costruttore dell’apparecchio stesso, sotto la sua responsabilità.

Il “fai da te” è assolutamente vietato.


Queste operazioni devono essere effettuate esclusivamente da operatori abilitati e/o centri di assistenza tecnica in possesso dei requisiti tecnico-professionali previsti da una legge promulgata nel 1990 (la numero 46), sostituita dal Decreto ministeriale n. 37 del 22 gennaio 2008 ed entrato in vigore il 27 marzo 2008 (vedremo in seguito perché questa data è importante).
In pratica le imprese installatrici devono essere iscritte al Registro delle ditte o agli Albi provinciali delle imprese e devono dimostrare il possesso dei requisiti tecnico-professionali, indicati in un “Attestato di riconoscimento” rilasciato dalle Camere di Commercio che l’installatore deve rilasciare in allegato alla “dichiarazione di conformità”, per ogni intervento di installazione, ampliamento, trasformazione e manutenzione degli impianti del gas a valle dei contatori.


Ma cos'è la “dichiarazione di conformità”?

È un documento importantissimo per chi ha commissionato i lavori di installazione, ampliamento, trasformazione (ad esempio da GPL a metano) e manutenzione degli impianti perché in esso l’installatore dichiara, sotto la sua personale responsabilità, che l’impianto è stato realizzato in modo conforme alla regola dell’arte secondo le norme vigenti.

Attenzione!

Con la Dichiarazione di conformità, l’installatore deve produrre alcuni allegati obbligatori che indichino:
1. la relazione e la tipologia dei materiali utilizzati,
2. lo schema dell’impianto realizzato,
3. la copia del “Certificato di riconoscimento dei requisiti tecnico-professionali".

La dichiarazione di conformità senza gli allegati obbligatori non è valida.

A questo punto mi sorge spontanea una domanda:
Se io dovessi acquistare una casa dove non sono presenti Dichiarazioni di conformità per gli impianti del gas, energia elettrica, radiotelevisivi e antenne e impianti elettronici in genere, riscaldamento e climatizzazione ecc. credete che pagherei il prezzo indicato?
Sicuramente no! E questo perché, non avendo la certezza che i suddetti impianti sono sicuri, mi vedrei costretto a chiamare i relativi tecnici per un controllo generale.
Cosa devo fare allora se non sono in possesso di questi documenti?


Bella domanda. Ma di questo ne parleremo nel prossimo articolo.
(2 - continua)
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«A meno che le offese non vengano da Berlusconi»

Alte scariche dello Stato.
Rassegna stampa - Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, 14 ottobre 2009.

Nel mondo libero un cittadino comune può criticare anche aspramente un potente, che ha tutte le armi per difendersi. Se invece è un potente a offendere un cittadino, questo deve avere giustizia perchè non ha altro usbergo che il “giudice a Berlino”. In Italia accade esattamente il contrario: se un politico insulta un quivis de populo, quello si protegge con lo scudo spaziale dell'insindacabilità parlamentare; viceversa basta una pallida critica per far scattare la lesa maestà. Soprattutto se il malcapitato ha espresso le sue critiche nel circondario di Roma, dove ha sede il vecchio (e a tratti redivivo) porto delle nebbie. Forte coi deboli e debole coi forti, una fetta della magistratura romana si propone come surrogato del fu lodo Alfano: botte da orbi a chi critica il potere. A meno che le offese non vengano da Berlusconi. L'ultima impresa è l'incriminazione di Maurizio Belpietro e Antonio Di Pietro per vilipendio al capo dello Stato. Il direttore di Libero è reo di avere sbeffeggiato Napolitano, accusandolo di non aver anticipato il rientro da Tokyo e di aver ritardato il rimpatrio delle salme dei parà caduti a Kabul. Il titolo era senz'altro feroce: “La dignità dello Stato non vale un fusillotto”. Si può dissentire, ma non c'è nulla che somigli al vilipendio.
Di Pietro invece ha definito “atto di viltà e abdicazione” la firma di Napolitano sotto “la legge criminale” dello scudo fiscale. Anche qui si può obiettare, ma non negare a un leader d'opposizione il diritto di criticare un atto politico. L'anno scorso la Procura di Roma inquisì per vilipendio Beppe Grillo (aveva osato paragonare Napolitano al dio del sonno) e Sabina Guzzanti (aveva spedito dantescamente Ratzinger all'inferno). Poi, bontà sua, fece archiviare Grillo per diritto di satira e la Guzzanti perchè Alfano aveva negato l'ok. In compenso non s'è mai accorta degli insulti sanguinosi vomitati da Berlusconi sugli ultimi tre presidenti della Repubblica: Scalfaro (“golpista”), Ciampi (“di parte”) e perfino Napolitano. Che quando preannunciò il niet al decreto Englaro, si sentì dare dell'assassino dal premier: “La sua lettera introduce l'eutanasia”, “è grande il rammarico che ci sia stato impedito di salvare una vita”. Ma in quei giorni la Procura di Roma era in letargo. Come l'altra sera quando, a Porta a Porta e Matrix, il Cavaliere ha accusato il Presidente di avergli promesso di subornare i giudici costituzionali perchè avallassero una legge incostituzionale. Cioè di attentato alla Costituzione. Questo sì è vilipendio. Infatti la Procura di Roma, con un concetto piuttosto elastico dell'obbligatorietà dell'azione penale, ha seguitato a dormire. Russava anche sui casi Saccà, Sanjust e voli di Stato, quando fece archiviare Berlusconi con memorabili arrampicate sugli specchi del diritto e del rovescio. Poi si ridestò per perseguitare il fotografo Zappadu. E tornò a sonnecchiare su Letta e Alfano (per il quale ha addirittura preannunciato un'archiviazione che ancora non c'è). Intanto Josè Saramago dà del “delinquente” a Berlusconi e del “cretino” a Bush, come già Michael Moore. Cose che càpitano nei paesi liberi. Come scrisse un giudice il 30 giugno 1971, la stampa libera “deve servire ai governati, non ai governanti. Il potere del governo di censurare la stampa è stato abolito perché la stampa rimanesse per sempre libera di censurare il governo”. Purtroppo era il giudice Hugo Black, della Corte Suprema degli Stati Uniti.
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La patria è salva, il giornalismo un po’ meno

Signorini, altro che Feltri.
Faccio servigi fini, sono Signorini.
Ecco come il direttore di "Chi" distrugge le carriere dei nemici del capo.
Rassegna stampa - Il Fatto Quotidiano, Peter Gomez e Marco Lillo, 14 ottobre 2009.


Che sia un figlio del demonio lo dice persino il suo padrone. “Le foto del compleanno di Noemi a Casoria? Me le ha chieste quel diavolo di Alfonso Signorini”, ripeteva in maggio Silvio Berlusconi dagli schermi di “Porta a porta”. E anche se allora nessuno se ne rendeva conto quella frase equivaleva a un investitura: Signorini da cortigiano era diventato principe. La sua metamorfosi era conclusa. Perché da giornalista si era trasformato in spin doctor. Ovvero, come recita il dizionario inglese-italiano, in “dottore del raggiro” o, se preferite, in “manipolatore di opinioni”. Sì, perché ormai è questo il vero mestiere del potentissimo direttore di “Tv sorrisi e canzoni” e di “Chi”, il settimanale di gossip della Mondadori, scelto dal Cavaliere per diffondere interviste, condurre attacchi mezzo stampa contro giornalisti e avversari politici, spacciare per vere notizie false. Un mestiere difficile che, in questi giorni, ha spinto Signorini a scatenare i suoi cronisti a caccia di elementi utili per infangare Raimondo Mesiano, il giudice civile autore della sentenza con cui la Finivest è stata condannata a risarcire con 750 milioni di euro la Cir del “nemico” Carlo De Benedetti.
Berlusconi, del resto, del direttore di “Chi” si fida. Anche perchè è uno di casa. Amicissimo della sua primogenita Marina, la numero uno della Mondadori, con la quale trascorre ogni giorno ore e ore al telefono, Signorini è stato negli ultimi due anni uno dei pochi uomini ammessi alle “cene con le ragazze” organizzate dal Cavaliere e da Giampaolo Tarantini a Palazzo Grazioli. Il suo nome ricorre spesso nei verbali delle ospiti (a volte a pagamento) del premier, spesso associato a quello del direttore di Rauno, Fabrizio De Noce, e a quello del numero uno di Medusa Cinematografica, Carlo Rossella. Non per niente il dandy, Signorini - nelle interviste lo ripete sempre - considera il dandy Rossella, come il proprio maestro di giornalismo. Una confessione significativa visto che Rossella nel 2003 è stato sottoposto a procedimento disciplinare da parte dell’ordine dei giornalisti per aver “taroccato” una copertina di “Panorama” aggiungendo un folta capigliatura a un’immagine del premier ripreso di spalle. Eravamo ancora in epoca pre trapianto pilifero e alla fine Rossella aveva strappato un’archiviazione dalle motivazioni imbarazzanti: “La piaggeria non è un illecito disciplinare anche se è qualcosa si peggio sul piano morale e individuale”.
Ma tant’è. Ciascuno è libero di scegliersi i propri maestri come gli pare. Così non deve stupire se, non appena scoppia il caso della protegè minorenne del premier Noemi Letizia, le vacanze di Signorini, sono interrotte, da una telefonata. È palazzo Chigi che lo vuole far rientrare a Roma, su un aereo privato. Signorini saluta in tutta fretta il suo compagno e la sua maga-sensitiva personale, Maddalena Anselmi, e vola dal mago di Arcore. D’ora in poi lui e Rossella faranno parte dell’unità di crisi che in questi mesi tenta di difendere l’immagine del Cavaliere dagli scandali e dai rovesci giudiziari. A 45 anni suonati, con in tasca una laurea in filologia medievale e alle spalle un passato d’insegnante, Signorini spicca, dunque, il gran salto. Tanto che ora è a un passo dal prendere il posto di Maurizio Costanzo nel dopo serata di Canale 5 e, sostengono in molti, di diventare persino direttore della rete ammiraglia del Biscione. Che sia un intoccabile, del resto, a Mediaset se ne sono accorti tutti. A partire da quei ragazzacci delle Iene che già nel 2007 hanno visto l’editore censurare un servizio a lui dedicato. Che cosa era successo? “Chi” aveva pubblicato in copertina un’intervista all’attore Riccardo Scamarcio.
Ma l’intervista era falsa. Spiega a “Il Fatto”, Gianni Galli, collaboratore di Scamarcio: “Riccardo non l’aveva mai rilasciata e lo disse alle Iene. Loro però se ne erano accorte da sole visto che il testo era molto simile a un’altra intervista data invece da Riccardo a Vanity Fair”. Ma le balbettanti giustificazioni del giornalista (si fa per dire) davanti alle telecamere, non le vedrà mai nessuno. “Non va in onda”, ordini superiori. Se questo è lo stile non ci si deve stupire per quello che si è visto e letto sulle pagine di “Chi” a partire dallo scorso maggio. Dopo il primo scoop - le foto della festa di compleanno di Noemi a Casaoria alla quale partecipò anche il premier - Signorini fornisce ai suoi 400 mila lettori “rivelazioni ” a ripetizione. Si parte con il padre di Noemi che sostiene di essere “un ex socialista” vicino a Craxi e di aver per questo conosciuto Berlusconi diventato “un amico di famiglia”, per arrivare al primo vero capolavoro: l’invenzione di un fidanzato. Ai giornalisti che nelle prime ore l’avevano intervistata, Noemi aveva giurato di essere single. Ci voleva dunque un partner che allontanasse il sospetto di un rapporto troppo stretto tra Nemi e il Cavaliere. Così sbuca fuori dal nulla Domenico Cozzolino, ventunenne modello di Boscotrecase, ex tronista di “Uomini e donne”, il programa di Maria De Filippi. Domenico e Noemi vengono fotografati da “Chi” a Rimini e poi sul lungomare di Napoli, mentre si baciano sotto gli occhi dei genitori di lei che assicura: “Sono illibata”. Peccato che Cozzolino per le amiche di Noemi sia un perfetto sconosciuto. Nemmeno l’ex fidanzato della minorenne, Gino Flaminio, ne ha mai sentito parlare. E di lui non si trova traccia neppure nelle foto del compleanno di Casoria.
Alla fine sarà proprio il muscoloso Domenico a spiegare come stavano realmente le cose. “È stata tutta una montatura”, dice a un settimanale concorrente. Ma ormai lo spin è riuscito. Tv e giornali hanno rilanciato le prime immagini della coppia. Nell’immaginario collettivo di una buona parte dell’elettorato si è formata la convinzione che il caso Noemi è tutta una montatura, non di Signorini, ma dei nemici del premier. Signorini così ci prende gusto. Ride quando il migliore dei suoi cronisti, Gabriele Parpiglia, organizza una trappola nei confronti del vero ex fidanzato di Noemi, Gino Flaminio, e di due giornalisti de “L’espresso”. Seguendo le lezioni di Fabrizio Corona, Parpiglia al ristorante la Scialuppa di Napoli allestisce una sorta di set fotografico con tanto di microfoni. Bisogna dimostrare che Gino - il quale ha raccontato come Berlusconi scoprì Noemi consultando un book fotografico - intasca soldi per parlare. E che L’espresso offre altro denaro a chiunque sia disposto ad infangare Berlusconi. Non è vero niente. Ma il paradosso è un altro. Chi è abituato a pagare le interviste è proprio Signorini. A raccontarlo, agli investigatori del caso Vallettopoli che sfocerà in un processo contro Corona, è proprio il giornalista. Il caso di scuola è una sua intervista a Patrizia, il transessuale che passò una notte brava con Lapo Elkan. Per quel faccia a faccia “Chi” tira fuori 50 mila euro. Signorini però si confessa deluso. Tra il suo settimanale e la Fiat c’è un accordo. Il testo del colloquio deve essere vistato da viale Marconi. E così lui è amareggiato, perché avrebbe “voluto fare delle domande scabrose, perchè era l’unica cosa che mi interessava, ma non ho potuto farle (in aula dirà poi che era solo per curiosità personale ndr)”.
Poco male. Perchè poi sulla scena politico-finanziaria irrompe un’altra Patrizia, la escort di Bari, che ha dormito nel lettone del Premier (e “di Putin”). Ogni curiosità potrà insomma trovare risposta. Anche perché, come scrive proprio Signorini, l’intervista che Berlusconi gli rilascia “si svolge nel clima ideale per affrontare con serenità anche le domande più difficili». Seguono quattro pagine di interrogativi del tipo: «Come convive il Berlusconi nonno con il Berlusconi Superman?»; «Bisogno di vacanze? Dove andrà questa estate?». Il cavaliere risponde a tutto. La patria è salva. Il giornalismo un po’ meno.
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Il problema è questo

Il senso della Binetti per la laicità.
Rassegna stampa - Il Fatto Quotidiano, Luca Telese, 14 ottobre 2009.

Il problema è questo. Adesso tutti vorrebbero che Paola Binetti, dopo l’ennesimo sfregio alla laicità commesso sotto le insegne del Pd, e addirittura in suo nome, si dimettesse dal partito levando lei le castagne dal fuoco al leader di turno. Ma se questo non accade il caso Binetti diventa una sorta di drammatico gioco di ruolo che scatena uno strano cortocircuito nelle primarie.
Pensateci anche solo per un attimo: Franceschini dovrebbe assumersi la responsabilità di cacciarla, ma se lo fa davvero, fornisce a uno dei suoi principali alleati, Francesco Rutelli, il casus belli che aspetta da mesi per mettere in pratica la sua sospirata scissione. È difficile che il segretario possa permetterlo, ed ecco perché Franceschini spara sulla Binetti sperando che si arrabbi. Il problema così si riversa su Bersani. Certo, se l’ex ministro prendesse una posizione chiara su questo, recupererebbe voti a sinistra, e potrebbe vincere più facilmente le primarie. Ma se lo facesse si esporrebbe anche a quello che considera il suo tallone d’Achille: quello di essere considerato un comunista travestito pronto ad operazioni di purga, e alla cancellazione delle identità di minoranza. Se a cacciare la Binetti è Bersani, diventa un mangiapreti. Se i primi due leader ragionano così, il corollario inevitabile è che alle primarie la candidatura Marino diventi un bene-rifugio. L’unico custode della laicità è lui – finirebbero per pensare molti iscritti – dunque lo voto. Un bel dilemma, in cui l’unico modo per fuggire alla prigionia dei ruoli è un atto di coraggio dei primi due leader del Pd. Riusciranno a trovare la forza?
Adesso, però, vorrei provare a ragionare su Paola Binetti e sui paradossi che la sua figura apre.
Anche lei di coraggio ne ha. Da anni viene percepita come un corpo estraneo, da anni, con una determinazione che rasenta la vocazione dei martiri, continua imperterrita la sua battaglia anti-illuminista a tutto campo. Al Senato - durante la crisi di Prodi - più di una volta aveva votato contro il governo sempre rischiando di essere determinante. Veltroni e Franceschini si erano illusi di depotenziarla spostandola alla Camera senza capire che, ovviamente, il problema era politico. Le Binetti e le Dorina Bianchi non pesano per il loro seguito, ma per il loro valore simbolico ed evocativo. Entrano nel problema identitario del Pd e, anche senza parole, sostanzialmente dicono ai suoi leader: voi siete un partito che si regge su di un compromesso fragile, e su una amalgama mal riuscita. Io, noi, vi legittimiamo. Mettendo dentro il vostro Dna il suo contrario, voi conquistate un passaporto di legittimità che non siete riusciti ad ottenere altrimenti. Pochi ricordano come fu affondata la legge sulle unioni civili stesa con molta fatica dalla Pollastrini e dalla Bindi. Con un semplice sms spedito dalla Binetti (che stava al Senato) ad Anna Serafini, che era capogruppo in commissione. Il senso era molto chiaro: se questa legge passa, noi ce ne andiamo. Lo stesso paradosso che pesa oggi sulle spalle di Bersani, finì per gravare su quelle di Fassino. Sta nascendo il Pd, posso permettermi di espellere una cattolica? No. E così tutti i progressisti dovettero pagare dazio all’integralismo guerrigliero della Binetti.
In quei giorni invitai per la prima volta la Binetti a Tetris, nel mio programma, e in quella puntata accaddero cose incredibili. Era la sua prima apparizione televisiva, perché i grandi media non si curavano di lei. Noi avevamo affidato a Mike Bongiorno il consueto quiz per i politici. E Mike - l’ho ricordato su questi sito tempo fa - chiese alla Binetti: “L’omosessualità è: A) Una normale caratteristica di una persona B) Una malattia?”. Ricordo ancora oggi il primo piano terreo della Binetti, su cui si stampò un’espressione di sofferenza vera. Cercò di fermarsi, di dire parole caute, ma quello che aveva dentro le uscì fuori. Disse quello che pensava allora e che pensa ancora oggi: che era “Una malattia”. Nella stessa puntata, dopo il quiz, portai in studio un cilicio. Solo questo gesto aveva in qualche modo turbato la nostra piccola redazione. Avevamo scoperto che il cilicio non si vende, e ne avevamo trovato uno in modo semi-clandestino, su internet. Prima di andare in onda questo oggetto era passato fra di noi di mano in mano, suscitando stupore, perché tutti avevano ceduto alla tentazione di calzarlo, ritrovandosi i suoi rostri nella carne. Non la capisci, la ferocia autoflagellatoria del cilicio finché non ti incide la pelle. Chiesi alla Binetti se veramente lo portasse con regolarità. Lei mi rispose: “Ma certo!”. Allora portai quell’incredibile strumento in studio. Mi venne istintivo metterlo in mano a Chiara Moroni, socialista laica del Pdl, anche lei ospite. Ancora oggi, rivendendo quelle immagini, si può notare l’espressione esterrefatta di Chiara. Ma chi ci stupì, ancora una volta, fu la Binetti, che assunse un tono materno e persuasivo verso la collega: “Cara, non ti deve spaventare. Il cilicio ci ricorda il dolore della donna che partorisce… Ci ricorda la sofferenza degli occhi dopo una giornata passata a lavorare al computer. Ci ricorda il dolore della vita che troppo spesso dimentichiamo”. Siccome la televisione ha sempre dei momenti di verità, il dialogo che seguì fu quasi simbolico. Chiara quasi esplose: “Ma il dolore della vita noi non lo vogliamo, lo subiamo nostro malgrado! E il dolore di un parto è accettabile solo perché produce la vita, non perché sia un valore in sè!”. Senza volerlo, avevamo messo a fuoco la differenza fra l’ideologia della penitenza e quella della laicità.
Franco Grillini, che si era scontrato durissimamente con la Binetti dopo la risposta sull’omosessualità (“Se dici questo sei fuori dall’ordine dei medici!”) scelse la via del sarcasmo: “Io sul cilicio difendo la Binetti: ho sempre pensato che tutti hanno diritto alle proprie passioni sadomasochistiche”. Lei si arrabbiò davvero, e iniziò ad urlare. Nessuno, vedendo quella scena, avrebbe potuto pensare che entrambi facessero parte dello stesso partito. La Repubblica, il giorno dopo, aprì un’intera pagina sul caso, e Rutelli bacchettò la Binetti: “Non doveva andare in un programma così”. Non perché non condividesse le sue idee, dunque, ma perché considerava poco prudente averle espresse.
Incontrai la Binetti due giorni dopo, al Senato. Ero convinto che mi volesse sbranare. Invece era sinceramente dispiaciuta: “Non dovevo accettare di parlare del cilicio, ma è stata colpa mia”. L’avevo intervistata più volte, quanto basta per capire che lei non inseguiva tornaconti, non ha ambizioni personali. Piuttosto si sente come una guerriera crociata, che deve difendere la croce e Cristo in questa battaglia di testimonianza in Parlamento, esattamente come un soldato del medioevo si doveva immolare per il santo sepolcro. Dopo la valanga di polemiche che le precipitarono addosso per aver definito l’omosessualità una malattia inventò una sua forma di espiazione privata, credo sincerissima. Andò ad accudire la collega Paola Concia, che all’epoca conosceva appena, in un delicato intervento per un tumore. Non era una furbata, come ha volgarmente ipotizzato qualcuno: era l’unico contrappasso umano che potesse aggirare il suo problema ideologico anti-gay, il suo dogma identitario. Era la via del samaritano, imboccata per controbilanciare la ferocia della guerriera crociata. Ieri, l’inconciliabilità di questa soluzione si è risolta teatralmente con il voto della Binetti speso per affondare la legge della Concia. La pietas umana non poteva distogliere il guerriero di Cristo dalla sua missione. Ed è questo il vero motivo per cui la Binetti deve essere laicamente espulsa dal Pd: lei non se ne andrebbe mai, perché affermare la sua fede tra gli infedeli è ai suoi occhi un elemento di merito: essere dileggiata, attaccata, odiata, è parte della sua missione di testimonianza, solo un altro modo di indossare un cilicio.
Detto questo, devo aggiungere che ho molta più stima per la Binetti e della sua tetragona coerenza che per gli arrampicatori di muri che nel Pd, per mille motivi di utilità contingente, hanno finito per strumentalizzarla, e farsi strumentalizzare da lei. Più stima di lei, che per il convertito Rutelli che srotolava la nasiera pontificia dal bancone di Montecitorio per protesta contro il Vaticano, e che adesso bacia gli anelli dei prelati. In fondo lei ci consegna un paradosso mirabile e corrosivo, nel degrado della seconda repubblica. Paola Binetti non è il tipo di politico disposto a compromessi e mediazioni sui suoi valori. Per questo è una figura che tutti vorrebbero avere in una coalizione. Possibilmente l’altra.
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Faccenda complicata la libertà

Carfagna vuole vietare il velo integrale nelle scuole. L'imam di Trento: «Legge inutile, nessuna lo indossa».
«Noi, musulmane libere anche senza minigonna».
Rassegna stampa - Liberazione, Laura Eduati, 14 ottobre 2009.

Burqa e niqab (il velo che lascia scoperti soltanto gli occhi, ndr) sono «simboli di sottomissione della donna» e dunque vanno vietati nelle scuole.
Con questa proposta Mara Carfagna sposa la linea della Lega che vuole proibire il burqa nei luoghi pubblici. Dalla sua parte si è schierata Mariastella Gelmini: «Le alunne devono essere identificabili». Tuttavia il ragionamento della ministra delle Pari Opportunità è maggiormente rivolto alla tutela delle donne musulmane nella convinzione che siano maggiormente vittime di soprusi da parte dei maschi di casa.
«Non esistono studentesse che portano il burqa o il niqab» osserva l'imam della moschea di Trento, Abulkheir Breigheche: «Temo che in realtà questo governo voglia arrivare a vietare anche il nijab (il foulard che copre soltanto i capelli, ndr) come in Francia, e questo condannerà molte donne alla marginalizzazione perché smetteranno di andare a scuola». E invece, sottolinea Breigheche, «dobbiamo favorire l'integrazione lasciando la libertà religiosa».
L'imam, affiliato all'Ucoii, smentisce che le donne musulmane patiscano maggiori abusi delle italiane: «Quando quel padre marocchino di Azzano Decimo uccise la figlia perché conviveva con un italiano, ebbene tutti hanno scritto che era colpa della religione. Io parlerei di arretratezza culturale, come è arretrata la mafia che commette omicidi anche famigliari. Sono bravi cattolici i mafiosi o gli italiani che uccidono le loro mogli?».
Il problema, conclude il religioso, risiede nella difficile formazione di un islam italiano, interlocutore del governo e sganciato dalle influenze delle ambasciate dei Paesi arabi. Ma la consulta islamica, istituita presso il Viminale, non è mai stata convocata da Maroni.
«Raramente un padre impone il velo alle figlie», esordisce la presidente dell'Associazione donne musulmane in Italia, Suher Kathkuda, che trova «assurdo» il numero verde limitato alle islamiche: «Quando una donna viene uccisa dal marito, che differenza fa se è cattolica, musulmana, buddista?».
Eppure Carfagna lo dice chiaramente: «Non c'è spazio per quelle religioni che negano parità di diritti, di libertà e di dignità». La ministra, insomma, è perfettamente d'accordo con Daniela Santanché e Souad Sbai - quest'ultima presidente delle donne marocchine in Italia e parlamentare Pdl -, entrambe impegnate in una lotta senza frontiere contro l'islam che impone alle donne matrimoni e rapporti sessuali forzati, velo in pubblico e ubbidienza cieca in casa. Lunedì l'associazione di Sbai, la Acmid-donna onlus, ha presentato i dati del numero verde anti-violenza dedicato alle musulmane e attivo dal 2007: quasi 5500 le chiamate, in prevalenza per sottrazione di documenti e minacce di rapimento o sequestro dei figli da parte del coniuge. Queste donne, denuncia Sbai, sono «fantasmi» senza diritti.
Kathkuda ragiona molto diversamente, e non vuole sentire parlare di musulmane magari immigrate di recente, con una scarsa conoscenza della lingua, costrette a seguire i rigidi dettami degli imam e dei mariti: «Tutti conosciamo i dati sulle violenze domestiche subìte dalle donne europee: sono allarmanti. Ripeto: non è una questione di religione ma di maschilismo ed è assurdo trattare diversamente le musulmane perché questo è razzismo». E poi, che significa integrazione? «Se vogliono che ci mettiamo in minigonna, allora si sbagliano di grosso. Peraltro non mi sembra che le donne italiane siano così emancipate: sono precarie, costrette a scegliere tra maternità e lavoro, in televisione appaiono nude e mercificate».
Sia l'imam di Trento che Kakhtuda citano il Corano, ricordando che la religione musulmana vieta l'obbligo religioso e dunque vieta quelle prescrizioni, come il velo, che non vengano accettate pienamente.
Impossibile, naturalmente, ridurre la comunità musulmana - un milione e mezzo di individui provenienti da Paesi molto diversi - ad un comune denominatore. E difatti ecco un giornalista di origine egiziana e residente a Padova, Mohammed Ahmed, che rovescia nuovamente la prospettiva ed è favorevole al divieto del velo integrale: «In Veneto non è raro incontrare donne che indossano il burqa o il niqab. Vietare questi capi di vestiario favorirà sicuramente l'integrazione». Perché? «Sono modi di sottomissione al marito e alla comunità, che svolge un ruolo spesso molto più restrittivo della religione. Prima di emigrare, alle donne musulmane viene spiegato che non devono imitare le occidentali, considerate volgari e poco di buono. In questo modo le musulmane cadono nella trappola di sentirsi persino orgogliose del velo quando invece patiscono sofferenze inaudite».
Ahmed da qualche giorno conduce il primo telegiornale arabo, ogni martedì e sabato su La9, una emittente privata che copre tutto il Settentrione, l'Emilia Romagna e le Marche. Esperto di immigrazione, il conduttore è convinto che «nessuna donna libera porterebbe davvero il velo». Nella sua esperienza professionale e di vita, dice, ha incontrato molte più musulmane sottomesse che musulmane libere. E anzi, «se mia figlia un giorno mi dicesse che vuole indossare il nijab , cercherei di capire chi l'ha influenzata».
Faccenda complicata, la libertà.
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Sabato contro il razzismo e per i diritti dei migranti

17 ottobre: contro il razzismo per la civiltà.
Rassegna stampa - Liberazione, Alessandro Dal Lago, 14 ottobre 2009.

Le avventure e la disavventure mondane e giudiziarie di Berlusconi stanno assorbendo gran parte della cronaca politica in Italia (e non solo). Con ciò, l'aspirante Presidente del consiglio a vita ha realizzato almeno uno dei suoi obiettivi: deviare l'attenzione pubblica dai contenuti dell'azione del governo. In realtà, in poco più di un anno e mezzo, il governo ha parlato molto e fatto poco, rincorrendo più che altro le emergenze (spazzatura, terremoti, alluvioni), il solo terreno utile per fare propaganda a favore del Cavaliere in una fase in cui la sua figura è ampiamente screditata all'interno e all'estero.
C'è una sola eccezione, il pacchetto-sicurezza o, se vogliamo, il pacchetto anti-immigrati. Se c'è un terreno in cui la Lega dimostra di tenere saldamente in mano il timone, almeno per il momento, si tratta delle misure sull'immigrazione. Qui, l'azione del governo non è casuale e sgangherata, ma premeditata e in tutto e per tutto coerente con la cultura della destra italiana. Facendo dei migranti dei criminali virtuali e nemici potenziali o, nel caso migliore, dei servi tollerati, il governo consegue un certo numero di obiettivi politici di lungo periodo.
Il primo è certamente soddisfare un elettorato che ha trovato nella xenofobia, più o meno esplicita, uno sfogo alle sue paranoie e una risposta all'incertezza provocata dalla globalizzazione e dalla crisi economica. Il secondo è molto più prosaico: un migrante perennemente sul chi vive, pauroso della polizia e delle denunce, oltre che vincolato alla benevolenza del suo datore di lavoro, è prima di tutto, agli occhi del legislatore, un lavoratore che accetta qualsiasi condizione di lavoro senza protestare. In questo senso, l'azione del governo ha soddisfatto quelle migliaia di padroncini che al nord, ma non solo, strepitano contro i migranti, ma sono i primi ad avvalersene.
Esemplare in questo senso è la sanatoria delle badanti, una misura adottata in spregio a qualsiasi senso di giustizia e di uguaglianza, che ha il solo scopo di non danneggiare, in nome della mera xenofobia, gli interessi delle famiglie con anziani. Se finora le regolarizzazioni delle badanti sono state di gran lunga inferiori alle aspettative, non è solo perché i datori di lavoro non vogliono sborsare il relativo contributo, ma perché probabilmente molte straniere semplicemente non si fidano di questo governo e di questo stato, preferendo rimanere nell'ombra dell'irregolarità.
Ma c'è stato probabilmente un altro obiettivo da parte del governo: con il pacchetto-sicurezza, l'equazione immigrazione uguale criminalità, scioccamente favorita nell'ultimo decennio anche dal centro-sinistra, riceve una sanzione ufficiale e definitiva. D'ora in poi, qualsiasi discorso sui diritti dei migranti si scontrerà contro il ricatto dell'insicurezza. Così, la xenofobia trova una giustificazione pubblica che sarà difficilissimo criticare e contrastare.
L'effetto di tutto questo è che in Italia alcuni milioni di persone vivono prive di garanzie giuridiche e di diritti civili e sociali, in preda all'ansia per qualunque accidente possa minacciarne lo status di stranieri a malapena tollerati. D'altronde, hanno perfettamente ragione, se è vero che il destino degli irregolari è finire nei Cie e, dopo l'espulsione, nelle mani di Gheddafi, il nuovo e grande amico di Berlusconi.
Per tutto questo, la manifestazione di sabato contro il razzismo e per i diritti dei migranti è un'occasione per contrastare una deriva xenofoba e autoritaria in cui il governo Berlusconi svolge un ruolo d'avanguardia.
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«La vera scelta è tra Bersani e Franceschini»

Intervista a Tonini (Pd).
«Alle primarie, puntiamo al voto utile: no a Marino, sennò vince Bersani».

Rassegna stampa - Liberazione, Angela Mauro, 14 ottobre 2009.

Giorgio Tonini, senatore del Pd schierato con Dario Franceschini alle primarie, lancia un avviso agli elettori del partito a meno di 15 giorni dalla consultazione popolare che eleggerà il segretario nazionale. «I nostri elettori capiranno che la vera scelta è tra Bersani e Franceschini», dice in un'intervista a Liberazione . «Non mi permetto di invitare Marino a ritirarsi, ma il nostro sforzo sarà quello di far capire agli elettori che la scelta è tra Bersani e Franceschini». Campagna per il voto utile? «In una certa misura sì: l'elettore deve capire che se vota Marino aiuta Bersani a vincere», risponde Tonini, da sempre di area veltroniana nel Pd.
Quanto allo scontro aspro tra Franceschini e Massimo D'Alema, sostenitore di Pierluigi Bersani, non si tratta di una tattica dell'attuale segretario per oscurare l'ex ministro, rivale incoronato dalla convenzione che ha selezionato i tre candidati alle primarie. «Se è una tattica, è di D'Alema - dice Tonini - La polemica è partita da lui quando ha detto che in caso di vittoria di Franceschini "noi dirigenti resteremo nel Pd, ma non so dire degli iscritti"». Nel caso in cui le primarie confermassero l'esito della convenzione e venisse eletto Bersani, Tonini promette lealtà e battaglie interne. Ma i giochi non sono ancora fatti e chiarisce la sua idea di alleanze. «Il Pd non lasci al centro la conquista del voto moderato...».
Senatore Tonini, Franceschini attacca D'Alema per oscurare Bersani, il vero rivale alle primarie. È questa la tattica del vostro schieramento congressuale?
Se è una tattica è di D'Alema. La polemica è partita da lui, è stato lui a dire al Riformista che in caso di vittoria di Franceschini "noi dirigenti resteremo nel Pd, ma non so dire degli iscritti". Una frase che di fatto ventila una delegittimazione del voto delle primarie, attaccando al cuore il meccanismo che abbiamo scelto tutti per l'elezione del segretario. Dario si è limitato a rispondere riscuotendo grande apprezzamento alla convenzione di domenica, assemblea eletta in maggioranza sul nome di Bersani dove è stata applaudita la risposta ferma di Dario sulla necessità di non mettere gli elettori contro gli iscritti chiunque sia il segretario.
Si temono forti scosse nel partito se le primarie non dovessero confermare l'esito della convenzione, soprattutto dal fronte bersaniano...
Questo atteggiamento è inaccettabile e intrinsecamente ricattatorio. Della serie: se vince Bersani tutto bene, perchè sanno che da parte nostra ci sarà assoluta lealtà; se vince Franceschini salta tutto. E' questa arroganza che deve essere sconfitta, spero che i nostri elettori lo capiscano.
Se vince Bersani, già si parla di modifiche allo statuto per limitare le primarie alla scelta dei candidati alle amministrative e non per l'elezione del segretario. Vi riconoscereste in questo partito?
Noi voteremo contro questo disegno, sapendo di essere minoranza. L'ho fatto nei Ds, sperando di tornare maggioranza. Il mio giudizio sulle intenzioni della mozione Bersani è molto negativo, ma va detto che sulle modifiche allo statuto i bersaniani non hanno ancora le idee chiare, sono molto divisi. In particolare c'è un punto sul quale non sono chiari: laddove propongono primarie di coalizione per i candidati alla presidenza di province e regioni e alla carica di sindaco. Ok, questo è già previsto dallo statuto, ma se vuol dire che il Pd corrererebbe con un solo candidato scelto dal gruppo dirigente questo per noi non va bene perchè vorrebbe dire che un caso Renzi (eletto sindaco a Firenze dopo aver vinto le primarie del Pd, ndr.) non potrà mai più ripetersi, diventerà impossibile che emergano outsider. La nostra idea invece resta quella di primarie aperte anche con più candidati del Pd, cioè un meccanismo che consenta l'elezione di personalità non previste e che serva a far emergere una nuova classe dirigente.
Alleanze. Sinistra e libertà pensa a costituirsi in partito e allearsi con la lista comunista alle elezioni. Immagino che il dato non cambi la vostra impostazione di vocazione maggioritaria del Pd, giusto?
Riprendendo il discorso che facevo sulle primarie: i nostri alleati negli enti locali ne guadagnerebbero se a correre ci fossero più candidati del Pd, potrebbero addirittura vincere le primarie. Parlando in generale di alleanze, il Pd ha davanti tre interlocutori: la sinistra che è ancora un cantiere molto aperto e nebuloso, impegnato in un cammino lungo che rispettiamo; Di Pietro che è più forte elettoralmente ma che oscilla tra propositi riformisti e attacchi a Napolitano; e poi c'è l'enigma Udc che vuole stringere alleanze a macchia di leopardo a livello locale, con noi e il Pdl indiffirentemente. Detto che la discussione sulle alleanze va fatta quando la situazione è matura, noi dobbiamo concentrarci sul nostro partito: se il Pd torna allo spirito del "Lingotto" con un linguaggio innovativo che non sia la ripetizione dei ritualismi di sinistra, alllora anche il tema delle alleanze sarà meno problematico. Ma noi siamo assolutamente contrari all'idea che il Pd torni a occuparsi dell'alveo tradizionale di sinistra e che lasci al centro la conquista del voto moderato, magari permettendo che pezzi di Pd vadano da quella parte. Questa è la ragione per cui è nato il Pd, non per portare l'Udc verso il centrosinistra, ma nemmeno per essere l'ennesima evoluzione del Pci nel Pds.
Con Bersani si corre questo rischio?
Non è chiaro, Bersani parla di mettere insieme tutte le opposizioni ma non si capisce come farebbe a portare Casini e Ferrero allo stesso tavolo. Però sia Letta che Follini che D'Alema hanno detto cose molto nette e se lo spirito è contro la vocazione maggioritaria del Pd io non sono d'accordo.
Come vanno i rapporti con Marino? È possibile un ponte tra Franceschini e la sua area oppure sarebbe utile che il senatore si ritirasse dalla corsa?
I nostri elettori capiranno che la vera scelta è tra Bersani e Franceschini. Non mi permetto di invitare Marino a ritirarsi, ma il nostro sforzo sarà quello di far capire agli elettori che la scelta è tra Bersani e Franceschini.
Campagna per il voto utile.
In una certa misura sì: l'elettore deve capire che se vota Marino aiuta Bersani a vincere.
È appena uscita la notizia dell'affossamento del ddl sull'omofobia alla Camera.
No comment.
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No alla discriminazione senza se e senza ma

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Crimini fondati su discriminazione: riconoscerne la gravità e perseguirli adeguatamente, chiede la Sezione Italiana di Amnesty International.
Comunicato stampa.

Di fronte al crescente clima di ostilità verso le minoranze, che colpisce in Italia gruppi sempre più ampi di persone (rom, migranti e richiedenti asilo, lesbiche, gay, bisessuali e transgender - Lgbt), la Sezione Italiana di Amnesty International torna a chiedere che tutti i crimini determinati da motivi etnici, razziali, religiosi, di identità di genere o di orientamento sessuale o da ragioni analoghe siano efficacemente investigati e perseguiti secondo leggi che prevedano sanzioni tali da riflettere la gravità della violazione dei diritti umani commessa.
Amnesty International non entra nel merito delle specifiche misure che il parlamento o il governo intendono adottare per perseguire adeguatamente questo tipo di crimini.
Tuttavia, l’organizzazione per i diritti umani ritiene necessario ricordare che tutti gli atti che hanno come fondamento una discriminazione dovrebbero essere trattati in modo simile, a prescindere dal connotato specifico della discriminazione stessa.
Per quanto riguarda la crescente intolleranza nei confronti di persone Lgbt, anche alla luce della lunga serie di episodi di aggressione riportati dai mezzi d’informazione nel 2009, la Sezione Italiana di Amnesty International sollecita le autorità italiane ad assicurare che i crimini commessi a causa dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale delle vittime siano efficacemente indagati e che chiunque sia ritenuto responsabile sia portato di fronte alla giustizia, nonché a contrastare con maggiore decisione gli atteggiamenti omofobici e a garantire più sicurezza alle persone Lgbt.
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Martedì 27 ottobre al Moderno a Lodi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Come un uomo sulla terra.

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Un voto bipartisan blocca la legge anti-omofobia

I veri termini della questione.
Omofobia. Due rischi sventati e un problema.
Rassegna stampa - Avvenire, Domenico Delle Foglie, 14 ottobre 2009.

Ora qualcuno si avventurerà ad affermare che c’è libertà di aggressione nei confronti degli omosessuali. E qualcun altro, in un impeto di esecrazione, magari si spingerà a sostenere che lo 'scellerato' via libera (se non l’incita­mento) è venuto addirittura dalla Camera dei deputati, con un voto trasversale che starebbe lì a testimoniare la sostanziale cultura omofo­bica dei nostri rappresentanti. Si tratta di falsità, dalle quali qui – per quanto ci è possibile – vo­gliamo mettere in guardia. Proviamo a ricostruire i fatti nella loro nuda verità, e nella consapevolezza che non è as­solutamente in discussione la dignità degli o­mosessuali come persone, e in quanto tali por­tatrici degli stessi diritti garantiti dalla Costi­tuzione italiana a tutti i cittadini del nostro Paese.
Ieri è semplicemente accaduto che alla Came­ra, con un voto bipartisan, è stata ritenuta fon­data la pregiudiziale di costituzionalità solle­vata dall’Udc in relazione alla proposta di leg­ge che porta il nome dell’onorevole Paola Con­cia e che è più nota come legge anti-omofobia. È indiscutibile che la materia sia in queste ore incandescente, a causa di ripetute aggressioni contro coppie di omosessuali, verificatesi so­prattutto a Roma. Aggressioni violente e del tut­to immotivate che hanno suscitato unanime condanna nel mondo politico, oltre che la ri­provazione, senza se e senza ma, dell’opinione pubblica. E se non fosse abbastanza chiaro, an­che noi – ancora una volta – esprimiamo una ferma condanna per questa come per ogni al­tra forma di violenza, tanto più se gratuita, ir­razionale o mossa da motivazioni abiette.
Ma torniamo al cuore della questione: la legge Concia è stata 'stoppa­ta' perché il Parlamen­to ha ritenuto che con­tenesse in sé un rischio gravissimo, cioè quello di provocare una di­scriminazione nei confronti di chi omosessua­le non è, proprio in virtù dell’introduzione nel codice penale di un’aggravante specifica, tesa a creare una sorta di super-protezione ricono­sciuta solo e soltanto alle persone che si di­chiarano omosessuali. Il legislatore, insomma, in questa occasione ha saputo guardare lonta­no. E ha fatto anche di più: ha saputo ricono­scere quello che appare come il rischio più e­levato per una comunità civile: l’introduzione di un nuovo reato di opinione. Un reato nel qua­le sarebbe potuto cadere, ad esempio, chi a­vesse pubblicamente sostenuto la bellezza e la bontà sociale del matrimonio storicamente de­finito, ovvero fra un uomo e una donna. Con si­mili norme per i portatori di questa opinione si sarebbe aperta la porta all’imputazione per «discriminazione» nei confronti di quanti, ap­punto gli omosessuali, non possono accedere al matrimonio fra persone dello stesso sesso.
Qualcuno dirà che il legislatore ha visto male. A noi sembra che questa volta il Parlamento si sia accorto della vera posta in gioco: non in­trodurre una sanzione di legge che già c’è, ma aprire la via, al di là della stessa lettera della leg­ge, alla cosiddetta «cultura di genere» nel no­stro ordinamento. Una «cultura» che porta con sé una serie di richieste, a nostro parere, irrice­vibili: dal matrimonio omosessuale alla pro­creazione artificiale e all’adozione di bambini da parte di persone delle stesso sesso.
Forse non placherà la polemica neppure l’evi­denza del fatto che già oggi il nostro ordina­mento indica nei cosiddetti «motivi abietti» un’aggravante e che, infatti, la magistratura ha già rigorosamente sanzionato le aggressioni a persone bersagliate per il loro essere omoses­suali. Eppure, vogliamo sperare in un sopras­salto di saggezza anche in chi, ieri, si è spinto scompostamente a parlare di «vergogna». È op­portuno che tutti si facciano carico della pru­denza necessaria quando, nella creazione di 'nuovi diritti', si vanno a intaccare i pilastri del­la comune antropologia. E una dose di lucidità in più aiuterebbe tutti noi a collocare il tema della violenza, compresa quella contro gli o­mosessuali, là dov’è il suo posto elettivo: al cen­tro dell’azione educativa. Non sarà un’aggra­vante specifica, portatrice di ambigue e peri­colose interpretazioni e applicazioni, a strap­pare la violenza dal cuore dei violenti. E questo resta il problema.
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La bottiglia non spreca parole

Primo raggio.
Etilismo a 13 anni.
Rassegna stampa - Avvenire, Vincenzo Andraous, 14 ottobre 2009.

La ragazzina è distesa a terra, il vomito alle labbra, un’adolescente in rianimazione, tra la vita e la morte, la balbuzie esistenziale che non porta conforto né riparazione, solamente disperazione, coma etilico a tredici anni, rischio di morire per abuso di sostanze. Poco più di una bambina, strangolata dall’alcol, dai desideri adulti improvvisamente voraci e prepotenti.
Quando un ragazzo rotola giù dall’amore che non arriva al cuore, le parole si riducono a monosillabi oscuri e inquietanti.
Una bambina o poco di più cade nella spirale del rischio estremo, come se si trattasse di gesto normale, episodio di routine. A chi osserva non resta altro da fare che raccogliere i cocci e sperare di riuscire ancora a rimetterli insieme. Invece c’è qualcosa in più che deteriora gli anni belli della gioventù; c’è qualcosa in meno a cui aggrapparsi per non andare incontro a un coma etilico a dodici anni, c’è qualcosa che si sottrae confermando la sua presenza.
Rammento qualche anno addietro in una scuola del Trentino: anche lì, un ragazzo di quattordici anni, stramazzato al suolo alle nove del mattino, in coma etilico. Fui invitato in quanto tutor della Comunità Casa del Giovane di Pavia per fare prevenzione, informare, comunicare, e non dare scampo alle giustificazioni, smetterla con le convenienze ipocrite, quando la richiesta di aiuto rimane appesa a mezz’aria, quando con amarezza ti accorgi che l’intero uditorio, ammutolito e scosso, è privo di qualcosa, di qualcuno, c’è un’assenza che non coinvolge solamente a quel giovane scivolato tra la vita e la morte. Ma ieri, e ieri l’altro ancora, quando quell’adolescente crollava a terra, dove erano gli adulti deputati a conoscere, a leggere, a decodificare? Chissà se c’è davvero coscienza della distrazione che ha aiutato a far tracimare quel disagio fino a farlo diventare una tragedia. È doveroso raccontare ai ragazzi la condanna insita nella droga e nella bottiglia, che è là, a portata di mano, di bocca, di occhio sempre più spento, sempre pronta a colmare le lacune, le ansie, i tormenti degli interrogativi, le inquietudini delle risposte. La bottiglia se ne sta in silenzio, non spreca parole, convincimenti, rimproveri; è amica discreta, non ci mette il dito, né il becco, non azzarda consigli, lezioni di vita, non comanda stili né comportamenti, non fa commenti. Chissà se quella ragazzina ce la farà, ma il dolore che proviamo ci obbliga a intervenire, a non restare indifferenti, a chiederci con chi abbiamo a che fare, a pensare finalmente che solo l’amore arriva dove la volontà ci guida; solo l’amore può sbarrare la strada alla resa più devastante, solo l’amore può trasformare i luoghi più devastati in dignità ritrovate.
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Omofobia, il voto della Binetti

Binetti: il mio un voto di coscienza, vedremo se il Pd garantisce il dissenso.
Rassegna stampa - Avvenire, Giovanni Grasso, 14 ottobre 2009.

«Vorrei che fosse subito chiaro che non mi sono dissociata dalla solidarietà ai gay vittime di aggressioni. Io ho votato perché il testo tornasse in Commissione, per operare una distinzione tra la parte che riguarda la giusta con­danna della violenza e altre par­ti che non ho condiviso». Paola Binetti, deputata del Pd, ha vo­tato per l’incostituzionalità del­la legge sull’omofobia, in dis­senso con il proprio gruppo.
Onorevole Binetti, quali sono i motivi di questa sua scelta?
Ritengo che la formulazione del testo, così come era stato pre­sentato in aula, lasciava la por­ta aperta a ulteriori e successivi riconoscimenti di diritti e di spe­cificità, sui quali non sono af­fatto d’accordo.
A cosa si riferisce?
Il testo poteva costituire un pre­cedente per un successivo riconoscimento delle unioni gay, del matrimonio tra omo­sessuali o della possibilità di adozione per le coppie gay. E, anche, per l’introduzione di quello che io chiamo 'delitto di opinione'.
Cosa intende per 'delitto d’opinione'?
C’è il rischio che si arrivi a perseguire pe­nalmente chi, in ottemperanza con le pro­prie convinzioni religiose o mo­rali, si dica contrario all’equi­parazione tra la famiglia fon­data sul matrimonio e altri tipi di unione.
Franceschini ha parlato del suo voto come di un grande pro­blema.
Sarà anche un problema, ma e­ra un problema noto da tempo, visto che il mio dissenso in pro­posito è di lunga data.
L’attuale segretario afferma che ora è in questione la sua stessa permanenza nel Pd.
Staremo a vedere. Da parte mia non posso far altro che ribadi­re un punto fondamentale: un grande partito, con vocazione maggioritaria, deve essere in grado di accogliere e rispettare le diversità d’opinione, specie su materie che incrocia­no la coscienza e le convinzioni profonde.

La corsa nel Pd. E sul voto in aula è scontro duro.
Rassegna stampa - Avvenire, Roberta D'Angelo, 14 ottobre 2009.

A due giorni dal confronto pub­blico tra i tre candidati alla lea­dership democratica, la boc­ciatura della proposta di legge contro l’omofobia di Concia agita fortemente le acque, soprattutto nell’ala franceschi­niana, a cui appartiene la dissidente Paola Binetti e dove. Dario Franceschi­ni, preoccupatissimo per la concorren­za 'libertaria' di Marino e supporters, scarica violentemente la sua parlamen­tare e si sfoga ancora su twitter: la sua scelta «è intollerabile», dice. «Contro l’o­mofobia c’è una so­la linea del Pd e la li­bertà di coscienza non c’entra nulla». Dunque ora si pone per lei «un serio pro­blema di perma­nenza nel partito».
D’altra parte il can­didato chirurgo, con i suoi in prima fila ieri sera alla manife­stazione di piazza, è pronto a cavalcare la protesta dei parla­mentari dell’oppo­sizione, che quella legge la vedevano già nel sacco. «Sono veramente indigna­to per la bocciatura della legge contro l’omofobia alla Ca­mera », esordisce. Per poi sferrare il colpo al segretario pd. «Sono sconcer­tato anche perché la pregiudiziale di co­stituzionalità è passata con il voto di Paola Binetti. Ancora una volta risulta evidente quanto Franceschini non sia in grado di praticare ciò che predica: è inutile che ci racconti che è favorevole al testamento biologico, è inutile che ci dica che la bocciatura della legge Con­cia è una vergogna». Insomma, incalza, «che partito e che opposizione può pro­mettere chi permette a Paola Binetti di continuare a sedere nei banchi del Pd, votando con la destra?».
E il problema c’è anche per Pierluigi Ber­sani, per il quale vanno limitati i casi di coscienza, perché se si vuole scendere nell’agone politico, dice, ebbene, sareb­be il caso di seguire per lo più la disci­plina di partito. Il fatto che Paola Binet­ti si sia allineata alla maggioranza di­mostra che nel Pd «qualche problema c’è», dice. Tuttavia l’ex ministro, forse di fronte all’eloquenza dei numeri in aula, non vorrebbe fare della questione un e­lemento di scontro e spiega che ad affos­sare la legge sull’omofobia è stata «la maggioranza». A caldo però, non aveva nascosto il suo sconcerto per come la battaglia era stata condotta a livello par­lamentare. «Ho le mie idee - commen­ta - su come bisognava procedere. Qual­che problema c’è ed è da valutare». Poi rassicura Concia: «Non ti preoccupare che gli torniamo sotto», dice alla parla­mentare Nell’area di Bersani, dunque, si punta il dito contro il Pdl. Lo fa anche Rosy Bin­di, che cerca fuori dal partito i veri re­sponsabili di quello che per il Pd si rive­la come un giorno infausto. Ma è un fat­to che, a pochi giorni dal voto delle pri­marie, quello che è successo ieri a Mon­tecitorio è benzina sul fuoco della pole­mica interna. Non a caso, dopo aver lan­ciato le sue invettive contro l’esponen­te teodem, Franceschini accusa Mari­no: «Ignazio,vedo che usi sempre la Bi­netti contro di me. Cerca di essere one­sto: sai bene che non c’entra nulla con la mia mozione e le mie liste».
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Il vescovo dai lavoratori della Akzo Nobel

Akzo Nobel, Merisi in visita.
Il vescovo di Lodi venerdì tra i lavoratori.
Contro i licenziamenti lo sciopero della fame.
Rassegna stampa - Avvenire, Giacinto Bosoni, 14 ottobre 2009.

Sciopero della fame: è questa la clamorosa e drammatica forma di protesta decisa dai sindacati e dalle Rsu dell’Akzo Nobel per convincere la multinazionale proprietaria dello stabilimento di Fombio ad accettare le richieste a tutela dei 185 dipendenti che il primo luglio prossimo perderanno il proprio posto di lavoro. Sospese a tempo indeterminato le trattative, i sindacati hanno annunciato la volontà di adottare una forma di agitazione «di impatto». Così, scartati presìdi o altre iniziative che potessero pesare sullo stipendio dei lavoratori, ieri dal mazzo è uscita la carta più a effetto: un digiuno a oltranza, a partire da lunedì prossimo.
E venerdì il dramma dell’Akzo verrà mostrato anche al vescovo di Lodi, monsignor Giuseppe Merisi, atteso in visita allo stabilimento di Fombio alle 16. «Mentre continua il confronto sindacale teso ad evitare i licenziamenti – spiega Mario Uccellini, segretario della Cisl – assume particolarissima valenza la scelta di monsignor Merisi di sostenere persone e famiglie che vivono con ansia e preoccupazione l’immediato futuro». Monsignor Merisi sarà accompagnato dal vicario foraneo di Codogno, monsignor Diego Furiosi, dal parroco di Fombio, don Ernesto Zanelotti, e da don Peppino Barbesta, collaboratore pastorale di Retegno e fondatore del Movimento dei lavoratori credenti. «È una nuova dimostrazione – per il direttore dell’Ufficio diocesano per i problemi sociali, Carlo Daccò – della solidale vicinanza che il vescovo e tutta la Chiesa Lodigiana nutrono verso le molte persone coinvolte».
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I commenti sul nostro blog

Un fenomeno che ci ha alquanto impressionato.

È oramai da diverso tempo che compaiono sul nostro blog opinioni e commenti che lanciano più o meno celate accuse al nostro indirizzo, tesi a creare una sorta di qualsivoglia guerra tra la nostra testata e la minoranza di Brembio che Cambia. Com’è nostro costume e nostra scelta, non siamo intervenuti censurando o rispedendo al mittente, metaforicamente parlando, queste accuse; verremmo meno al nostro impegno di notiziario d’informazione locale e di scelta di pubblico accesso. Ci troviamo, però, nella condizione di dover esprimere il nostro disappunto per quanto sta avvenendo affermando con fermezza il nostro pensiero; ciò che è espresso, scritto in rosso, a margine della nostra testata a titolo: Chi siamo. Questo per fugare ogni idea di contrasto verso qualsiasi entità, attuata da diverse parti, ed esercitare il nostro diritto d’informatori nel pieno rispetto delle nostre e altrui libertà.
Ci sarebbe molto facile e conveniente controbattere alle espressioni dialettiche o alle accuse, se così le vogliamo chiamare, poste in atto da questo o quel gruppo; di questo o di quell’anonimo alimentando così una forma sterile di controversia fine a se stessa, perdendo in credibilità e in libertà d’informazione. Non è nostro costume! D’altro canto, non possiamo esimerci di esprimere una nostra serena opinione e di costatare, come le diverse opinioni dei commentatori, mettono in evidenza e a nudo fatti percepiti che emergono dai diversi comportamenti dei soggetti in questione e dal loro modo di esprimersi; chiedendo spiegazioni o mostrando lacune. Questi soggetti, sono il fulcro della diatriba dialettica, e non la redazione che l’ha pubblicata.
Anche se, a livello personale, qualche membro del gruppo che forma la redazione, si è sentito in dovere di difendere il proprio comportamento e la propria reputazione; tanto è vero pubblicato come commento e risposta della singola persona. Anche se, sarebbe facile e possibile riprendere e dilatare all’infinito alcuni commenti per avere consenso. Anche se, nei commenti, emergono tesi molto interessanti di quanto viene percepito da chi ci segue rivolti a questo o a quello. Non è nelle nostre volontà usarle per muovere attacchi a chicchessia, né tantomeno difenderci ad oltranza per supportare le nostre tesi. E la conferma più bella di tutto ciò, è il seguito di persone che, seppur virtuale, ha la nostra testata; segno questo di una proposta posata e seria di un gruppo ritenuto vecchio, ritenuto decadente.
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