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domenica 23 agosto 2009

Una moschea a Milano? Si può fare

Formigoni: "Un tavolo sulla moschea".
Boni (Lega): "Con idee chiare si può".

Il governatore lombardo: "Propongo che il ministero degli Interni, insieme con la prefettura, convochi un tavolo con Regione e gli enti locali". E l'assessore regionale Boni (Lega Nord): "Bisogna innanzitutto partire dal presupposto che dall'altra parte si deve avere un referente unico".
Rassegna stampa - Repubblica.it, edizione di Milano.

Secondo il governatore lombardo, Roberto Formigoni, una soluzione all'assenza di una moschea per i fedeli musulmani di Milano "può e deve essere trovata". È quanto ha affermato il presidente della Regione a margine di un incontro a Fieramilanocity. "Penso che in una grande città come Milano - ha detto Formigoni in riferimento al problema risollevato anche negli ultimi giorni dalla comunità islamica - la soluzione possa e debba essere trovata. Propongo che il ministero degli Interni, che è competente per questa materia, insieme con la prefettura convochi un tavolo con Regione Lombardia e con gli enti locali per affrontare la situazione e dare una risposta a chi ci chiede di poter esercitare la propria libertà di culto e a quei cittadini che non possono più vedere le loro vie invase per la preghiera del venerdì".
Formigoni preferisce non commentare la proposta avanzata dal Pd nei giorni scorsi di costruire una moschea nell'area dell'Expo, anche in vista dell'afflusso di visitatori musulmani da tutto il mondo prevista per il 2015. "Dovrà essere il tavolo tra tutte le istituzioni - afferma il governatore lombardo - a valutare le proposte".
Anche l'assessore regionale Davide Boni (Lega Nord) si dichiara possibilista sul tavolo di discussione proposto dal presidente della Regione. A patto che ci siano idee chiare e si risolvano le cose tramite le istituzioni locali e che la comunità islamica trovi un solo referente. "Se il governatore Formigoni ritiene ci sia bisogno di un tavolo istituzionale ha fatto bene a ribadire l'impegno della Regione", ha dichiarato Boni. Il problema però, secondo l'assessore, è un altro: "Bisogna innanzitutto partire dal presupposto che dall'altra parte si deve avere un referente unico. Non credo che un ministro come Maroni possa venire qui a parlare con Shaari o con il primo di questi che si sveglia".
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Non si coprano le responsabilità dei governi

Sempre dall'edizione di ieri di Liberazione riportiamo questo articolo di Fulvio Vassallo, paleologo dell'Università di Palermo.
Cadaveri affiorati già martedì, Frontex che "avvista", il ruolo de La Valletta. Italia, Malta ed Europa direttamente responsabili.
La politica dell'omissione di soccorso condanna a morte migliaia di migranti.

Secondo l'agenzia Ansa del 20 agosto il gommone con cinque eritrei a bordo, soccorso la mattina dello stesso giorno al largo di Lampedusa da una motovedetta della Guardia di Finanza, sarebbe stato «segnalato solo all'alba di oggi (20 agosto, ndr) dalle autorità maltesi a quelle italiane impegnate nella missione Frontex, il pattugliamento congiunto del Mediterraneo». Sempre secondo la stessa fonte «l'allarme è stato raccolto dalla centrale operativa di Messina del Gam, il Gruppo aeronavale della Guardia di Finanza, che ha subito allertato le motovedette di stanza a Lampedusa. Secondo le prime notizie di agenzia l'imbarcazione sarebbe stata segnalata da Malta quando si trovava a circa 19 miglia dall'isola, al confine con le acque di competenza italiana per quanto riguarda le operazioni Sar (ricerca e soccorso in mare, ndr). Le motovedette hanno poi intercettato il gommone a circa 12 miglia a sud di Lampedusa, al limite delle acque territoriali». Concludeva l'Ansa di giovedì che «le autorità della Valletta non hanno invece specificato da quanto tempo il gommone, alla deriva da diversi giorni per mancanza di carburante, venisse monitorato». Secondo un'altra agenzia Ansa del 20 agosto «le autorità maltesi hanno recuperato poco fa quattro cadaveri di migranti in mare. Verosimilmente si potrebbe trattare di persone che si trovavano sul gommone dei cinque eritrei soccorsi oggi dalla Guardia di finanza e arrivati a Lampedusa».
«Verosimilmente», per l'Ansa, ma non per Maroni. Mentre il ministro dell'Interno continua a sostenere che i naufraghi eritrei affermano il falso, e la Procura di Agrigento ha aperto una indagine per «agevolazione dell'ingresso di clandestini» e non per omissione di soccorso, pur riservandosi di considerare altre ipotesi di reato, «qualora dovessero emergere», la verità, durissima, sta lentamente venendo fuori, malgrado tutti i tentativi di depistaggio messi in atto per nascondere le gravissime responsabilità dei governi italiano e maltese, e dei responsabili dell'operazione Frontex, attiva in questi giorni nel Canale di Sicilia. Responsabilità già evidenti dopo le prime ammissioni maltesi, ignorate dal governo italiano, secondo le quali mezzi aeronavali coinvolti nelle operazioni Frontex, negli stessi giorni nei quali i naufraghi a bordo del gommone salpato dalla Libia morivano uno dopo l'altro, avevano avvistato sette cadaveri - uno già martedì - senza però intervenire, perché questi cadaveri si sarebbero trovati in acque libiche. Il racconto dei naufraghi, ai quali solo Maroni e Calderoni continuano a non credere, è adesso confermato da altre gravi ammissioni delle autorità maltesi. Almeno 11 cadaveri recuperati o abbandonati in mare confermano quanto dichiarato dai naufraghi eritrei.
Le Forze Armate maltesi hanno riconosciuto di essere intervenute in acque internazionali, ben prima che il gommone varcasse il limite delle acque territoriali italiane. Le stesse Forze Armate hanno dichiarato all'Ansa che il gommone con gli immigrati eritrei «è stato localizzato da una motovedetta maltese dopo che era stato avvistato da un aereo militare della missione Frontex di stanza a Malta», aggiungendo che «è stata data l'assistenza necessaria secondo gli obblighi internazionali di Malta». «I militari maltesi - puntualizza la stessa fonte - non hanno influenzato la selezione della destinazione. La presenza del natante è stata segnalata poi alle autorità italiane». Il racconto dei naufraghi è dunque confermato anche da questa autorevole fonte maltese. Uno dei cinque profughi eritrei, soccorsi giovedì al largo di Lampedusa da una motovedetta della Guardia di Finanza, ieri mattina aveva rivelato: «È stata una motovedetta a fornirci il carburante e a intimarci di proseguire per Lampedusa. Ci hanno dato anche cinque salvagente; uno di loro ha acceso il motore, perché non avevamo la forza per farlo, e ci ha indicato la rotta. Poi si sono allontanati senza aiutarci, malgrado le nostre condizioni».
Adesso lo stesso ministro Maroni dovrebbe spiegare, insieme al suo omologo maltese, perché dopo quella prima segnalazione, addirittura dopo un intervento di "assistenza", seguito da una immediata notifica al governo italiano, secondo quanto afferma adesso Malta, non sono state avviate attività di soccorso, che probabilmente avrebbero potuto salvare qualche vita. Perché un numero imprecisato di persone è stato abbandonato in mare al proprio destino di morte.
Le cronache confermano dunque che in questa ultima vicenda l'avvistamento del gommone sul quale si trovavano i cinque superstiti segnalati - guarda caso - da Malta solo quando si trovavano già all'interno delle acque territoriali italiane (che con la zona contigua raggiungono le 24 miglia da Lampedusa), sarebbe avvenuto nel corso di un "pattugliamento congiunto" Frontex. Allora, se così è stato, dal momento che le attività delle operazioni Frontex sono rigidamente documentate, anche per spiegare agli organi di controllo comunitari le ingenti spese che vengono addossate a tutti gli stati Ue e dunque ai contribuenti europei, chiediamo che l'Agenzia Europea Frontex fornisca al magistrato di Agrigento che ha già aperto una inchiesta una documentazione completa sul "tracciamento" e sul "monitoraggio" del gommone prima dell'intervento di salvataggio. Tocca all'Agenzia Frontex, e non solo a Malta, chiarire questi aspetti assai rilevanti per l'indagine penale aperta dal Tribunale di Agrigento.
Si può osservare a questo punto come gli autori del Regolamento Frontex quanto gli ideatori e gli estensori degli accordi internazionali bilaterali tra Italia, Malta e Libia, e la catena di comando che vi ha dato di attuazione, hanno praticamente ideato ed utilizzato l'omissione di soccorso, conseguenza diretta o indiretta del riparto di competenze così bene architettato, come una vera e propria "pena di morte" per i migranti che ancora si arrischiano ad attraversare il canale di Sicilia per fuggire dalla Libia e raggiungere Malta o la Sicilia, se non Lampedusa, blindatissima per salvare l'immagine turistica dell'isola, ma soprattutto i "successi storici" del governo italiano nella "guerra contro l'immigrazione illegale".
Se le autorità italiane che intervengono in acque internazionali sono coordinate da Malta, oppure operano all'interno delle missioni Frontex basate a Malta, basta che dalla centrale di comando di questo paese non venga trasmesso un tempestivo ordine di intervento e le unità militari italiane, se non saranno coinvolte nelle operazioni fantasma di Frontex, resteranno a pattugliare le acque attorno a Lampedusa per curare la tranquillità dei bagni dei buoni leghisti in vacanza nella loro isola prediletta. Una ragione in più, questa ultima tragedia, per rivedere il riparto di competenze tra Italia e Malta nel Canale di Sicilia, anche perché Malta non ha ancora aderito agli ultimi emendamenti della Convenzione internazionale sul diritto del mare, e quindi in materia di soccorso a mare si ritiene vincolata a regole diverse da quelle che invece valgono per l'Italia.
Di certo, e questo nessuno potrà smentirlo lo scorso anno nella fascia tra le 90 e le 60 miglia a sud di Lampedusa le unità militari italiane, soprattutto la Marina militare e la Guardia costiera avevano tratto in salvo decine di migliaia di persone poi ammesse in Italia alla procedura di asilo con esito in maggior parte favorevole, o che comunque avevano ottenuto uno status di protezione internazionale, come somali, sudanesi, eritrei, nigeriani. Negli ultimi tre mesi, invece, dopo l'entrata in vigore del Patto di amicizia italo-libico (e del protocollo operativo del 2007 che espressamente richiama), in quella stessa fascia di mare non si sono registrate attività continuative di salvataggio con successivo trasferimento in un porto italiano, come prima del 15 maggio scorso, ma al contrario numerosi casi di respingimento collettivo, vietato da tutte le Convenzioni internazionali e in particolare dal Protocollo numero 4 allegato alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell'uomo, Convenzione alla quale sia l'Italia che Malta sono soggette, anche quando si avvalgono della esternalizzazione delle pratiche di respingimento alle autorità libiche.
Presto, appena sarà possibile raccogliere tutte le testimonianze ed individuare i parenti delle vittime, arriveranno le denunce alle Corti internazionali, ma è possibile che nessun giudice penale italiano ravvisi in tutto questo un comportamento illecito sanzionabile anche all'interno del nostro ordinamento?
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Norme e governi immorali

Via da Facebook il gioco leghista anticlandestini.
La vergogna resta e lo squallore pure.

Via da Facebook il gioco Rimbalza il clandestino, che appariva nella pagina della Lega Nord, curata dal figlio del senatur, Renzo Bossi. Proteste e anche una denuncia dell'Arci per istigazione all'odio razziale, hanno indotto gli amministratori del social network a precludere l'accesso al gioco in rete, che si fondava sull'impegno a evitare agli extracomunitari la possibilità di sbarcare sulle coste del nostro paese. Resta accessibile in rete, invece, un secondo gioco leghista: Converti il comunista, che ha lo scopo, secondo i suoi ideatori, di convertire il "triste e logoro comunista in un felice leghista".

Dall'edizione di ieri del quotidiano Liberazione riprendiamo un articolo di Laura Eduati sulla vicenda dei naufraghi eritrei sopravvisuti.
Maroni: nessun sos dal barcone. La magistratura indaga sul favoreggiamento di immigrazione clandestina. Motovedetta maltese avvicinò i profughi. Diede benzina e giubbotti e si allontanò.
Rassegna stampa.

Disidratati e bruciati dal sole, i cinque eritrei a bordo del gommone alla deriva furono avvicinati da una motovedetta maltese che decise di ignorare le implorazioni di soccorso dei migranti, limitandosi a fornire cinque giubbotti di salvataggio e aiutando i profughi a riaccendere il motore spento da giorni. Abbandonandoli al loro destino.
Le forze armate maltesi confermano l'agghiacciante racconto di uno dei profughi soccorsi giovedì mattina al largo di Lampedusa dopo una traversata cominciata ventidue giorni orsono a Tripoli: «È stata una motovedetta a fornirci il carburante e a intimarci di proseguire per Lampedusa. Ci hanno dato anche cinque salvagente. Uno di loro ha acceso il motore, perché non avevamo la forza per farlo, e ci ha indicato la rotta. Poi si sono allontanati senza aiutarci, malgrado le nostre condizioni».
I militari maltesi respingono con forza le accuse di omissione di soccorso perché avrebbero agito, sempre secondo La Valletta, nel rispetto degli obblighi internazionali di Malta. Non è la prima volta che l'isola decide di ignorare i natanti in difficoltà, da anni la destra maltese chiede di soccorrere i migranti semplicemente fornendo l'assistenza necessaria per raggiungere le coste italiane. Ed è proprio quello che è accaduto con i profughi eritrei.
La procura di Agrigento ha aperto un fascicolo. Il reato ipotizzato è favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, per ora a carico di ignoti. I magistrati dovranno appurare la veridicità del racconto fornito dai superstiti - una donna, un uomo, due minorenni - e cioè se davvero nel gommone lungo dodici metri siano salpate 78 persone, e chi li guidava seppure con mano inesperta. Nel frattempo hanno ordinato un pattugliamento per il recupero dei cadaveri dei 73 morti di stenti durante il viaggio e gettati in mare dai superstiti.
I cinque eritrei stanno recuperando le forze. Ustionati, denutriti, a malapena si reggono in piedi. Ma riusciranno a farcela. Quattro sono già stati interrogati dagli inquirenti, il quinto risulta ancora troppo debole.
Il ministro dell'Interno Roberto Maroni continua a manifestare perplessità sulla tragedia, anche dopo avere letto la relazione richiesta al Prefetto di Agrigento che ha appurato come il gommone non abbia mai lanciato l'sos, mentre le forze italiane impegnate nel pattugliamento non avrebbero avvistato i migranti in pericolo prima del fax pervenuto da La Valletta all'alba di giovedì. Se fosse vero che almeno una decina di imbarcazioni hanno sfiorato il gommone senza prestare soccorso adeguato, allora per il prefetto sono stati «lesi i diritti umani».
Se il governo cerca di allontanare le responsabilità della tragedia, l'Avvenire paragona l'indifferenza verso l'ecatombe di migranti nel Mediterraneo al silenzio degli europei al tempo della Shoah. Una condanna durissima, alla quale si aggiunge una nota esplicita della Conferenza episcopale, da sempre contraria alla politica sulla sicurezza del governo Berlusconi: «La strage in mare è un'offesa all'umanità». La Chiesa, in completo accordo con le organizzazioni umanitarie che danno assoluto credito alla versione dei cinque eritrei, chiede che venga ripristinata la legge del mare ovvero la solidarietà nei confronti dei natanti in pericolo.
Sotto accusa non sono soltanto le autorità italiane: i pattugliamenti congiunti coinvolgono Frontex, l'Agenzia europea per la protezione delle frontiere, e Malta. In particolare, nel codice di ingaggio di Frontex non esiste un riferimento vincolante alle operazioni di salvataggio dei barconi. Un particolare sottolineato dalla cronaca di questi giorni: martedì un elicottero tedesco di Frontex aveva avvistato in acque libiche un cadavere, probabilmente di un naufrago eritreo, quattro corpi mercoledì e uno giovedì. Eppure nessuna autorità era intervenuta, nemmeno per ripescare i poveri resti. Secondo le forze militari maltesi, il gommone alla deriva era stato notato da un velivolo Frontex soltanto quando navigava a diciannove miglia da Lampedusa, in quel momento è scattata la notifica alle autorità italiane. Dopo avere richiesto a Maroni una immediata relazione dei fatti in Parlamento, il Partito Democratico ha presentato una interrogazione urgente alla Commissione europea per la verifica dei trattati e dei codici che regolano il pattugliamento del Canale di Sicilia, in modo da assicurare il rispetto del diritto del mare da parte di tutti gli Stati membri con la possibilità di comminare sanzioni. Il riferimento sottaciuto va, naturalmente, a La Valletta.
Per quanto riguarda la Libia, il Pd chiede all'Unione europea di «valutare la sua compatibilità con il diritto comunitario», specialmente sulla mancata garanzia del diritto di asilo. Eppure fu proprio un collega di partito, Giuliano Amato, a firmare il trattato sui respingimenti con la Libia alla fine del 2007, poi rinnovato dall'attuale governo con il Trattato di amicizia siglato a Benghazi il 30 agosto 2008. Anche sotto questa luce vanno lette le dichiarazioni di Dario Franceschini, che punta il dito contro le leggi razziste del governo Berlusconi: «Qui siamo di fronte ad una tragedia annunciata, causata da norme immorali e ingiuste contrarie al diritto internazionale che hanno anche l'effetto pratico di ostacolare il soccorso in mare. Quando 80 esseri umani si trovano dispersi in mare non può contare nulla il loro status giuridico».
La politica dei respingimenti ha dato i suoi frutti. Dal momento dell'entrata in vigore, ovvero dal primo maggio 2009, sono calati drasticamente gli sbarchi rispetto al 2008 quando complessivamente avevano messo piede su Lampedusa oltre trentamila migranti e potenziali richiedenti asilo. Dal primo gennaio a metà maggio sono sbarcate sull'isola 2.548 persone, contro le 14.905 dello stesso periodo del 2008.
Ecco perché la Lega può comunque esultare: «Gli accordi con la Libia funzionano».
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Evitare il nostro naufragio

Riprendiamo da Avvenire di oggi l'editoriale di Davide Rondoni.
Oggi come 30 anni fa.
Per non rischiare anche noi il naufragio.

Rassegna stampa.

Trent’anni fa gli italiani arrivaro­no fino nelle acque della Male­sia per soccorrere i profughi vietna­miti. La situazione politica del loro Paese li spingeva a fuggire in mare. Fu mobilitazione generale. È stata ricordata ieri a Jesolo, alla presenza dell’indimenticato Giuseppe Zam­berletti, fondatore e primo capo del­la protezione civile. Alcuni espo­nenti della comunità vietnamita hanno voluto così ringraziare l’Ita­lia per l’accoglienza di allora. In pri­ma fila, in quella mobilitazione mondiale, furono i cattolici assie­me ai fedeli di tante altre religioni. Un reale movimento di popolo che, tra le titubanze di ordine politico e diplomatico, spinse a interessarsi di quei poveracci in balia delle onde. Delle onde lontane. Come oggi spinge a interessarci di quelli in ba­lia delle onde vicine. Mai in nome della politica, ma in nome dell’uo­mo e della sua dignità che si fonda sull’esser creatura voluta da Dio, a sua immagine e somiglianza.
Molti sono gli attentati nella nostra epoca a tale dignità. Vengono da sot­tili ma decisive mutazioni in cam­po biogenetico, e dalle ipocrisie di una ricerca scientifica interessata più a vendere che alla vita. E ven­gono da corpose e altrettanto deci­sive mutazioni nei flussi migratori, e dalle ipocrisie di una politica che usa gli odierni boat people per bat­taglie di basso profilo. Ma ancora u­na volta i cattolici, assieme agli uo­mini e alle donne di buona volontà, non stanno zitti. E chiedono a tutti – in Italia, a Malta e nel resto d’Eu­ropa – di non far finta di niente. Per amore concretissimo all’uomo, non a una parte politica.
Trent’anni fa, noi italiani andammo a soccorrere i boat people remoti dalle nostre coste. Oggi i boat peo­ple sono nelle nostre acque. Ci so­no molte differenze. Ma tutte le dif­ferenze non valgono a oscurare la ben più importante somiglianza: è gente che rischia la deriva, che va soccorsa. Poi si deciderà dove sta­ranno, se e come rimarranno e tut­to il resto. I profughi vietnamiti di allora in Italia si integrarono bene: fanno parte di questo Paese e, in questa rovente estate del 2009, rin­graziano noi che navigammo per mezzo mondo decisi a soccorrere altri esseri umani in difficoltà. Ne fummo fieri. Fu giusto. Fu, per così dire, normale per la nostra sensibi­lità e per la nostra cultura. E siamo sicuri che la cultura e la sensibilità di una larga, larghissima, maggio­ranza della nostra gente si nutre del­la stessa convinzione: soccorrere chi ha bisogno. Quando è lontano, e quando è vicino.
Siamo un popolo educato all’aper­tura verso le persone. E i disperati del mare sono persone. Si tende a e­tichettarli come emergenza sociale da trattare 'politicamente', ma so­no di carne e ossa, di fiato e anima, di speranza e fatica, di anima e sguardo. Uomini, donne, ragazzi. La fermezza nel far rispettare gli ac­cordi internazionali, l’oculatezza nel gestire un fenomeno dai molti risvolti, l’ansia di segnare un punto nella polemica pubblica, il bisogno di dimostrarsi 'migliori' dell’avver­sario politico non possono mai spingerci a ridurre queste persone – vulnerabili e sofferenti – a stru­menti e alibi. Si tratta, in fondo, di imparare da noi stessi. Di non negare noi stessi. I noi stessi di trent’anni fa e, se ci scrutiamo davvero dentro, i noi stessi di oggi. Vedere e saper soc­correre l’uomo in difficoltà in mez­zo al mare significa vedere e sape­re, ancora e sempre, chi siamo. Si­gnifica evitare che i terribili naufra­gi di speranza al largo delle nostre coste siano il nostro naufragio.
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Una Lega di intolleranti zuzzurelloni

Il gioco di famiglia.
FotoPost - Immagini tratte da Repubblica.it


Talis pater talis filius. Mentre l'ennesima strage di migranti in mare suscita sdegno e sgomento, su Facebook gli internauti leghisti si divertono a far sparire con un clic le barche con gli immigrati a bordo. Vince chi riesce a rimandare indietro più extracomunitari. Ogni volta che un barcone viene respinto, si viene avvisati con il suono di una campanellina. Si chiama Rimbalza il clandestino ed è un'applicazione sviluppata all'inizio di questa estate e disponibile sulla pagina ufficiale su Facebook della Lega Nord. Ad amministrare la pagina del Carroccio è il figlio di Umberto Bossi, Renzo, classe 1988, affiancato nell'opera da Fabio Betti, un altro leghista doc. L'applicazione è introdotta da poche righe di spiegazione: "L'obiettivo di questo gioco è mantenere il controllo dei clandestini che arrivano in Italia". Su una schermata viene raffigurata la nostra penisola, insieme a delle boe e dei salvagenti. Ovviamente nessuno riceverà mai alcun salvagente, perché l'unico scopo del giocatore è quello di far sparire la barca apparsa all'improvviso, cliccandoci sopra con il mouse, da una fino a cinque volte. I punti che si ricevono per ogni imbarcazione colpita dipendono dalle sue dimensioni: uno per quelle più piccole, fino a un massimo di cinque.



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I nuovi barbari dell'intollerante idiozia

Riprendiamo da Repubblica.it di ieri e di venerdì due articoli sull'ultima idiozia leghista. Ma Rimbalza il clandestino non è l'unico gioco. c'è anche il gioco Converti il comunista. Di idiozia in idiozia non ci resta che fare il tifo perché qualcuno per contro s'inventi, perché no?, un Riapri le miniere della Sardegna con i leghisti.
L'associazione infuriata contro il "gioco" pubblicato su Facebook dal Carroccio. "Ci appelliamo alla magistratura perchè non è possibile simulare stragi vere per divertimento". "Rimbalza il clandestino istiga all'odio razziale".
L'Arci denuncia la Lega nord e il figlio di Bossi.

Rassegna stampa.

L'Arci denuncia la Lega Nord e Renzo Bossi per istigazione all'odio razziale. Lo rende noto Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell'Arci dopo avere appreso che sulla pagina Facebook del partito era online il gioco "Rimbalza il clandestino".
"Non è più sufficiente limitarsi all'indignazione di fronte alla barbarie cui siamo giunti - afferma Miraglia - mentre il canale di Sicilia inghiotte altre decine di esseri umani; mentre nei Cie le dure condizioni di vita e la rabbia per una detenzione ingiustificata in uno stato di diritto spingono i migranti ad atti estremi di protesta, il sito ufficiale della Lega ospita un nuovo giochino che dovrebbe aiutare i suoi visitatori a passare il tempo fra una ronda e l'altra. Rimbalza il clandestino, così l'ha chiamato il suo ideatore, quel Renzo Bossi secondogenito del leader della Lega, assurto agli onori della cronaca perchè successore designato del padre e per essere incappato nella cocciutaggine delle commissioni di esami che per tre volte gli hanno rifiutato il diploma di maturita".
"Nel videogame - prosegue - appare l'immagine della nostra penisola circondata da barconi di clandestini. Bisogna col mouse farli sparire, confortati dall'eroico ideale di liberare il popolo italiota dal pericolo dell'invasione. Verrebbe da dire: ma non è quello che già succede? Che altro sono i respingimenti in mare se non violenza programmata? I migranti non sempre muoiono subito affogati, come nel gioco in cui il barcone sparisce, ma quali drammi li aspettano una volta rimandati in Libia l'abbiamo già denunciato in troppi".
"C'è però un limite - aggiunge Miraglia - cui il rispetto di noi stessi oltre che quello per il nostro prossimo, dovrebbe richiamarci. Alle leggi razziste di questo Governo abbiamo risposto con la disobbedienza, la lotta politica e culturale a fianco dei migranti, la proposta di una grande manifestazione in autunno. A chi della vita di essere umani fa un gioco, ne irride le tragedie, ne simula la strage per divertimento, mentre le stragi vere si ripetono, rispondiamo anche appellandoci alla magistratura perchè persegua i responsabili. La nostra legislazione prevede ancora - fino a che Bossi non ne imporrà la revisione - il reato di incitamento all'odio razziale. Che altro è Rimbalza il clandestino, se non cinico, stupido, barbarico odio razziale?".

Polemiche per l'applicazione messa su facebook all'inizio dell'estate. Responsabile il figlio di Bossi. Obiettivo: far sparire le barche in arrivo con un click.
Ma sul sito della Lega impazza il gioco "Rimbalza il clandestino".
Marco Pasqua.

Mentre l'ennesima strage di migranti in mare suscita sdegno e sgomento, su Facebook gli internauti leghisti si divertono a far sparire con un clic le barche con gli immigrati a bordo. Vince chi riesce a rimandare indietro più extracomunitari. Ogni volta che un barcone viene respinto, si viene avvisati con il suono di una campanellina. Si chiama "Rimbalza il clandestino", ed è un'applicazione sviluppata all'inizio di questa estate e disponibile sulla pagina ufficiale su Facebook della Lega Nord. Da qui può essere condivisa e pubblicizzata su ogni profilo. Ad amministrare la pagina del Carroccio è il figlio di Umberto Bossi, Renzo, classe 1988, affiancato nell'opera da Fabio Betti, un altro leghista doc. Proveniente dal movimento dei giovani padani, Betti è legato da un'amicizia non solo virtuale a Renzo, ed è stato spesso definito come l'uomo facebook del Carroccio. È lui a pubblicare link, notizie e ad aggiornare la bacheca. E, all'inizio di giugno, si è presentato come l'ideatore di "Rimbalza il clandestino". "Abbiamo deciso di puntare molto sull'interattività e sulla Rete - aveva spiegato, introducendo l'applicazione interattiva - cercando di coinvolgere, scherzosamente, i giovani, e di sensibilizzarli su quello che, in reatà, è un fenomeno reale che affligge le nostre coste". E chissà se, insieme all'amico Renzo, immaginava che la realtà di questi giorni avrebbe potuto drammaticamente superare l'obiettivo del suo giochino virtuale. L'applicazione, che ha anche una pagina di fan, è introdotta da poche righe di spiegazione: "L'obiettivo di questo gioco è mantenere il controllo dei clandestini che arrivano in Italia". Su una schermata viene raffigurata la nostra penisola, insieme a delle boe e dei salvagenti. Ovviamente nessuno riceverà mai alcun salvagente, perché l'unico scopo del giocatore è quello di far sparire la barca apparsa all'improvviso, cliccandoci sopra con il mouse, da una fino a cinque volte. I punti che si ricevono per ogni imbarcazione colpita dipendono dalle sue dimensioni: uno per quelle più piccole, fino ad un massimo di cinque. Gli sbarchi avvengono lungo tutte le coste, anche quelle della Liguria. Una barra, in alto, tiene traccia delle imbarcazioni rimandate indietro: "Se la barra sarà al massimo - spiegano le istruzioni - vorrà dire che avrai dimostrato la tua bravura e potrai passare al prossimo livello". Più si va avanti, e più i "nemici" da respingere si moltiplicano. Perde chi non riesce a far sparire abbastanza barconi. In questo caso si riceve il classico messaggio di "game over", accompagnato da un invito a ritentare la fortuna: "Prova ancora. Vedrai che la prossima volta riuscirai a dimostrare di essere un vero leghista".
Altro gioco che si inserisce nella campagna leghista dell'estate per coinvolgere i giovani internauti nelle sue iniziative virtuali è "Converti il comunista": lo scopo è quello di trasformare il "triste e logoro comunista in un felice leghista". Perché la conversione sia portata a termine, bisogna "illuminare" il comunista con il Sole delle Alpi, il simbolo racchiuso nel contrassegno della Lega Nord. Nel fare ciò, si dovrà fare attenzione ai pomodori che Veltroni e Franceschini tireranno contro la persona da convertire.
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In Lombardia il 20% delle biblioteche d'Italia

Biblioteche alla riscossa.
Rassegna stampa - Antonio Giuliano, Avvenire di ieri.

Forse non è proprio un caso che, dopo essersi creato un’altra identità, il celebre Mattia Pascal di Pirandello ritorni nella sua polverosa biblioteca di paese. Se i libri hanno il potere di farci vivere una quantità di vite diverse, quale migliore contesto di un luogo dove tuffarsi tra accattivanti scaffali di volumi. Negli ultimi anni poi la vicenda di queste istituzioni ricalca molto il romanzo pirandelliano. Date per morte con l’avvento delle nuove tecnologie e le recenti frontiere del libro (per esempio l’e-book), in realtà sembrano godere di una nuova primavera. Come dimostra anche l’ultimo interessante rapporto a cura di Chiara Bernardi edito dal Mulino col titolo Le biblioteche il mercato del libro. Analisi di settore e prospettive di sviluppo.
Oggi nel nostro Paese si stimano oltre 15 mila biblioteche di pubblica lettura che custodiscono quasi 200 milioni di libri e documenti e attirano ogni anno poco meno di 10 milioni di utenti. Sono numeri che sfidano una situazione tutt’altro che definita: i cambiamenti indotti dall’era telematica, gli sviluppi normativi tesi a proteggere il diritto d’autore, l’attuale dibattito sui prestiti a pagamento. Tutte questioni che saranno al centro del prossimo congresso mondiale dell’International federation of library associations (Ifla), la maggiore organizzazione internazionale che raggruppa i bibliotecari. L’evento quest’anno si terrà a Milano da domenica prossima fino al 27 agosto. Un’occasione per fare anche il punto sulla particolare realtà italiana in cui preoccupano innanzitutto i bassi indici di lettura (nel tempo libero ormai 6 connazionali su 10 preferiscono dilettarsi lontano dalle pagine scritte).
E poi la diffusione delle biblioteche, concentrate per lo più nel nord Italia ( qui si trovano il 50% delle istituzioni nazionali), e la loro dimensione: ben il 45% di esse non raggiunge neppure i 5 mila volumi (soprattutto al Sud). Se poi è certificato che possono contribuire allo sviluppo e al mantenimento della propensione alla lettura, non è affatto matematico che a una maggiore diffusione delle biblioteche si accompagni un aumento dei lettori. Ma, come conferma la ricerca, è determinante l’offerta della biblioteca: la facilità dei servizi di prestito, la bravura nel rinnovare periodicamente il patrimonio e renderlo adeguatamente informatizzato. Importante appare in tal senso l’iniziativa della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, che, sull’esempio della Bibliothèque de France, intende allearsi con Google per digitalizzare gli oltre sei milioni di titoli a costi irrisori (appena 160 euro per una media di 200 pagine). Un esempio di vitalità dinanzi a un inquietante 11% di biblioteche italiane censite che non ha alcun utente o non effettua alcun prestito, perché chiuse o non opportunamente valorizzate. Eppure lì dove funzionano, i risultati si vedono.
L’indagine del Mulino relativa alla Lombardia, in cui si trovano circa il 20% delle biblioteche d’Italia, dimostra un’impennata dei prestiti tra il 2000 e il 2006: solo a Milano Est la crescita è del 60% con punte del 70-80% in alcuni comuni. Anche se il dato più confortante a livello nazionale è un altro: nonostante le profonde differenze tra diverse aree geografiche, le biblioteche raccolgono maggior favore tra i lettori bambini e giovani fino a 24 anni. Senza dimenticare i benefici resi all’intero sistema editoriale. Già ora le biblioteche rappresentano il 5% del mercato librario: un cliente determinante per gli editori, sia per la quota di volumi acquistati; sia per la maggiore resistenza dei testi, in quanto a differenza delle librerie, questi istituti non hanno il diritto di restituzione. E soprattutto, come evidenzia il rapporto, il libro preso in prestito non rappresenta una mancata vendita per il settore del libro in quanto soddisfa altri bisogni. Anzi. Se oggi le librerie sono ancora il canale di vendita principale, nonostante l’aumento dei canali alternativi (Internet e grande distribuzione – supermercati, eccetera –), e se queste si concentrano per lo più nelle aree metropolitane, le biblioteche intercettano un pubblico difficilmente raggiunto dai canali tradizionali: sia offrendo il prestito, sia favorendo l’acquisto. Oltre al ruolo attivo nella promozione della lettura, che esse svolgono attraverso eventi ed iniziative. Tutti fattori che, se doverosamente considerati dalle istituzioni pubbliche, scongiurano un de profundis anticipato per questi luoghi di cultura. E promettono lunga vita al "fu" topo di biblioteca.
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Dove un muro non può dividere

La domenica senza stampa locale ci permette di vagabondare tra gli organi di informazione cercando qualche cosa notevole interessante o utile da riproporre qui. Così questo articolo di Giorgio Bernardelli dall'edizione di ieri di Avvenire.
Hebron, la strage dimenticata.
Rassegna stampa.

Sessantasette ebrei uccisi in poche ore dagli arabi della città. Il tutto a due passi dalla Grotta di Macpela, il terreno acquistato da Abramo per dare sepoltura alla moglie Sara (Genesi 23,1- 20) che per la Scrittura è la primizia della Terra promessa. Si compiva così – esattamente ottant’anni fa a Hebron – la prima strage di massa del conflitto israelo­palestinese. Purtroppo la storia ce ne avrebbe poi raccontate anche tante altre. Eppure ritornare indietro a quel 23 agosto 1929 può aiutare a capire molti dei motivi per cui la Terra Santa continua a non trovare pace.
Nell’agosto 1929 Hebron era una città di 17 mila abitanti, al cui interno viveva una comunità di circa 750 ebrei. Non si trattava di pionieri sionisti appena arrivati dall’Europa in Terra di Israele, ma di ebrei orientali che nella città di Abramo ci vivevano da generazioni. Perché Hebron era una delle quattro città della Terra Santa mai abbandonate del tutto, nemmeno durante la diaspora. Troppo importanti perché non vi rimanesse almeno un piccolo resto d’Israele. La tragedia si consumò inaspettata, nel giro di pochi giorni. Il 20 agosto– avvertendo la tensione che saliva a Gerusalemme – i leader dell’Haganah ( la forza di autodifesa che i sionisti avevano iniziato a organizzare) avevano contattato la comunità ebraica di Hebron, offrendo protezione.
Ma si erano visti respingere al mittente: i responsabili si sentivano al sicuro nella città di Abramo, avevano fiducia nei loro vicini arabi. Invece, appena tre giorni dopo si consumò il dramma: voci (rivelatesi poi false) su due arabi rimasti uccisi a Gerusalemme in scontri con i sionisti scatenarono l’assalto alle case degli ebrei. La polizia araba disertò e un unico ufficiale britannico si trovò a dover fronteggiare la rivolta. I rinforzi arrivarono solo parecchie ore dopo. I racconti tramandati dai superstiti sono terribili: famiglie trucidate, assalti all’arma bianca anche contro i bambini, donne violentate.
Che cosa scatenò davvero la strage? Da parte araba c’era ormai la consapevolezza che i rapporti di forza stavano cambiando: dopo la Dichiarazione Balfour del 1917 gli ebrei non erano più un piccolo gruppo minoritario, ma una nuova presenza dinamica, che andava a rimescolare tanti equilibri in Palestina. Di certo i fatti di Hebron furono uno shock terribile per i pionieri giunti da poco in Terra d’Israele. A molti ricordarono i pogrom subiti dagli ebrei nella Russia zarista. E a rendere ancora più dura da digerire questa realtà ci pensarono gli inglesi che, rivelatisi incapaci di gestire la situazione, decretarono all’indomani del massacro l’evacuazione degli ebrei da Hebron. Così – oltre a piangere i morti – si ritrovarono anche esiliati dalla città di Abramo.
Questa vicenda segnò uno spartiacque. Se prima del 1929 tra i sionisti c’erano state anche voci che ponevano apertamente la questione del rapporto con gli arabi (qualcuno avanzava addirittura l’idea di uno Stato bi-nazionale una volta tolti di mezzo gli inglesi), dopo i fatti di Hebron la questione della difesa delle comunità ebraiche sarebbe diventata la priorità riconosciuta da tutti. E la lontananza dalla città di Abramo – confermata dopo la nuova rivolta araba del 1936 – sarebbe rimasta una ferita aperta per gli ebrei ortodossi. Non a caso – dopo la Guerra dei sei giorni del giugno 1967, quando Israele assunse il controllo di tutta la sponda ovest del fiume Giordano – Hebron sarebbe poi diventato uno dei primi insediamenti in Cisgiordania. Qui i coloni ci arrivarono con un vero e proprio blitz: il rabbino Moshe Levinger ottenne nell’aprile 1968 un permesso speciale per poter celebrare la Pasqua ebraica nella città della Tomba dei patriarchi.
Ma una volta arrivato insieme ad alcuni compagni issò una bandiera israeliana sul Park Hotel e dalla città non se ne andò più. Dopo di lui sono arrivate altre centinaia di coloni: 500 di loro oggi vivono blindatissimi nel cuore della città araba, che oggi conta 130 mila abitanti. Altri 7 mila vivono invece a Kiryat Arba, l’insediamento ebraico costruito a est, subito fuori dai confini municipali. Hebron rimane tuttora il nodo più complesso per chi ragiona sulle possibili soluzioni del conflitto israelo- palestinese. Perché in qualsiasi ipotesi che preveda la nascita dei due Stati la città di Abramo non potrà che stare dalla parte palestinese. E, infatti, lo stesso tracciato del muro di separazione tra Israele e i Territori sancisce questo fatto. Nessun ebreo osservante però è disposto ad accettare di essere nuovamente separato da Hebron.
E – proprio per questo – in tutta questa zona il muro di separazione non è stato costruito. La pace per divenire realtà avrebbe bisogno di qualche forma di convivenza accettabile intorno alla Tomba dei patriarchi. Invece proprio qui sembrano concentrarsi – da una parte come dall’altra – gli estremisti più pericolosi. Perché non bisogna dimenticare che Hebron nel frattempo ha vissuto anche un’altra strage: quella compiuta dal colono Baruch Goldstein, che nel febbraio 1994 sparò all’impazzata uccidendo 30 musulmani che si recavano alla Tomba di Abramo. Voleva vendicare i morti del 1929; e ancora oggi a Hebron c’è chi lo considera un eroe. Bruciano ancora le ferite di quel 23 agosto di ottant’anni fa. Pro-memoria di un conflitto che è lungo e complesso. Ma anche dell’intreccio inestricabile tra arabi ed ebrei che nessun muro potrà mai risolvere davvero.
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Non si governa al bar

La guerra di Bossi al Vaticano.
Dalle agenzie - Agi.

Sempre più rovente la polemica sulla tragedia dei 73 immigrati morti nel Canale di Sicilia. La presa di posizione dei vescovi italiani non è piaciuta a Umberto Bossi: "Sono parole con poco senso - ha attaccato il leader del Carroccio -. E perché le porte non le apre il Vaticano, che ha il reato di immigrazione? Diano loro il buon esempio. Dato che nessuno accoglierà la gente senza controlli, bisogna assolutamente fermare le partenze - ha aggiunto -. Partono molto meno di prima, ma bisogna riuscire a fermarli, altrimenti si prosegue con un sacco di morti. Con gente che rischia la vita per niente perché quando arriva qui non ci sono posti di lavoro". Il Vaticano però resta sulle sue posizioni.
"L'ennesima tragedia della migrazione - afferma il presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, mons. Antonio Maria Vegliò - ci ricorda quanto scrive Benedetto XVI nella Caritas in veritate: «Ogni migrante è una persona umana» che «possiede diritti fondamentali inalienabili» da rispettare «in ogni situazione»". Secondo l'arcivescovo, serve "una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato. Quindi - spiega il capo dicastero - se da una parte è importante sorvegliare tratti di mare e prendere iniziative umanitarie, è legittimo il diritto degli Stati a gestire e regolare le migrazioni. C'è tuttavia un diritto umano ad essere accolti e soccorsi. Ciò - aggiunge mons. Vegliò - si accentua in situazioni di estrema necessità, come per esempio l'essere in balia delle onde del mare. Per centinaia di anni i capitani delle navi non sono mai venuti meno al principio fondamentale del diritto del mare, che prevede si debbano sempre soccorrere i naufraghi che si incontrano". In proposito, Vegliò rileva che "il numero di potenziali migranti naufragati o vittime alle frontiere dell'Europa ha contato oltre 14.660 morti".
"Il nostro Pontificio Consiglio - sottolinea - è addolorato per il continuo ripetersi di queste tragedie". Ma, rileva, analoghe situazioni "si verificano geograficamente in zone diverse, come accade nel Mediterraneo, nello stesso tempo ci sono circostanze di disperazione anche nel deserto alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, oppure in Estremo Oriente, all'interno dell'Africa sub-sahariana, e ovunque ci siano rilevanti flussi migratori. La realtà - spiega l'arcivescovo - è la medesima. Colpisce esseri umani che cercano di raggiungere Paesi o regioni economicamente più sviluppati, per fuggire povertà e fame. Per questo sono pronti a rischiare tutto, anche la loro stessa vita". Nell'intervista, il presule ricorda poi la richiesta di Papa Ratzinger, per il quale "si dovrebbero armonizzare i diversi assetti legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati".
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