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lunedì 31 agosto 2009

«L'uomo più intellingente d'Europa»

Il titolo è una affermazione, l'ultima dei due filmati che vi proponiamo alla visione.
Berlusconi apre le porte agli immigrati (ma a Tunisi).
VideoPost.

I due video - in realtà un video in due parti - testimoniano la performance del presidente del consiglio lo scorso 18 agosto, in visita privata a Tunisi, regalata all'umanità, al termine di un incontro con il presidente tunisino Ben Alì, partecipando a Ness Nessma, programma della televisione satellitare tunisina Nessma TV, acquisita lo scorso anno per il 50 per cento da Mediaset e dalla società di Tarak Ben Ammar Quinta Communications. Interpellato sui temi dell'immigrazione dalla tv maghrebina di sua proprietà, guardata da centinaia di migliaia di nordafricani, ha sostenuto la necessità di "aumentare le possibilità di entrare legalmente in Italia" (alla faccia delle quote) e che il nostro paese ha “il dovere di guardare a quanti vogliono venire in Italia con totale apertura di cuore, e di dare a coloro che vengono in Italia la possibilità di un lavoro, di una casa, di una scuola per i figli e la possibilità di un benessere che significa anche la salute, l'apertura di tutti i nostri ospedali per le loro necessità", dichiarando che "questa è la politica del mio governo". Un po' di vergogna c'è sapendo di essere rappresentati nel mondo dall'«uomo più intelligente d'Europa».




Il video è stato trovato, sottotitolato e reso disponibile dal blogger e collaboratore de l'Unità Daniele Sensi.
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L'armageddon mediatico frutto di vendetta

La Efj interviene sulla querela a Repubblica e Le Nouvel Observateur.
I giornalisti europei condannano «la vendetta mediatica» di Berlusconi.
«Sta mettendo a rischio la libertà di informazione cercando di usare la legge per intimidire».

Rassegna stampa - Corriere della Sera.it

Bruxelles - La Federazione dei giornalisti europei (Efj), che fa parte della Federazione Internazionale (Ifj), ha condannato «le vendetta mediatica» del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, riferendosi alla querela a Repubblica e al francese Nouvel Observateur e «all'attacco» ad Avvenire. In un comunicato il segretario generale dell'Efj e dell'Ifj Aidan White ha affermato che il premier «sta mettendo a rischio la libertà di informazione cercando di usare la legge per intimidire i giornalisti e soffocando i reportage giornalistici».
Secondo l'Efj, si legge in un comunicato, «il premier sta mettendo la libertà di stampa al fil di spada lanciando una vendetta legale contro i media a casa e all'estero per dare notizie sulla sua agitata vita privata». «È comprensibile che voglia tenere la sua colorita vita personale lontana dai titoli», ha osservato White, mentre l'Efj rileva come Berlusconi«abbia spesso usato il suo potere sia come magnate dei media sia come leader politico per intimidire i media e i singoli giornalisti». «Ma questa volta ha oltrepassato il segno, cercando di soffocare del giornalismo imbarazzante, ma legittimo a casa e all'estero», afferma l'Efj. La federazione sottolinea che Berlusconi ha querelato la Repubblica «semplicemente per avergli fatto pubblicamente dieci domande».
«Al tempo stesso il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi, sta attaccando il quotidiano cattolico Avvenire. Inoltre Berlusconi sta querelando il settimanale francese Le Nouvel Observateur e ci sono notizie secondo le quali i suoi avvocati stanno verificando la possibilità di citare i giornali britannici, inclusi quelli di proprietà del suo ex amico Rupert Murdoch». «L'Efj ritiene che l'attacco di Berlusconi contro la stampa sul suo comportamento personale sia inaccettabile in Italia e altrove. L'attacco ad Avvenire, un rispettabile giornale della Chiesa, ha aumentato l'indignazione pubblica sulle sue azioni».
White sottolinea che l'Efj appoggia la Fnsi «nella sua richiesta che Berlusconi e i suoi alleati politici rispettino i media indipendenti e liberi in Italia», si legge nel comunicato che cita il segretario della Fnsi Franco Siddi, secondo il quale «la denuncia alla Repubblica e l'attacco ad Avvenire sono la prova di una spettacolare intimidazione dei media e dei giornalisti che fanno domande, esprimono opinioni e perfino discutono dell'influenza della vita privata di Berlusconi sulla politica».
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«Un'intimidazione di tipo mafioso»

Monsignor Mogavero spiega di avere cestinato la velina che sembrava un messaggio a Ruini e Tettamanzi. Poi aggiunge: "Per il bene della Chiesa potrebbe anche dimettersi".
Boffo, nuove proteste dei vescovi.
Il Gip: "Nessuna informativa".
Rassegna stampa - Repubblica.it

Roma - Nel fascicolo riguardante il procedimento per molestie a carico di Dino Boffo "non c'è assolutamente alcuna nota che riguardi le sue inclinazioni sessuali". A confermarlo è il gip di Terni Pierluigi Panariello. Che cos'è allora la "velina" anonima recapitata ai vescovi italiani (che l'hanno cestinata) e finita nelle mani di Feltri (che l'ha citata testualmente sul Giornale)? "Un'intimidazione che da siciliano definirei di tipo mafioso", risponde monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo.
Il vescovo. Ricevuta l'informativa sul direttore dell'Avvenire, il monsignore racconta di averla "cestinata" e di essere "rimasto indignato della cosa". Un testo del genere, "indirizzato a più persone", ha lo scopo di "un avvertimento" che, osserva il vescovo, "io da siciliano definirei di tipo mafioso" in particolare "nei confronti dei due cardinali citati, Camillo Ruini e Dionigi Tettamanzi". L'intera vicenda legata a questa informativa per Mogavero è "un affaraccio brutto","inquietante", "spazzatura maleodorante" e "prestarsi a un gioco di questo genere è offensivo della dignità delle persone, della libertà di stampa e anche di una certa professionalità. Non credo proprio - sottolinea - si tratti di un autentico scoop".
Il vescovo di Mazara del Vallo ragiona anche sulle conseguenze del caso Boffo. "Bisogna capire - spiega - che quando si entra nel piano della rappresaglia si sa da dove si comincia ma non si sa dove si va a finire, soprattutto perchè esistono persone che poi in queste situazioni ci sguazzano. Certi signori - rimarca - si sono assunti la responsabilità morale di aver messo in moto un meccanismo che speriamo si fermi qui". In merito alla rivendicazione del direttore del Giornale di avere agito in autonomia dal presidente del Consiglio, Mogavero afferma: "Nessuno nega autonomia a Feltri ma non sono disponibile a pensare che nessuno della proprietà del Giornale fosse al corrente di quanto si stava per pubblicare, saremmo fuori dal mondo se si sostenesse una cosa del genere. Può essere che non lo sapesse il presidente del Consiglio - conclude - ma non la proprietà".
Tutta la vicenda "peserà sui rapporti Stato-Chiesa". Infatti, "se il premier - continua il vescovo - cerca un riavvicinamento con la Chiesa deve semplicemente cambiare stile di vita, deve semplicemente fare il politico e non il manager o l'uomo di spettacolo". Poi, prosegue Mogavero, "il giudizio sulla sua politica lo daranno il Parlamento e la storia ma se cerca la vicinanza con il mondo ecclesiastico deve assumere un rigoroso stile di vita". "Non ci interessa la sua vita privata - conclude - ci interessa che non ne faccia motivo di spettacolo". Secondo Mogavero la vicenda si trasformerà in "una bomba a orologeria" e, aggiunge, "mi dispiace che il povero Boffo abbia dovuto pagare un prezzo così alto ma se questo è servito a far saltare l'incontro tra il segretario di stato vaticano il card. Tarcisio Bertone e il premier Silvio Berlusconi all'Aquila, sono contento".
Tornando sull'argomento e rispondendo alle domande dei giornalisti Mogavero sostiene che Boffo potrebbe anche dimettersi "non certo per ammissione di colpa", ma "per il bene della Ghiesa e del giornale". "Se ritiene che tutta la vicenda - dice il monsignor - pur essendo priva di fondamento, possa nuocere alla causa del giornale o agli uomini di Chiesa Boffo potrebbe anche decidere di dimettersi". Ma così non sarebbe un'ammissione di colpa? "In effetti in Italia chi si dimette è sempre ritenuto colpevole. Ma non sempre è così".
Il giudice di Terni. Il gip di Terni conferma che la "velina" utilizzata da Il Giornale di Feltri per la Giustizia non esiste e non è mai esistita, così come nessuna nota che riguardi l'orientamento sessuale di Boffo. Il giudice di Terni si sta occupando della vicenda essendo stato chiamato a decidere in merito alle richieste di accesso agli atti presentate da diversi giornalisti. Sulla medesima istanza deve esprimere un parere anche il procuratore della Repubblica Fausto Cardella. Dopo che lo avrà fatto gli atti passeranno al gip che dovrà pronunciarsi (una decisione è attesa non prima di domani mattina). Già in passato altri cronisti presentarono richiesta di accesso agli stessi atti ma il gip di allora respinse le istanze. La vicenda di Boffo venne definita con un decreto penale di condanna di 516 euro relativo al reato di molestie alla persona. Un atto al quale il direttore di Avvenire non fece opposizione e quindi la vicenda si chiuse senza la celebrazione del processo. Nell'indagine venne ipotizzato anche, inizialmente, il reato di ingiurie, ma la querela che ne era alla base - secondo quanto emerge dallo stesso fascicolo - venne poi rimessa. Tra gli atti del procedimento non figurano intercettazioni telefoniche. Ci sono invece i tabulati relativi al telefono di Boffo dal quale partirono le presunte chiamate moleste.
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Dai primi passi si conosce il percorso

Nei giorni scorsi abbiamo ripubblicato qui molti articoli ed interventi sulla vicenda della moschea di Casalpusterlengo. Il Cittadino di oggi pubblica due lettere che riportiamo per completezza qui sotto.
Rassegna stampa.
Un giudizio sui primi passi della giunta.

È certamente prematuro giudicare l’operato di un’amministrazione, essendo trascorsi poco più di due mesi dal suo insediamento, tuttavia dalle sue prime mosse e dalle sue prime azioni si possono trarre delle indicazioni che mi fanno constatare come questa si presenti come l’amministrazione del meno, nel senso che, allo stato attuale, sono più le cose tolte di quelle date.
Ma andiamo con ordine, facendo per correttezza una premessa: sono stato per cinque anni consigliere comunale di maggioranza nella precedente amministrazione di centrosinistra e quindi con un’appartenenza ed una collocazione politica ben chiara.
Siamo in piena sagra patronale e quest’anno, per la prima volta da 70 anni, non ci sarà un appuntamento storico e molto apprezzato non solo dai casalini; mi riferisco alla gara ciclistica del lunedì per le vie della città. Certo, mi si può dire che non c’erano fondi ma, coinvolgendo le associazioni di categoria, attraverso le sponsorizzazioni ed un po’ di determinazione e volontà credo che l’obiettivo si potesse raggiungere. Inoltre, dopo oltre un quinquennio di più che buone rappresentazioni di prosa (anche con artisti di fama nazionale), di lirica e di proiezioni cinematografiche, avremo una stagione priva di eventi culturali e di intrattenimento che hanno sempre riscosso un grande successo di pubblico. Oltretutto le serate al cinema o a teatro raggiungevano anche lo scopo di rivitalizzare il centro città e dare impulso ai locali che si affacciano sulla piazza.
I nostri anziani non godranno più dell’assicurazione riservata agli ultra sessantacinquenni contro i furti ed i conseguenti danni. Mi si può replicare che era poca cosa e che ne avevano usufruito in pochi ma, visto il modesto impatto economico ed il valore sociale dell’iniziativa, era un buon segnale mantenerla in vita. Smetterà di funzionare anche il magazzino di raccolta e distribuzione
di mobili ed elettrodomestici usati gestito dal Movimento Lavoratori Credenti di Don Barbesta, perché il capannone che lo ospita non è a norma. Non ci si può sempre nascondere dietro motivazioni di natura economica; le scelte che un’amministrazione compie sono soprattutto di natura politica e sociale perché se è vero, e lo è, che i maggiori utenti del magazzino sono cittadini extracomunitari, è altrettanto vero che la stragrande maggioranza di coloro che conferiscono al magazzino (quasi sempre con un servizio a domicilio e pressoché a costo zero) il mobilio dismesso sono cittadini italiani, che ben apprezzano questo servizio per indubbia comodità e per la finalità sociale del medesimo.
In meno, forse, abbiamo qualche extracomunitario almeno stando all’enfasi con cui la stampa ha pubblicizzato le azioni messe in campo dall’amministrazione (con corredo di immagini fotografiche, spesso le stesse o al più variando l’angolo di ripresa della medesima scena), che
vanno dalle ordinanze emesse dal Sindaco all’intervento di consiglieri comunali o segretari di partito “sceriffi”.
Sarà poi vero? La sensazione è che nulla sia cambiato. Quali sono poi le intenzioni dell’amministrazione in merito all’Azienda Speciale? Oltre alla ventilata chiusura della parafarmacia di Via Conciliazione, c’è la volontà di accelerare l’iter autorizzativo della nuova casa di riposo, al fine di poter dare una sistemazione dignitosa e funzionale agli ospiti anziani ed al personale che li accudisce? Mi risulta che recentemente la sala pranzo dell’attuale casa di riposo abbia avuto del distacco di intonaco dal soffitto ed i problemi, per chi la vive e chi la frequenta, non sono solo questi! Se esiste la volontà politica e sociale, mi sembra che ostacoli non ve ne siano o siano facilmente superabili: l’amministrazione locale è governata dal centrodestra, come pure la Provincia, la Regione, l’Azienda Sanitaria Locale, ossia tutti quegli enti ed istituzioni coinvolti nel processo autorizzativo e negli accreditamenti.
Vogliamo vivere in una città più bella? Allora, per cortesia, evitiamo quelle brutture quali sono i rattoppi alla pavimentazione in porfido di Largo Casali, in pieno centro, utilizzando del catrame per stabilizzare i cubetti dissestati! Per ultimo, la sicurezza è un concetto integrato che passa anche per una città adeguatamente illuminata: vorrei segnalare che in Via Don Mazzolari i lampioni dell’illuminazione pubblica sono rotti da tempo. Mi rendo conto che questo mio testo manca di organicità e sembra più una lista della spesa, ma gli argomenti che ho voluto toccare sono molteplici e tutti, amio dire, significativi dei primi passi di questa Amministrazione.
Per concludere, da casalino auguro a tutti i concittadini una Buona Sagra nel segno della socialità, della partecipazione, della solidarietà, della serenità e del vivere civile.
Gianni Guardinceri

Non servono le prove di forza.

Non vorremmo fare nessuna “lezioncina” al neo sindaco di Casalpusterlengo Flavio Parmesani, leghista a guida di una giunta di centro destra, sulla vicenda della moschea ma ci sentiamo di suggerirgli qualcosa. Un passo indietro prima, per riassumere brevemente il caso.
A pochi giorni dall’insediamento la giunta concentra subito la sua attenzione, oltre che sulla massiccia presenza di stranieri in città, sul centro islamico di via Fugazza, un ex negozio di moto trasformato in luogo di ritrovo per i fedeli della città e della Bassa che mai, ci risulta, ha creato particolari problemi di ordine pubblico. In piena estate sindaco, assessori e vigili urbani vanno per effettuare un sopralluogo sui parcheggi esterni e nel frattempo danno un’occhiata all’interno, ravvisando diverse irregolarità di natura tecnica. Onde per cui, è la tesi dell’amministrazione comunale, questo spazio va subito chiuso.
Dopo una serie di annunci da parte del sindaco, “finalmente” il 26 agosto scorso viene emessa la tanto agognata ordinanza. Primo problema: è iniziato il Ramadan, il mese sacro per gli islamici, che a decine si ritrovano qui per la preghiera quotidiana. A nulla serve l’invito del sindaco rivolto agli islamici di andare altrove, leggasi Lodi, a pregare. Non se fa niente, ribatte il primo cittadino del capoluogo Guerini: «La moschea di via Lodi Vecchio non può ospitare altre persone, si rischia il caos». Che fare allora? Dopo aver inutilmente tentato di “mostrare i muscoli” alla città e agli elettori che lo hanno votato, il sindaco è costretto a fare una prima retromarcia, trovando una soluzione che in tempi di Prima Repubblica avrebbero definito un “pastrocchio”: gli islamici per ora restano al loro posto per pregare, cioè in via Fugazza, spazio teoricamente fuorilegge per stessa ammissione del comune, nel frattempo può partire la sistemazione di un magazzino di via Adda (notare, in un nuovo complesso residenziale, con le famiglie pronte a scendere sul piede di guerra contro la “sgradita” presenza degli islamici) che non sarà pronto che per i primi di settembre.
Un buon amministratore, crediamo, è quello che fa rispettare le leggi anche con un pizzico di buon senso. Caro sindaco, non si poteva forse cercare una soluzione alternativa, consentendo agli islamici
di passare il Ramadan nella loro sede storica, per avere così nel frattempo tutto il tempo di trovare un nuovo spazio per moschea e centro culturale? In questo modo si sarebbero evitati tanti isterismi di parte, compreso quello della comunità musulmana che davanti alla sua posizione si sarebbe detta addirittura pronta a pregare in piazza. La città non ha bisogno di prove di forza (come anche quella sul magazzino dei Lavoratori Credenti di Zorlesco), i cittadini sono sufficientemente intelligenti per capire che, come ogni forza politica, anche voi tentate prima di tutto di fare del vostro meglio per l’amministrazione cittadina.
Lettera firmata
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I motivi di una sconfitta

Sempre Il Cittadino di oggi pubblica una lettera di Ermanno Tarenzi, candidato indipendente del Partito Comunista dei Lavoratori alle elezioni comunali 2009 a Casalpusterlengo, che cerca di spiegare o spiegarsi i motivi di una sconfitta.
Politica. Una sconfitta che viene da lontano.
Rassegna stampa.

Se qualcuno vuol cercare di capire i perché della disastrosa sconfitta del centro sinistra, nelle ultime elezioni, non ha che da scorrere i giornali locali. Dopo un accenno di dibattito autocritico (subito soffocato da interventi che si potrebbero definire intimidatori, come nel caso d’Abdou, presidente della commissione immigrati) messo a tacere con interventi decisamente volgari, è calato un silenzio tombale sulla discussione e il confronto. C’è naturalmente una ragione a tutto ciò. Ed è il fatto che in alcune realtà quello a cui noi assistiamo è la conclusione di un processo politicamente disastroso.
Il seme della debacle elettorale del centro sinistra, e del Partito Democratico è stato gettato diverse stagioni fa. Nel congresso provinciale di scioglimento dei Democratici di Sinistra, nessun delegato con l’eccezione di Giuseppe Foroni allora segretario generale della camera del lavoro lodigiana, intervenne sui temi del lavoro, tanto quello fisso che quello precario: da quell’assise politica i problemi dei lavoratori furono completamente assenti.
Per tanti anni mi ero meravigliato e scandalizzato del fatto che i democristiani nei loro congressi non parlassero quasi mai dei lavoratori. Adesso dovevo assistere alla stessa cosa in quel congresso d’ex comunisti (a questo punto davvero ex). Del resto quel congresso era il punto d’arrivo di una serie d’errori gravi dei democratici di sinistra: la legge Treu, la riforma Dini, la guerra del Kosovo, e la non approvazione della legge sul conflitto d’interessi. L’approvazione della legge Treu, che aveva introdotto la precarietà del lavoro, intervenendo esclusivamente sul mercato del lavoro, per regolare i diversi tipi di contratti sfavorevoli per i lavoratori, voluti dagli industriali e dalla confindustria.
Una situazione ulteriormente peggiorata dal governo Berlusconi, con la legge Biagi che ha aumentato questa tipologia di contratti precari creando una giungla contrattuale, assurda e inaccettabile. La riforma Dini, che avviava la distruzione del sistema pensionistico solidale e realizzava la più grande rapina del secolo ai danni di decine di milioni di lavoratori, con l’introduzione solo per i giovani del sistema contributivo ad accumulazione individuale, sistema che compromette il sistema pensionistico delle nuove generazioni.
Per un giovane l’avventura lavorativa inizia a trent’anni, se licenziato a 45 anni viene considerato vecchio e obsoleto. Però deve rimanere al lavoro oltre i settanta, se vuole ottenere la pensione. Con una decurtazione come minimo del 30%.Il conteggio della pensione col sistema contributivo è decisamente sfavorevole, rispetto al calcolo retributivo. Il primo sistema, quello contributivo, considera il valore dei contributi versati nell’arco dell’intera vita lavorativa; mentre il calcolo retributivo, solo gli ultimi 10 anni, normalmente i più vantaggiosi per quanto riguarda il valore delle retribuzioni.
A questi temi classici del lavoro, si aggiunsero la partecipazione alla guerra del Kosovo, voluta dal governo guerrafondaio di D’Alema. Il governo degli Stati Uniti, aveva chiesto all’Italia solo l’utilizzo delle basi militari. Va bene! D’Alema, voleva dimostrare a qualcuno di essere “un grande statista”, ma la base dei Democratici di Sinistra dov’era? Questo intervento guerrafondaio dell’Italia è ancora più deplorevole, perché la Serbia ha sempre mantenuto, buoni e amichevoli rapporti con il governo italiano. Per finire l’elenco dei tragici errori politici strategici del centro sinistra, la mancata soluzione al conflitto d’interessi gigantesco, che fa sì che solo in Italia il Presidente del Consiglio sia anche proprietario della gran parte dei mezzi di comunicazione di massa, la maggior casa editrice, alcuni tra i maggiori giornali e riviste controlla oltre l’80% del sistema televisivo.
Quest’ultimo è un problema non solo di “pari opportunità” politiche, ma è soprattutto una questione d’egemonia culturale. Quindici anni di berlusconismo incontrastato sul terreno della comunicazione e della cultura di massa, hanno diffuso ideologia d’individualismo proprietario contro ogni forma d’interesse pubblico, di condivisione di socializzazione. Dopo 15 anni di berlusconismo, gli italiani dovrebbero rispondere a questa semplice domanda: l’Italia d’oggi è migliore o peggiore rispetto a quindici anni fa?
Con questo brodo di cultura, contro il quale il centro sinistra non ha opposto alcuna educazione al bene comune, alla solidarietà attiva, al rispetto della dignità dei lavoratori, non è difficile spiegare la pesante legnata delle elezioni provinciali. E davvero la legnata presa nelle elezioni provinciali è stata pesante, se solo si pone mente al fatto che nelle precedenti elezioni Felissari era stato eletto col 54%dei voti e adesso ha perso il 17% dei consensi.
Una ragione specifica di questa elezione è stata la candidatura di un Consigliere Regionale: sbagliata e debole. È stato sottovalutato il fatto che il suddetto, da quando è Consigliere Regionale ha perso molto della fiducia e del consenso ottenuto, perché non ha mai cercato un dialogo diretto con i propri elettori, informandoli per esempio sulle decisioni, le scelte della Regione Lombardia per quanto riguarda la sanità, il lavoro, le comunicazioni, l’agricoltura. Oppure illustrando il suo impegno come consigliere d’opposizione, i risultati ottenuti, le scelte subite (qualcuno ha ben detto che si può imparare di più da una sconfitta che da una vittoria). Senza considerare il fatto che gli elettori non hanno mai gradito le doppie candidature e i doppi incarichi politici.
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Sulla libertà bisogna vigilare ogni giorno

Riportiamo la lettera di Andrea Ferrari, assessore alla Cultura del Comune di Lodi, che Il Cittadino di oggi pubblica nelle pagine di "Lettere & Opinioni.
Martiri. Costruire una memoria collettiva.
Rassegna stampa.

Sono passati 65 anni dal drammatico episodio dei Martiri del Poligono che ci troviamo ancora una volta qui a commemorare. Un arco temporale breve da un punto di vista della analisi e della lettura storica di quello specifico periodo ma sufficientemente lungo per rischiare di non essere più collocato e compreso dalle nuove generazioni che non hanno, fortunatamente, vissuto quei drammatici anni. Credo sia allora importante tentare di ricordare il contesto entro cui avviene l’episodio dei Martiri e anche il clima che si respira in chi tenta di liberarsi, anche nel Lodigiano, del regime fascista.
Nel Lodigiano la fine del governo Mussolini viene festeggiata con feste popolari; molti agricoltori concedono ai propri dipendenti la possibilità di partecipare alle dimostrazioni di piazza e nelle fabbriche si formano le prime Commissioni interne. Con la nascita della Repubblica Sociale Italiana circa il 70% dei soldati sceglie di non tornare nelle caserme e di non farsi catturare; in questo la popolazione delle città e della campagna contribuisce in modo fondamentale: persone delle più diverse estrazioni sociali e politiche rinunciano al denaro promesso a chi collaborava alla cattura, rischiando il carcere e la deportazione.
Anche nella nostra città la repressione mostra il suo volto; tra i primi ad essere arrestati il curato di S. Bernardo don Davide Perniceni e l’agricoltore Panti Boselli di Lodi Vecchio, mentre tra coloro che vennero deportati vi sono Ettore Archinti, Edoardo Mazzi e Isa Folli. In questo clima, in cui il fascismo repubblichino continua a compiere deportazioni e uccisioni, si inserisce l’episodio drammatico di Oreste Garati, detto “Falco Rosso”, e del suo gruppo.
Il duplice attentato del 10 luglio al gerarca Paolo Baciocchi e al Commissario Prefettizio Gino Sequi convince i fascisti a compiere un rastrellamento nella zona tra Spino d’Adda, Villa Pompeiana e Galgagnano. Alla cascina Cagnola, il 26 luglio, vengono fucilati barbaramente l’agricoltore Celestino Sfondrini (a cui vengono concessi 5 minuti per salutare i propri familiari) e tre contadini, Michele Vergani e Giuseppe e Artemio Massari. Nello stesso giorno a Villa Pompeiana vengono fucilati anche sette giovani renitenti. Questo rastrellamento, il più duro e cruento di tutto il Lodigiano, non riesce comunque a individuare gli attentatori di Baciocchi e Sequi.
Il 21-22 agosto viene arrestato il gruppo di Falco Rosso e alle 13 del giorno successivo, senza nessuna sentenza di tribunale, senza nessun processo e senza che si sapesse chi lo decise, vengono fucilati, dopo aver subito terribili torture, Oreste Garati, Franco Moretti (16 anni), Ettore Maddè (19 anni), Lodovico Guarnieri (21 anni) e Giancarlo Sabbioni (17 anni). Ai genitori e parenti viene concesso di aprire le bare e riconoscere quel che resta dei propri cari solo il mattino dopo. Un particolare questo che, proprio per la sua inumanità, rimane nella memoria collettiva lodigiana come uno dei momenti in cui il regime mostra la sua faccia più feroce e vendicativa.
Il Poligono fu ancora triste teatro nei mesi successivi di altre fucilazioni di giovani partigiani: persero la vita Frigoli di Livraga (19 anni), De Avvocatis di Napoli (20 anni), Zaninelli di San Martino (23 anni), Biancardi di Livraga (27 anni).
Credo che solo comprendendo questo contesto sia possibile, per un giovane, capire oggi le scelte coraggiose, di persone che cresciute nelle organizzazioni fasciste, scelgono di mettere in gioco la propria vita facendo una scelta che potremmo definire di vero e proprio impegno civile. È questo tratto essenziale, questa scelta “ribelle” (nel segno di una ribellione morale e, appunto, civile) il primo e più originario carattere della Resistenza: l’elemento che la qualifica sul piano dei principi e che divide come un abisso chi lotta per la libertà e chi vuole soffocarla.
Penso che da un punto di vista culturale si sia più volte tentato di far passare l’idea che la popolazione “civile” si ponesse in una posizione neutrale tra fascisti e partigiani, eludendo in modo consapevole il fatto, innegabile, che i repubblichini erano stati fino all’ultimo collaborazionisti e complici dell’occupazione nazista, e che la Resistenza sia stata una vera lotta popolare, poiché diffusa in ampi strati della popolazione, con forte trasversalità di condizione sociale, formazione culturale e posizione politica. È probabile che il tentativo di ribaltare la lettura di questi dati miri innanzitutto ad “isolare” la Resistenza, presentandola come fenomeno relativo ad una ristretta fazione non effettivamente rappresentativa del sentire comune e prevalente degli italiani, minando così alla base il valore “universale” delle leggi costituzionali della lotta antifascista.
Si deve invece rifiutare l’uso politico e strumentale della storia, che comporta fatalmente l’alterazione e la manipolazione di verità fondamentali, ormai date ed acquisite sulla base di rigorosi riscontri. Un revisionismo serio e costruttivo dovrebbe al contrario favorire approfondimenti e rinnovate interpretazioni storiche condotti in modo oggettivo e con spirito di verità, che contribuiscano a migliorare la conoscenza e la consapevolezza del nostro passato, con riflessioni puntuali sulle condizioni della quotidianità, l’ambiente culturale, le dinamiche sociali e i numerosi fattori di convivenza civile che possono stare all’origine dei fenomeni storici.
La memoria della Resistenza non deve essere rivolta esclusivamente al passato ma è necessario che diventi uno strumento che aiuti ad essere consapevoli del presente e a proiettare la nostra società ed il nostro modello di convivenza democratica verso il futuro. Gli elementi e i valori che hanno ispirato la Resistenza devono perciò diventare elementi essenziali nella formazione delle giovani generazioni.
In questo senso, ricordare l’eccidio del Poligono deve essere inteso non tanto come un mero momento rievocativo e commemorativo, ma come un punto di partenza per costruire una memoria collettiva (in primo luogo a partire dalle scuole) di quei valori e di quei sentimenti che hanno spinto tante persone, giovani e mature, uomini e donne a credere in valori e ideali nuovi e condivisi: proprio quei valori e cui è stata improntata la nostra Carta Costituzionale, frutto di quella stagione di riscatto della libertà e della democrazia.
Mi capita a volte di cercare di immaginare il volto dei giovani che consumarono il loro sacrificio al Poligono e pensare in questo modo al volto della libertà, il volto dell’impegno (sino ad accettare estreme conseguenze) di chi ha contribuito a rendere oggi l’Italia una nazione democratica e libera. E la Libertà è un bene prezioso, perché, come diceva Piero Calamandrei «la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso d’asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai. E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso d’angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso d’angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare».
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Marasma governativo made in Italy

Sul «made in» il Nord Est si ribella alla Lega.
Rassegna stampa - l'Unità.it, Bianca Di Giovanni.

Contrordine lombardi. Dopo aver annunciato ai quattro venti che grazie al Carroccio (ministro Luca Zaia in testa) il governo Berlusconi tutelava le produzioni italiane e combatte le contraffazioni (in primis quelle dei «famigerati» cinesi), ora l’esecutivo è costretto a una precipitosa marcia indietro. Giovedì prossimo, al primo consiglio dei ministri della ripresa, saranno «congelate» le norme sul made in Italy entrate in vigore a ferragosto. Si riscriveranno utilizzando forse il «decreto salva-infrazioni dall’Ue».
Appena 20 giorni di vita, e quegli articoli sono già morti. Come mai? Il fatto è che le imprese sono in rivolta, specie quelle del nordest tanto care a Bossi e sodali. Tutte in allarme: produttori (di tutti i comparti), trasportatori, responsabili dei porti e dei container. E non solo. Anche le dogane si ritrovano nel caos più totale: non sanno come applicare le norme appena varate. Il risultato è devastante per l’economia già in profondo rosso. Il marchingegno messo in campo dal governo, infatti, imponendo regole più stringenti solo agli italiani, avvantaggia gli stranieri (che continuano come prima) e anche i «furbi», che cercano altri canali per importare merce in Italia. Le disposizioni infatti prevedono che sull’etichetta sia segnalata l’origine precisa del luogo di produzione o di fabbricazione delle merci, pena multe salate. Si tratta di un breve articolo nel più corposo provvedimento per lo sviluppo presentato da Claudio Scajola. Ma proprio quelle poche righe hanno provocato un vero terremoto.
In primo luogo perché molti prodotti erano già stati etichettati in primavera, e in agosto si sono visti bloccare l’ingresso alla dogana. In secondo luogo perché le regole non valgono per tutti, così in alcuni settori, come ad esempio l’alta moda, competitor europei (si pensi a famosi marchi francesi) possono tranquillamente entrare e circolare con la loro etichetta, mentre i marchi italiani non possono utilizzare la dicitura «made in Italy». Già dalle prime avvisaglie di malumori, il governo ha tentato di correre ai ripari con una circolare, che autorizzava le imprese ad autocertificare la legalità per le etichette stampate prima. Ma questa ulteriore norma non ha fatto altro che creare caos alle dogane e ai porti. Con il risultato che molti produttori hanno scelto Rotterdam o i porti francesi come via d’ingresso in Europa. Provocando ulteriori danni ai trasportatori di casa nostra. Come dire: un danno dietro l’altro.
Cosa manca davvero alla norma italiana, che pure si prefigge lo scopo della trasparenza e della tracciabilità? «Il fatto è che qui qualcuno non capisce che l’Italia è in Europa e nel mondo - commenta Massimo Calearo, imprenditore e deputato Pd - Dobbiamo lavorare insieme all’Europa per avere regole comuni, altrimenti è il caos. Oggi è difficile che un prodotto sia tutto made in Italy: tutti hanno delocalizzato. L’impostazione della Lega forse va bene per i piccolissimi artigiani, destinati comunque a crescere pena l’estinzione. Spero che chi ha votato il Carroccio oggi capisca cosa ha fatto». A dirla proprio tutta, non andrebbe bene neanche per i piccolissimi: si pensi ai filati in cashmere, prodotto italiano ma con filati sicuramente stranieri. «La Filtea e i sindacati europei del tessile - aggiunge la segretaria Valeria Fedeli -hanno sempre combattuto per la trasparenza e la tracciabilità. Questa è la battaglia, non quella del semplice made in Italy. Con Prodi prima all’Ue e poi a Palazzo Chigi siamo riusciti adottenere un regolamento europeo, che però alcuni stati membri (soprattutto quelli del nord, che non producono abbigliamento, ma distribuiscono, ndr) non vogliono adottare. Il governo deve farsi valere a Bruxelles, che tra l’altro è titolare delle politiche commerciali, non produrre norme “autarchiche”».
Il pasticcio delle etichette si abbatte su comparti già in crisi nera, con la domanda bassissima e la produzione che resta ferma in dogana. Lo stesso vale per i trasportatori. La Confetra ha sfornato numeri da brivido sul primo semestre 2009: trasporti internazionali a -25% rispetto all’anno prima. E oggi si ritrova che clienti costretti a rivolgersi a olandesi e francesi. «Gran parte dei marchi italiani - spiega Pieri Luzzati, direttore generale Confetra - producono all’estero. Le leggi introdotte ricadono solo sugli italiani. Gli stranieri continuano come prima, gli italiani che non vogliono farsi travolgere sdoganano in un altro Paese. Per l’Italia c’è un duplice danno. I prodotti di qualità degli altri Paesi vengono avvantaggiati, e contemporaneamente si avvantaggia chi riesce ad aggirare le norme. È una legge autolesionista, che colpisce solo noi».
Per ora l’allarme è rimasto in sordina. Un po’ perché i nuovi regolamenti sono entrati in vigore in pieno agosto, un po’ per l’escamotage dell’autocertificazione introdotto in corsa. Ma nei porti già ai primi di settembre ci si attende il caos, con merci da sdoganare non si sa bene come, o carichi da bloccare. Finora ciascuno si è regolato come meglio ha creduto: Genova ha accettato l’autocertificazione, Taranto non ha segnalato merce bloccata o soggetta a ulteriori certificati. ma prima o poi la materia è destinata ad esplodere.Di qui la decisione di congelare tutto. Sempre che giovedì prossimo le nuove indicazioni siano chiare. Altrimenti per le dogane e per i porti sarà nuovo caos.
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Il complotto

Questa mattina diamo ancora spazio all'armageddon mediatico iniziato dal foglio di Feltri con due articoli che riprendiamo da Repubblica.it. Il primo, di Alberto Custodero, riassume la situazione e le prossime contromisure attuate da parte del mondo politico. Il secondo, di Zita Dazzi, mette in luce quello che ormai si può definire un complotto contro Avvenire.
I Democratici sulla "nota informativa": "Se qualcuno ce l'ha, lo tiri fuori".
Berlusconi: "In questi giorni mai avuto alcuna telefonata col direttore".
Il Pd: "Il caso in Parlamento".
Copasir: "Vigileremo sui servizi".


Roma - È scontro sulla "velina" sul direttore dell'Avvenire, Dino Boffo, pubblicata da Vittorio Feltri sul Giornale. Il Pd chiede che il caso si affronti in Parlamento mentre il Copasir, l'organo di controllo sugli 007, assicura che "vigilerà sul corretto funzionamento dei servizi in questo momento delicato della vita democratica". Feltri, intanto, dopo la rivelazione di Repubblica di ieri - la "nota informativa" citata dal Giornale non è contenuta nelle carte giudiziarie del Tribunale di Terni - è investito da una bufera di accuse. Ed è costretto a smentirsi fino quasi a negare l'esistenza della "nota informativa" citata per ben tre volte nell'inchiesta del Giornale nella quale Boffo viene definito "noto omosessuale già attenzionato dalla polizia di Stato per questo genere di frequentazioni...".
Emanuele Fiano, deputato pd e membro del Copasir, lo sfida: "Se ha quel documento, lo tiri fuori. Così vedremo da chi è firmato". È dunque ora il direttore del Giornale a doversi giustificare per rispondere alla domanda che da più parti gli viene posta: "Dove ha preso quella "nota informativa"?".
"Non ho mai parlato di schedature o informative giudiziarie - si difende ora Feltri - e il Viminale non c'entra in alcun modo. Abbiamo un documento che prova un fatto (il patteggiamento di Boffo, non i riferimenti alla sua vita privata, ndr), il resto non conta. Non conta da chi l'abbiamo avuto, non conta se ci sono errori perché non è un testo di diritto. Anche se i termini fossero impropri, i fatti sono questi e se qualcuno è in grado di smentirli lo faccia". Ma l'articolo del Giornale di venerdì parlava invece proprio di una "nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del direttore di Avvenire disposto dal Gip".
D'altronde è proprio in quella nota che sono contenute le frasi più gravi su Boffo definito "un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia per questo genere di frequentazioni". Negli atti giudiziari del resto non si fa nessun accenno alla vita privata di Boffo: quindi non è affatto irrilevante come sostiene oggi il direttore del Giornale, da dove provenga e che attendibilità abbia il documento su cui ha fondato la sua azione di killeraggio. Feltri nega, poi, di essersi recato a Palazzo Chigi dopo la sua nomina al Giornale.
"Non vado a Roma da 4 mesi - dichiara - non sono stato a Palazzo Chigi, né a Palazzo Grazioli. L'unico che ho sentito, venerdì scorso, è stato Gianni Letta. Voleva avere notizie dell'articolo. Ma erano le 23,30, e il Giornale era già in stampa". Berlusconi sostiene "di non aver mai avuto in questi giorni alcuna conversazione telefonica" col direttore del giornale di famiglia.
Ma la sua risposta non placa le polemiche politiche. "Quelle contro Boffo, ma anche altre allusioni minacciose - commenta il senatore pd Luigi Zanda - hanno le stesse caratteristiche delle "veline" che, in anni recenti e passati, hanno inquinato l'aria della nostra Repubblica". Mentre il deputato europeo leghista Matteo Salvini ammette che "il caso Boffo potrebbe essere un avvertimento alla gerarchia ecclesiastica", anche il capogruppo pd all'Antimafia, Laura Garavini, chiede chiarezza: "C'è un inquietante sospetto che grava sul governo, che a questo punto deve fare al più presto chiarezza in questa bruttissima vicenda".
A proposito di presunte schedature di omosessuali da parte del Viminale Boffo ha fatto sapere di aver ricevuto una telefonata dal ministro dell'Interno. "Maroni mi ha assicurato che quell'«informativa» non esce dall'apparato della pubblica sicurezza".

Una copia del certificato del casellario giudiziale del direttore di Avvenire
con un secondo foglio: "Riscontro a rischiesta di informativa di sua Eccellenza".
Boffo, la "velina" anonima arrivò a tutti i vescovi.
Il primo a rivelare di aver cestinato la lettera è stato Betori a Firenze.


Milano - Una fotocopia del certificato del casellario giudiziale del direttore di Avvenire, Dino Boffo. E, attaccato con una graffetta, un secondo foglio, dattiloscritto, non firmato e compilato in un italiano malfermo, dal titolo elusivo: "Riscontro a richiesta di informativa di sua Eccellenza". In queste due pagine, arrivate oltre due mesi fa sulle scrivanie di tutti i vescovi italiani, era scritta la storia che in questi giorni il Giornale della famiglia Berlusconi ha sbattuto in prima pagina.
L'arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, viene citato nel documento anonimo, come il cardinale Camillo Ruini e come il vescovo di Firenze Giuseppe Betori. Ed è proprio monsignor Betori a rivelare di aver cestinato quella lettera senza mittente e a scagliarsi contro i "fogli anonimi che circolano in questi giorni, assurti al rango di 'informativa'. Li ho sempre ritenuti - come ogni missiva anonima - degni del cestino della spazzatura, da cui provengono e devono tornare".
Della missiva si parlava da tempo negli ambienti ecclesiastici ed erano in molti a interrogarsi sulla provenienza di quel materiale imbarazzante e pieno di insinuazioni sul direttore del quotidiano della Cei. Nessuno aveva dubbi sul primo dei due fogli, visto che, pur essendo stata cancellata col pennarello la sede, c'era il timbro di una Procura della Repubblica e un estratto del casellario dal quale risulta il decreto penale del Tribunale di Terni a carico di Boffo. Ma sulla seconda pagina, gli alti prelati che l'hanno ricevuta, hanno visto l'ombra di una qualche burocrazia legata ai servizi segreti o di qualche nemico del giornalista nello stesso mondo cattolico.
È il linguaggio, poco giuridico, a tradire l'estensore del secondo foglio, ripreso senza alcuna modifica dall'articolo sul Giornale di Vittorio Feltri e citato come "nota informativa" in accompagnamento all'atto del giudice per le indagini preliminari. "Il Boffo è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni - si legge testualmente, con tanto di errori di ortografia - destinataria di telefonate sconcie e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo aveva una relazione omosessuale".
Le stesse parole dell'articolo che ha puntato l'indice contro il direttore di Avvenire, reo di aver espresso critiche nei confronti del presidente del Consiglio. I cardinali e i vescovi che hanno ricevuto la missiva anonima non hanno tenuto in nessun conto le altre notizie peccaminose che si leggono nel messaggio: "Il Boffo è un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni e gode indubbiamente di alte protezioni, correità e coperture in sede ecclesiastica".
Il vescovo di Firenze Betori, amico di lunga data del direttore di Avvenire, non ha dubbi di fronte a quei veleni: "Quale sia la mia stima e fiducia nei confronti del dottor Boffo lo mostra la collaborazione con lui instaurata negli anni del mio servizio alla Cei".
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Sicurezza e solidarietà non sono opzioni contrapposte

Immigrazione. «Sicurezza e solidarietà sono valori indiscindibili».
Rassegna stampa - Avvenire di oggi, Matteo Liut.

«Dentro una più ampia visione a favore della vita, la sicurezza e la solidarietà «non sono due opzioni contrapposte ma un’unica e inscindibile strada, perché si radicano entrambe nell’unità della persona, della natura umana». Una natura che «precede qualunque nostra decisione e vincola il dover essere morale dei singoli e della collettività: vincola qualsiasi autorità».
Danno la sveglia e fanno riflettere le parole pronunciate ieri mattina dall’arcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, durante la Messa celebrata assieme al vescovo ausiliare Luigi Ernesto Palletti al Santuario del monte Figogna nella tradizionale festa della Madonna della Guardia. Salita sulla vetta che sorveglia il porto della Lanterna, tutta la città si è stretta attorno al suo pastore portando i segni di una tradizione tanto radicata quanto coinvolgente.
Una devozione viva che il porporato abbraccia e cala all’interno di alcune delle questioni più attuali. E con pacata ma schietta saggezza evoca la distorta dicotomia che in questi giorni popola e riempie gli spazi veri o presunti di confronto soprattutto attorno al tema dell’immigrazione: sicurezza o solidarietà? Una contrapposizione fittizia, perché chi la alimenta dimentica quell’«umanesimo plenario e universale nato dal Vangelo, e che nel Vangelo ha continua ispirazione, verifica e sviluppo». Un umanesimo «che raccoglie il meglio di culture storiche che hanno trovato nel cristianesimo la sintesi elevata e feconda, e che, se vissuto con coerenza, porta frutti di civiltà e cultura per tutti».
Il cardinale, poi, ha invitato ad alzare lo sguardo verso la Madonna della Guardia, che «porta sulle braccia il Bambino Gesù e lo presenta, anzi lo offre a noi». Osservando quel «piccolo volto», ha sottolineato Bagnasco, anche chi non crede in lui può comprendere come Dio abbia «impresso in ogni uomo la sua immagine, facendone così una realtà sacra». Per questo la dignità di ogni essere umano «è inviolabile sempre e comunque, a maggior ragione quando la sua vita è più debole e indifesa». Come quando «i morsi dell’insicurezza, dell’oppressione politica e culturale, della persecuzione religiosa, dell’assoluta incertezza del futuro spingono tanti nostri fratelli e sorelle a tentare imprese impossibili pur di trovare speranza – ha continuato il porporato –. Imprese che, come spesso è avvenuto, sono segnate da tragedie che interpellano la coscienza di tutti».
Davanti a queste situazioni, «la sicurezza e la solidarietà sono diritti da rivendicare giustamente» ma sono anche «dei doveri da onorare onestamente». «Se non si può pretendere l’impossibile – ha aggiunto – si deve però assicurare tutto il possibile perché l’uomo è sacro sia per la fede che per la ragione, fuori e oltre le categorie dell’efficienza, dell’autosufficienza, e persino dell’autocoscienza: la vita umana ha una dignità intrinseca che precede tutto questo». Ed è su questa dignità «che si fondano le Carte dei Diritti umani, spesso – ha aggiunto a braccio – invocate per certi settori e taciute per altri».
Se è evidente, inoltre, che «le sfide della globalizzazione esigono risposte globali e organiche», oggi va ricordato che la complessità non può risolversi in relativismo culturale o nichilismo valoriale: il rischio sarebbe quello di uno «Stato etico», che pretende «di decidere l’ordine morale fondamentale, anziché riconoscere i valori costitutivi della persona come l’inviolabilità della vita umana, un lavoro decente, l’onorabilità, la cultura, la libertà, la casa, la sicurezza, la solidarietà».
Un messaggio forte e limpido, quello lanciato dal presidente della Cei. Ma non si pensi, ha concluso Bagnasco, a «una forma di "ingerenza" in ambiti che non sono di mia competenza»; lo si legga, invece come «un contributo che la Chiesa in moltissime forme – religiose e pastorali, culturali e sociali – offre alla riflessione di tutti e per il bene comune».
Al termine della Messa il rettore del Santuario, monsignor Marco Granara, ha ricordato che ieri cadeva anche il terzo anniversario dalla nomina ad arcivescovo di Genova di Angelo Bagnasco. «Come i pastori sostengono il popolo, anche il popolo sostiene i suoi pastori – ha risposto il cardinale –. Grazie per il vostro sostegno con la preghiera, l’affetto, la simpatia e la vicinanza: è un autentico aiuto nel mio servizio quotidiano a Genova e all’Italia. "Cristo è la vera speranza" è il mio motto episcopale – ha aggiunto il cardinale che è stato ordinato vescovo il 7 febbraio 1998 –: vorrei che il mio servizio episcopale fosse sempre "seminatore" di speranza e vorrei che voi foste un popolo di speranza, ovunque e comunque».
Ricordando il legame che «unisce nella preghiera ai piedi della Vergine le generazioni», ieri Bagnasco, durante la Messa presieduta nel pomeriggio, è tornato a rivolgersi al «popolo della speranza» di Genova. Alla diocesi ha indicato l’importanza del tema della sfida educativa, scelto dai vescovi italiani per il prossimo decennio: «È una sfida che riguarda tutti – ha detto – perché tutti partecipiamo a creare un clima educativo o diseducante. Ed è una missione che la Chiesa vive da sempre. In questo ambito i provvedimenti normativi non bastano: è necessario educare l’anima, la testa, il cuore».
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Dire le cose come stanno in Italia

Rassegna stampa. Da Il Cittadino di oggi riprendiamo due articoli di Matteo Brunello sulla presenza del segretario del Partito Democratico Dario Franceschini alla Festa Democratica di Lodi ieri pomeriggio.
Il segretario nazionale del Partito democratico ha incontrato ieri referenti locali e simpatizzanti della formazione politica.
«Il comune di Lodi resterà a Guerini».
Dario Franceschini non ha dubbi sui risultati delle elezioni 2010.

«Vedrete che il comune di Lodi rimarrà dello stesso segno politico». Mancano ancora diversi mesi all’appuntamento elettorale, ma il segretario nazionale del Partito democratico fa sfoggio di fiducia. E, in una battuta, Dario Franceschini rassicura: la “roccaforte” di palazzo Broletto non subirà scossoni, nonostante la recente vittoria del centrodestra in provincia, il Partito democratico non si lascerà sfuggire l’amministrazione municipale. «L’attuale sindaco deve proseguire nella guida di questa città. Ha fatto bene in questi anni e deve continuare», osserva davanti al pubblico. Un’affermazione di sostegno per Lorenzo Guerini, seduto a fianco del responsabile nazionale del partito, che è arrivata nel pomeriggio di ieri, nel corso della visita alla festa organizzata nella consueta area del Capanno.
Un momento per illustrare i punti chiave della mozione Franceschini, alla presenza dei coordinatori locali del documento (Enrico Brunetti e Federico Moro) del coordinatore regionale Franco Mirabelli, dell’ex sottosegretario Gianni Piatti, del candidato alla segreteria regionale Emanuele Fiano, oltre a molti altri esponenti locali del Pd. E il discorso del segretario nazionale è tutto incentrato sulla fase congressuale e parla a tutto il popolo dei democratici, dai dirigenti ai militanti: «Ci vuole un dibattito franco, ma dovremo dimostrare di tenere distinto il confronto interno con le posizioni che assumiamo sui giornali. Per il partito è necessario che parli una voce sola». E il riferimento va ai tanti interventi e al susseguirsi di prese di posizione, che in passato sono anche costati strappi e hanno indebolito la guida. «In ogni caso - ha garantito Franceschini - una volta terminato il congresso noi saremo dalla parte del segretario che sarà scelto, tutti insieme per lavorare a favore di un’unica squadra». Poi a margine ha toccato il tema delle alleanze, che per le amministrative - ha detto - dovranno «essere decise localmente», senza scelte che arrivano dall’alto e da Roma.
Sempre in tema di accordi, in vista delle comunali del 2010, è intervenuto anche l’ex parlamentare Gianni Piatti: «Già da ora dobbiamo sentirci impegnati per le prossime elezioni. E dovremo anche discutere l’argomento delle alleanze, che dovranno essere in vista di un progetto e non una babele di linguaggi e programmi». Infine, all’ordine del giorno anche il rinnovo dell’amministrazione regionale del marzo prossimo. E su questo tema Emanuele Fiano ha utilizzato parole nette: «Non pensiamo che questa regione sia stata assegnata per diritto divino al centrodestra. Il presidente Formigoni vuole fare passare l’idea che, rispetto al resto del Paese, la nostra è un’isola felice, ma invece molti continuano ad essere i problemi non risolti». E, di fronte ad un folta platea, si è poi rivolto a Franceschini per invocare un partito democratico più autonomo a livello lombardo. «I partiti regionali non devono essere un appendice di quelli nazionali», ha sostenuto.

«Non lasciamoci intimidire e facciamo più opposizione».

«Serve più opposizione e non meno opposizione nel Paese. Non dobbiamo lasciarci intimidire e avere il timore di essere tacciati di antiberlusconismo. È necessario dire le cose come stanno in Italia». Sceglie la linea dura contro il governo, il segretario nazionale del Partito democratico Dario Franceschini. Nel corso del suo intervento alla festa dei democratici a Lodi, ieri pomeriggio, affronta il tema della crisi e dell’autunno difficile che potrebbero affrontare tante imprese. «Ci sono migliaia di aziende, che se non saranno sostenute a breve, non ce la faranno. E rischieremo di vedere molti operai e lavoratori che, per farsi sentire e dire le loro difficoltà, faranno come i dipendenti della Innse - ha detto - e di fronte a questa realtà è necessario un intervento incisivo, misure anti-crisi che il governo non ha messo in campo. Anzi noi abbiamo portato in Parlamento una serie di proposte e sono state bocciate tutte». E poi ancora il tema di quella che ha definito «la campagna d’intimidazione» del premier contro la stampa. E ha citato il caso della denuncia dei legali di Berlusconi nei confronti delle domande del quotidiano «La Repubblica». «Su un argomento tanto delicato, che tocca tutta la cittadinanza - ha continuato - potevano organizzare una manifestazione noi del Pd, ma ho preferito che a difendere la libertà di stampa ci vadano tutti, al di là del colore politico. Noi ci saremo e daremo li nostro appoggio, ma l’organizzazione sarà delle singole associazioni che si occupano di questi temi». Poi ha affrontato il discorso di un’opposizione che non deve lasciarsi intimidire, ma che sappia rivendicare con forza i diritti e affondare le proprie radici nella memoria. E ha quindi ha menzionato in particolare i partigiani, e l’importante ricordo del loro contributo per la democrazia in Italia, tanto che alla fine gli stata anche regalata la biografia dell’ex capo partigiano lodigiano, Edgardo Alboni. Inoltre, tra strette di mano e dopo avere salutato i militanti che lavorano per la festa, di fronte a una folta platea ha parlato anche della sua idea di partito: una formazione «aperta», che sia vicina ai suoi elettori e ai militanti, che partecipano alle scelte decisive del Partito democratico, tramite le primarie, oltre ad un partito che sia in grado di captare i cambiamenti della società. «Nello stesso tempo dobbiamo essere capaci di proseguire nel cammino fin qui iniziato, a partire dalla difesa del bipolarismo che è una direzione indicata dagli elettori», ha sostenuto. E poi ha invocato la necessità di andare oltre le tante storie e identità che costituiscono il Pd, per farle convivere in un ricchezza di dibattito: «Non dobbiamo tornare indietro. Abbiamo voluto un grande partito, che insieme vogliamo realizzare, per unire culture e anche provenienze politiche diverse, che sono da valorizzare». Per questo ha citato quanto gli è stato confidato nella sua recente visita a Gallipoli, da un ex dirigente di partito, che ha detto di volerlo sostenere non tanto per la sua provenienza, quanto per il progetto che ha di futuro.

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