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venerdì 30 ottobre 2009

BlogNotte - L'affair Cucchi

Blog Notte
L'affair Cucchi

30 ottobre 2009
La denuncia dei familiari del detenuto morto al repartino del Pertini.
«Chi ha ridotto così nostro figlio Stefano?».

Rassegna stampa - Liberazione, Checchino Antonini, 30 ottobre 2009.

«Ciao papà». L'ultimo abbraccio di Stefano suo padre se lo ricorderà per sempre. In tribunale, a piazzale Clodio. Il ragazzo in manette e quattro carabinieri intorno. Impossibile dirsi altro che un ciao. Però Stefano aveva già la faccia gonfia ma ancora si reggeva in piedi. Tanto che quando è stata pronunciata l'ultima parola sulla sua permanenza in carcere ha dato un calcio stizzito alla seggiola. Succedeva due settimane fa, sarebbe morto dopo cinque giorni al repartino del Pertini, il padiglione penitenziario. In galera per una ventina di grammi d'erba. Ma se perfino i carabinieri, la notte prima, avevano rassicurato sua madre che era poca roba e che magari tornava subito per i domiciliari! Anche quella notte camminava sulle sue gambe e il viso era pulito, senza i segni delle botte.
Il proibizionismo è il primo ingrediente della pozione mortale che ha ammazzato Stefano Cucchi, magrissimo trentunenne che faceva il geometra nello studio di famiglia, che soffriva d'epilessia e a cui hanno sequestrato, assieme alle sostanze, le pasticche salvavita di Rivotril.
Ieri i familiari e l'avvocato Fabio Anselmo, lo stesso del caso Aldrovandi, hanno preso parte a una conferenza stampa, promossa da Luigi Manconi, e affollata di parlamentari e cronisti a Palazzo Madama. Nel dossier consegnato ai giornalisti le foto choc scattate dopo l'autopsia perché alla famiglia è stato negato dal pm di riprendere il corpo durante il primo esame. L'ennesima porta in faccia dopo giorni passati in attesa di un permesso per visitare quel figlio sparito nell'ospedale-bunker. E senza mai poter parlare coi medici. Il direttore sanitario del Pertini trasecola. Spiega che non è mai accaduto che i familiari di un detenuto restassero così tanto tempo senza notizie. «Non c'è bisogno di alcuna autorizzazione». Da mezzogiorno alle 14 i parenti possono parlare con i dottori. A meno che gli agenti di custodia non abbiano fatto muro. I familiari confermano di aver chiesto ripetutamente di parlare con i medici. La polizia penitenziaria si lamenta dell'immagine negativa che gli deriverebbe da questo caso ma non fa nulla per scalfirla. Il dirigente di un sindacato, il sindacato Sappe, si limita a dire che la collega che ebbe a che fare con i Cucchi avrebbe detto loro che il repartino funzionava come un carcere. Ma perché negare un colloquio con i medici? Il dossier è preciso: la domenica, alla richiesta di sapere come stesse Cucchi, il piantone rinvia i genitori al giorno dopo. A mezzogiorno del lunedì stessa scena. Dopo una vana attesa viene negato l'incontro con i medici perché senza permesso del pm. Così pure ventiquattr'ore dopo. Il permesso per la visita a Stefano arriverà solo il mercoledì, sarà valido per il giorno successivo. Ma Stefano muore all'alba.
Da parte loro, i sanitari si dicono stupiti dal sopraggiungere della morte ma insistono sull'immagine di un detenuto che rifiutava le cure e che dicono di «non avere avuto modo di vederlo in viso in quanto si teneva costantemente il lenzuolo sulla faccia». Perché Stefano era invisibile?
L'opacità di certe istituzioni totali è un altro ingrediente del veleno che ha ucciso Stefano. Ma il più potente degli elementi del mix potrebbero essere state le botte, che gli hanno devastato la faccia, fatto uscire un occhio dall'orbita, fratturato una mascella, spezzato la schiena in due punti, ferito le gambe. Aveva sangue nella vescica e in un polmone. I genitori e la sorella Ilaria fanno una catena di telefonate ai parenti: «Non guardate i tg, ci sono le foto di Stefano morto». Anche la sorella Ilaria si rifiuta di prendere il dossier ma crede che quelle immagini servano a contrastare l'invisibilità a cui è stato condannato un ragazzo che pesava 43 chili prima di entrare in una caserma dei carabinieri della periferia est di Roma e 37 quando è morto cinque giorni dopo. «Non è un'inchiesta difficile - spiega Patrizio Gonnella di Antigone - ma la velocità sarà decisiva. Troppe volte le lungaggini hanno bruciato la giustizia. Facciamola subito quest'inchiesta e facciamola trasparente. E le forze dell'ordine non siano ostaggio dello spirito di corpo, per una volta». Da quel quadrante di Roma, intanto, giungono segnalazioni sui metodi "spregiudicati" delle squadre antidroga negli interrogatori e nelle perquisizioni. Si tratta di racconti piuttosto circostanziati che segnalano, in particolare, la pratica sistematica di far firmare verbali aggiustati.
Uno stuolo di parlamentari bipartisan fà passerella per annunciare missioni ispettive ma finora non l'ha fatte nessuno. Lucidamente Bonino e Perina dichiarano che è in gioco la credibilità delle istituzioni. Qualcuno tira in ballo il ministro della difesa La Russa. E' lui che potrebbe riferire sull'operato dei carabinieri, due in divisa e tre in borghese, che arrestarono Stefano e fermarono un suo amico in un parco di Cinecittà. Perché da Regina Coeli sono piuttosto netti: quel ragazzo era già malconcio quando è arrivato e fu spedito immediatamente al pronto soccorso. Ma al Fatebenefratelli, ed è un altro mistero, Stefano firmò verso mezzanotte del venerdì per tornare in cella anziché farsi i 25 giorni di ricovro che gli erano stati prescritti. L'avvocato Anselmo chiede di acquisire al più presto le foto ufficiali dell'autopsia e prevede tempi lunghi per gli esami che dovranno stabilire le cause della morte. Il pm non entra nei particolari ma gli preme far sapere che accertamenti sono scattati fin dal primo momento. E che avrebbe iniziato a indagare sulle modalità del fermo.

Parla Luigi Manconi.
«Un ragazzo, un corpo straziato e due zone d'ombra...»
Rassegna stampa - Liberazione, Paolo Persichetti, 30 ottobre 2009.

Non sapeva, Stefano Cucchi, che la sera del 16 ottobre ad attenderlo c'era un appuntamento fatale col destino. Non sapeva, Stefano Cucchi, che sulla sua strada avrebbe incontrato lo Stato, nella veste della squadretta di carabinieri che lo hanno arrestato. Non sapeva, Stefano Cucchi, che incontri del genere possono finire male, molto male, eppure sta scritto da qualche parte che non dovrebbe essere così. Negli ultimi anni si sono moltiplicati casi del genere, come quelli di Federico Aldovrandi e Aldo Bianzino, solo per citarne alcuni tra i più noti. «Quel giovane - spiega Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia e presidente dell'associazione A buon diritto - ha attraversato ben quattro segmenti dell'apparato statale. Una stazione dei carabinieri, il tribunale, il carcere e il reparto clinico del penitenziario di Rebibbia, situato all'interno dell'ospedale Pertini di Roma. È entrato sano e integro, ne è uscito morto, col corpo straziato. All'ingresso pesava 43 kg, dopo otto giorni sul tavolo dell'obitorio era ridotto a soli 37».
I familiari di Stefano Cucchi hanno autorizzato la pubblicazione delle foto. Si vedono immagini strazianti di un corpo devastato.
Dopo averle viste, ho proposto io stesso la pubblicazione delle foto. I familiari hanno accettato dopo una lunga e sofferta discussione tra loro. Quelle immagini hanno un inequivocabile tragico accento di verità. Ci dicono che quel corpo ha subito uno strazio. Ma c'è anche un'altra circostanza inequivocabile. Dopo il fermo, all'1.30 del mattino di venerdì 16, Stefano è condotto a casa dei genitori per la perquisizione. In quel momento è ancora in condizioni integre. L'indomani, durante l'udienza per direttissima nell'aula di piazzale Clodio, ha il volto tumefatto, tanto che viene visitato alle 14 dal presidio medico del tribunale che dopo una cotrollo sommario rileva ecchimosi attorno agli occhi. Erano passate solo 12 ore. All'ingresso in carcere i medici fanno le stesse constatazioni, ma poiché l'apparecchio radiologico è rotto lo inviano al Fatebenefratelli. Lì diagnosticano le vertebre fratturate. Da quanto si è accertato fino ad ora, in questa vicenda ci sono due zone d'ombra: le ore di permanenza nella caserma dei carabinieri e il periodo di ricovero nel repartino penitenziario del Pertini. Aggiungo ancora una cosa: alle 21 di sabato 17, Cucchi è al Pertini. Alle 22 arriva la sua famiglia, che però non riesce a vederlo fino al giovedì successivo. Non riescono a parlare con lui, né tantomeno con i sanitari. Ora, in presenza di un detenuto che deperisce visibilmente, non si nutre e non beve, i medici non avvertono né familiari né autorità.
Possibile che un arresto, per giunta per il possesso di una modica quantità di stupefacente, finisca per trasformarsi in una condanna a morte?
Siamo di fronte ad un'ordinaria storia di devianza sociale. Tutti i giorni vengono arrestate persone che si trovano nelle condizioni di Stefano Cucchi. Queste persone in genere stanno in carcere per pochi giorni, addirittura molti sono rilasciati dopo la direttissima. Ora nel corso di questo doloroso e accidentato percorso accadono dei fatti sottratti al controllo pubblico. Si manifesta un'ordinaria violenza che si perpetua e riproduce all'infinito. Violenza che può dare luogo a tragedie oppure fermarsi un momento prima che queste avvengano. Queste tragedie sono il risultato di una gestione dell'ordine pubblico e di una legislazione antidroga che produce esiti di grande degenerazione sociale. Ormai gira a pieno regime una macchina che produce in continuazione fermi, celle di sicurezza, un fisiologico esercizio di violenza che tanto più si esercita se di fronte ci sono corpi inermi e indifesi, come quello di Stefano Cucchi. Colpisce la corporatura di questa persona. Penso che quel corpo così gracile abbia determinato un accanimento.

Caso Cucchi: Procura indaga per omicidio preterintenzionale.

(ASCA) - Roma, 30 ott - Il pm di Roma Vincenzo Barba ha avviato un'inchiesta per omicidio preterintenzionale in relazione alla morte di Stefano Cucchi, l'uomo di 31 anni morto dopo un fermo di polizia e la detenzione in carcere. Il magistrato ha ascoltato come persone informate sui fatti alcuni carabinieri della stazione Appio-Claudio in cui Cucchi passo' la notte tra il 15 e il 16 ottobre, subito dopo il fermo. Barba ha sentito anche alcuni agenti della penitenziaria che hanno ''seguito'' l'uomo dopo lo spostamento in carcere.

Caso Cucchi, indagine per omicidio preterintenzionale.
Dall'Unione camere penali a Ferefuturo, da don Ciotti all'unione studenti: è indignazione. La Russa: "Carabinieri corretti". Alfano: " Pieno sostegno alle indagini". Ma il caso Aldrovandi insegna che...
Sky Tg24, 30 ottobre 2009.


Omicidio preterintenzionale. È il reato ipotizzato dalla procura di Roma nell'ambito della morte del detenuto Stefano Cucchi, avvenuta il 22 ottobre scorso nel reparto penitenziario dell'ospedale Sandro Pertini. Il pm Vincenzo Barba, titolare degli accertamenti, procede per il momento contro ignoti. Alla base della configurazione dell'ipotesi di reato la tipologia delle lesioni riscontrate sulla salma.
Verificare se Cucchi abbia subito lesioni, chi gliele ha procurate e se queste abbiano provocato la morte del detenuto. Sono questi gli interrogativi ai quali il magistrato intende dare risposte. Per questo sono già stati sentiti come testimoni alcuni carabinieri della stazione Appio-Claudio in cui Cucchi passò, in una cella di sicurezza, la prima notte, quella tra il 15 ed il 16 ottobre scorsi, in seguito al fermo per detenzione di sostanze stupefacenti. Già sentiti anche alcuni agenti di polizia penitenziaria. Altri dovranno essere sentiti, compreso l'uomo al quale Cucchi cedette l'hashish prima di essere fermato. Il pm Barba attende inoltre l'esito dell'autopsia sull'uomo di 31 anni.
Il caso della morte in carcere del giovane Stefano Cucchi scuote le coscienze e la politica. Dall'esposto dell'Unione camere penali a Ferefuturo, da don Ciotti all'Unione degli studenti si leva un coro di indignazione. "Il corpo del cittadino nelle mani dello Stato è sacro, e non si può consentire che dubbi si addensino sulle istituzioni - dichiara Oreste Dominoni, presidente dell'Ucpi (unione camere penali italiane) - La vicenda Cucchi presenta ombre e sospetti che vanno chiariti. L'Unione delle camere penali italiane, chiede che sia fatta piena luce sui fatti, ma soprattutto invita gli organi istituzionali a effettuare le opportune indagini senza guardare in faccia nessuno, affinché non si ritorni agli anni bui in cui non si sapeva cosa accadesse in caserme e commissariati".
Chiede verità anche Ffwebmagazine, il periodico online della Fondazione Farefuturo presieduta da Gianfranco Fini: Uno Stato democratico non può nascondersi dietro la reticenza degli apparati burocratici. Perché verità e legalità devono essere 'uguali per tutti', come la legge. Non è possibile che, in uno Stato di diritto, ci sia qualcuno per cui questa regola non valga: fosse anche un poliziotto, un carabiniere, un militare, un agente carcerario o chiunque voi vogliate".
"La sua è una morte che non solo chiede verità, ma che impone a tutti una riflessione vera sulle implicazioni penali di certe norme di legge e sulle politiche carcerarie del nostro Paese". È quanto dichiara don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele, in merito al misterioso decesso di Stefano Cucchi, sottolineando che "in questi giorni difficili siamo vicini alla sua famiglia".
Sul caso è intervenuto anche il ministro della Difesa Ignazio la Russa: "Di una cosa sono certo - ha dichiarato a Radio Radicale - del comportamento corretto dei Carabinieri in questa occasione". E ha aggiunto: "Non c'è dubbio che chiunque, qualunque reato abbia commesso, ha diritto a un trattamento assolutamente adeguato alla dignità umana. Quello che però è successo io non sono minimamente in grado di riferirlo, perché si tratta di una competenza assolutamente estranea al ministero della Difesa, in quanto attiene da un lato ai Carabinieri in servizio per le forze dell'ordine e quindi in dipendenza del ministero dell'Interno, dall'altro del ministero della Giustizia. Non ho strumenti per accertare.
Secondo l'Osapp, sindacato della polizia penitenziaria, il giovane arrivò in carcere in pessime condizioni: "Stefano sarebbe arrivato a Regina Coeli direttamente dal tribunale già in quelle condizioni, e accompagnato da un certificato medico che ne autorizzava la detenzione, come di solito si fa in questi casi". Queste le parole Leo Beneduci, segretario generale dell'Osapp che chiede chiarezza e celerità d'indagine.

Un arresto e otto giorni per morire: le foto choc.
Stefano Cucchi, romano, 31 anni, era stato fermato dai carabinieri con pochi grammi di droga. Poi il carcere e l'ospedale, senza che la famiglia potesse visitarlo. La sua morte ricorda il caso Aldovrandi. Oggi la denuncia con le immagini del cadavere.
Sky Tg24, Cristina Bassi, 30 ottobre 2009.

L'hanno visto uscire di casa in buone condizioni, l'hanno riavuto morto, pochi giorno dopo. Nel frattempo un arresto per droga da parte dei carabinieri, la detenzione in carcere, l'ospedale. Senza che i familiari potessero mai vederlo. Il caso di Stefano Cucchi, 31 anni, romano, ricorda da vicino la vicenda di Federico Aldrovandi, il 18enne di Ferrara morto nel settembre del 2005 dopo una colluttazione con la polizia. Nel luglio scorso quattro agenti sono stati condannati a tre anni e sei mesi per omicidio colposo, dopo che la famiglia di Federico si era battuta per avere giustizia. La madre aveva sempre sostenuto che suo figlio era morto a causa del pestaggio dei poliziotti e aveva pubblicato sul suo blog foto e documenti, seguendo passo passo l’inchiesta ufficiale. E non è un caso che la famiglia Cucchi abbia scelto come legale Fabio Anselmo, lo stesso degli Aldrovandi. L’avvocato, i parenti di Stefano e l’associazione «A buon diritto» hanno convocato una conferenza stampa in Senato per chiedere che venga fuori la verità su quello che è successo al geometra 31enne con piccoli precedenti penali, fermato il 16 ottobre al parco degli Acquedotti a Roma: aveva addosso venti grammi di droga, è morto una settimana più tardi, il 22, nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini, dopo essere stato a Regina Coeli e al Fatebenefratelli. «Mio figlio – dichiara Giovanni Cucchi – era sotto la tutela dello Stato e dato che è stato preso in consegna dai carabinieri, chiediamo chiarezza anche al ministro della Difesa Ignazio La Russa». La sorella Ilaria si rivolge al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che alla Camera ha parlato di una morte che «esige un approfondimento» e ha riferito l’ipotesi di una caduta del ragazzo in carcere. «Spero – ha detto la sorella di Stefano – che il ministro Alfano inizierà a interessarsi davvero, perché non mi sembra abbia risposto né abbia detto nulla di nuovo. Ora pretendiamo una risposta chiara, perché mio fratello è morto da solo». Per una settimana alla famiglia era stato negato il permesso di vedere il giovane detenuto e di parlare con i medici che l’avevano in cura. Alla conferenza stampa sono state distribuite le foto del corpo di Stefano, scattate dopo l’autopsia. «Immagini drammaticamente eloquenti – le definisce Luigi Manconi, presidente di “A buon diritto” –. Da sole dicono quanti traumi abbia patito quel corpo e danno una rappresentanza tragicamente efficace del calvario di Stefano». Le foto mostrano il corpo magro (il ragazzo, che soffriva di epilessia, era passato dai 43 chili del fermo ad appena 37), con il volto tumefatto, l’occhio destro rientrato nell’orbita, l’arcata sopraccigliare gonfia, una mascella che sembra fratturata. Sulla misteriosa morte è stata aperta un’inchiesta d’ufficio. «L’atto di morte è stato acquisito dal pm – spiega l’avvocato Anselmo –, per cui non abbiamo in mano nulla se non queste foto e un appunto del nostro medico legale». Che documenta come «sul corpo non sono stati riscontrati traumi lesivi che possano aver causato la morte, ma escoriazioni, ecchimosi e sangue nella vescica. Aspettiamo gli esiti dell’esame istologico. Noi non accusiamo nessuno – precisa il legale –. Stefano è uscito di casa in perfette condizioni di salute e non è più tornato. Chiediamo che non ci sia un valzer di spiegazioni frettolose e spesso in contraddizione tra loro e di risparmiare alla famiglia un processo su quello che è stato Stefano». Anche alcuni politici si sono mobilitati per chiedere chiarezza sulla vicenda. Alla conferenza stampa della famiglia Cucchi erano presenti Emma Bonino, Flavia Perina, Renato Farina e Marco Perduca. Mentre il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Angiolo Marroni, ha presentato un esposto alla procura.


Caso Cucchi, il padre: "Deve rispondermi lo Stato".
"Lo Stato ci deve dire la verità su quanto è successo a mio figlio". Questo l'appello lanciato dal papà di Stefano Cucchi, il giovane trovato morto con varie lesioni sul corpo nel reparto detentivo dell'ospedale Pertini di Roma.
Sky Tg24, 30 ottobre 2009.


Cucchi, Alfano: subito verità, pieno sostegno alle indagini.
Sky Tg24, 30 ottobre 2009.

Verità. È questa la parola che riecheggia con forza nel mondo politico-istituzionale. Una richiesta forte e trasversale agli schieramenti. Al procuratore della Repubblica di Roma, Giovanni Ferrara, ha telefonato il ministro della Giustizia Alfano confermando "pieno sostegno alle indagini e celerità nell'accertamento della verità e dei colpevoli". Interviene con decisione anche il ministro della Difesa: "Non ho strumenti per dire come sono andate le cose ma sono certo del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri" dice La Russa.

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I quarant'anni di Internet




Era il 29 ottobre del 1969 quando due ricercatori californiani si scambiarono un messaggio tra due computer, sperimentando per la prima volta le possibilità della rete. Si chiamavano Charley Kline e Bill Duvall e fecero la prima connessione tra l'Università della California e lo Stanford research institute, senza probabilmente rendersi conto delle conseguenze che avrebbe avuto quello che stavano facendo.
Capo del loro team era il professore dell'UCLA Leonard Kleinrock, che ieri sera al campus dell'istituto si è unito alle celebrazioni per l'anniversario. "Internet è un elemento di democrazia, la voce di ognuno ha un peso equivalente. Non c'è modo di tornare indietro a questo punto, non si può fermare. L'era di Internet è qui", ha detto ricordando l'entusiasmo con cui accolse la novità.
Dodici anni dopo quel primo messaggio in rete c'erano ancora solo poco più di 200 computer, ma già nel 1995 con i primi browser e l'arrivo di Amazon gli internauti erano sei milioni. Oggi, nell'epoca di Wikipedia, del motore di ricerca Google e dei social network come Facebook e Twitter, si calcola che on-line ci siano ogni giorno oltre un miliardo e mezzo di persone. "La rete", ha ricordato l'ormai 75enne Kleinrock, "sta penetrando in ogni aspetto delle nostre vite".
Eppure l'idea nacque in piena guerra fredda e fu il frutto di un progetto militare che si chiamava Arpanet, sviluppato per condividere informazioni tra scienziati che erano in università molto distanti tra di loro negli Stati Uniti e per progettare nuove tecnologie militari. Nel 1957 l'Unione Sovietica aveva lanciato lo Sputnik, primo satellite della storia e l'allora presidente Eisenhower investì milioni di dollari nella ricerca scientifica e inaugurò l'Arpa, l'Agenzia per i progetti di ricerca avanzati, per vincere la competizione tecnologica con Mosca. Nessuno poteva immaginare che ne sarebbe nata una delle più grandi invenzioni civili di tutti i tempi (Asca).
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Nell'era di insicurezza globale

L'Onu: «Acquistati 30 milioni di ettari in tre anni».
Il club dei paesi ricchi sta divorando le terre del Terzo mondo.
Rassegna stampa - Liberazione, Mark Rice-Oxley, 30 ottobre 2009.

Entrati in un'era di insicurezza globale, i paesi ricchi e le loro imprese si affannano nel comprare le terre fertili nelle nazioni in via di sviluppo, in particolare nell'Africa. Secondo il relatore dell'Onu sul dititto all'alimentazione Olivier de Schutter, almeno trenta milioni di ettari (l'equivalente delle Filippine) sono stati acquistati dalle compagnie straniere negli ultimi tre anni. La Cina, la Corea del Sud e l'arabia Saudita sono la rampa di lancio di questo movimento, con la loro aspirazione a comprare le terre di Congo, Sudan e Tanzania, ma anche di paesi asiatici come la Cambogia. «È un fenomeno in crescita, molti paesi si sono accorti che i mercati internazionali sono deboli e instabili, quindi si premuniscono acquistando terreni all'estero», spiega de Schutter.
Jacques Diouf, direttore generale della Fao, parla di un «patto neocoloniale», mentre Duncan Green, portavoce dell'Ong Oxfam denuncia «la privatizzazione dell'Africa». L'idea è semplice: sfruttare la produzione agricola e poi riportarla a casa. In particolare per le coltivazioni di riso, soia, canna da zucchero e lenticchie.
Secondo i dati raccolti dall'International Food Policy Research Institute, i sauditi hanno recentemente concluso decine di contratti in Tanzania per 500mila ettari di terra coltivabile. Quanto alla Repubblica democratica del Congo sono pronti a comprare 10 milioni di ettari. Società indiane, sostenute dal governo, stanno preparando grandi spese in una mexzza dozzina di paesi africani; corporation agroalimentari britanniche e americane già lavorano a pieno regime in Angola, Mali, Malawi, Nigeria e Sudan: imprese cinesi trattano in Zambia, Congo e Tanzania, mentre la Corea del sud si è accaparrata 690mila ettari sempre in Sudan.
I primi segnali di dissenso contro questi accordi sono partiti dal Madagascar dove il progetto di un conglomerato della sudcoreana Daewoo per coltivare del mais su 1,3 milioni di ettari ha incontrato un'ostilità così forte che, lo scorso marzo, ha contribuito alla caduta del presidente Ravalomanana. il suo successore Andry Rajoelina, ha immediatamente sospeso l'accordo.
in teoria questo business dovrebbe accontentare tutti. Dopo tutto i nuovi proprietari potrebbero portare nuovi capitali nei Paesi in via di sviluppo; dei posti di lavoro potrebbero essere creati in queste zone; i contadini potrebbero usufruire di moderne tecnologie per migliorare i raccolti. Ma gli esperti ci spiegano che in realtà questi contratti sono ben poco trasparenti, quasi mai resi pubblici e vantaggiosi solo per gli acquirenti. «I rari contratti che abbiamo potuto vedere sono preoccupanti: lunghi 3, 4 pagine al massimo, stabiliscono pochissimi vincoli agli investitori. Infrastrutture e gestione durevole delle risorse naturale sono aspetti lasciati alla buona volontà di chi compra, il che è inquietante», si indigna de Schutter.
Questa fiera rappresenta una grave minaccia per delle regioni del mondo che vivono delle difficoltà croniche. i contadini locali rischiano di essere espulsi si i loro governi si lasciano tentare dais oldi facili. Privare gli abitanti delle loro terre fertili potrebbe aggravare il problema della fame. E la competizione si intensificherà intorno alla più rara delle risorse: l'acqua.
De Schutter propone una serie di principi e di provvedimenti che possono rendere più accettabile questo «accaparramento delle terre per l'agricoltura delocalizzata». Bisognerebbe in primo luogo rispettare i diritti dei contadini, negoziando i contratti a livello locale e non nazionale. Una quota di prodotti potrebbe essere venduta in loco privilegiando i bisogni dei residenti dell'Earth Policy Institute, spiega che, nonostante gli investitori sbarcano armati delle ultimissime tecnologie agricole, ciò non porterà nulla ai piccoli agricoltori locali: «Si tratterà essenzialmente di tecnologie destinate allo sfruttamento agricolo-commerciale su grande scala, ben poco adatte alle piccole parcelle famigliari che esistono nella gran parte di paesi presi in considerazione. Non credo affatto che questo modello possa servire al trasferimento e alla condivisione delle tecnologie. Ogni volta che un terreno in Africa e in Asia viene acquistato da un investitore straniero, viene sottratta della terra per nutrire gli abitanti».
"Straits Time" (Singapore)
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Regionali e piddì

Il segretario del pd dopo l'incontro con Vendola. Oggi il colloquio con Ferrero.
Bersani: «Alle regionali con larghissime alleanze».

Rassegna stampa - Liberazione, Stefano Bocconetti, 30 ottobre 2009.

Regionali e piddì. Il più forte partito d'opposizione in Parlamento ha intenzione di lavorare in questo modo: proporrà una sorta di «tavolo» - termine che sta ad indicare una mega-consultazione - con tutte le forze che si oppongono a Berlusconi. Immaginando alleanze larghissime. In questi incontri si vedrà se c'è la possibilità di «fare un programma comune» e solo a quel punto si comincerà a parlare di candidati. Fermo restando che le decisioni si prenderanno, poi, regione per regione.
«Alleanze larghissime», si diceva. «Alleanze che non possono prevedere nè veti, nè interdizioni». Così, usando quasi le stesse parole, s'è concluso il confronto fra Bersani e Nichi Vendola. La seconda tappa del giro di consultazione intrapreso dal neosegretario dei democratici. Che l'altro giorno ha incontrato Di Pietro, ieri Vendola, e stamane il segretario del Prc, Ferrero.
La riunione di ieri sembra essere andata bene, stando a ciò che hanno raccontato i due protagonisti. Il segretario del piddì ha sottolineato che la discussione è appena all'inizio e non ha come solo «traguardo» le prossime regionali. «Abbiamo interessi comuni sui temi della democrazia e delle questioni sociali. Sono due temi che vogliamo siano messi al centro del dibattito politico». Anche il Governatore della Puglia ha usato parole di stima nei confronti del «collega»: «Bersani ha parlato di alternativa, e questo ci ricorda che la destra va sfidata anche sul terreno culturale, sociale. I temi del lavoro e della democrazia sono quelli su cui la sinistra deve essere capace di riconnettersi al Paese».
Ma al di là dei commenti, che cosa è uscito dall'incontro? Del metodo con cui i democratici vogliono arrivare alle elezioni, s'è detto. Va anche aggiunto che Bersani ha ripetuto due volte lo stesso aggettivo: generoso. «Fra breve faremo una proposta generosa». Di più però non ha voluto spiegare.
Entrambi comunque si sono rifiutati di partecipare al gioco del toto-candidato. A chi chiedeva a Bersani se fosse di suo gradimento il nome che gira per sostituire Marrazzo, la radicale Emma Bonino ha risposto diplomaticamente: «Lasciate perdere. Quello è l'ultimo dei passaggi». Un po' meno diplomatiche le risposte di Vendola. A lui, i giornalisti hanno chiesto se era disponibile a fare un passo indietro. E ha risposto così: «Sono abituato a fare passo in avanti, non indietro». L'ultima battuta è ancora per Vendola: a lui i cronisti gli hanno chiesto se parteciperà alla manifestazione del 5 dicembre, indetta dal Prc e da Di Pietro. La risposta: «Una manifestazione non è un party. Lo si organizza e poi si invitano le persone. Una manifestazione la si progetta insieme, insieme si studiano le parole d'ordine. Non conosco altra strada».
Oggi, s'è detto, Bersani vedrà Ferrero. Come sarà il clima? Sicuramente ci sono tanti temi sul tappeto. E nessuno facile. Senza contare che proprio ieri, sempre Bersani, in un'intervista ha fatto alcune concessioni al governo sul taglio dell'Irap. Ipotesi che proprio non piace al segretario del Prc: «Mi sembra sbagliata. Visto che le risorse dello Stato italiano non sono infinite e che l'Irap ha semplicemente sostituito ben sette forme di tassazione ... l'unico atto che si può e si deve prendere da subito è il drastico taglio delle tasse ai lavoratori dipendenti, ai pensionati e alle famiglie».
Non sarà un incontro semplice, insomma. Ma se ne saprà di più fra breve. Così come fra poco - magari qualche settimana - se ne saprà di più su un altro argomento con cui Bersani deve fare i conti: le scelte di Rutelli. Ieri, l'ex sindaco di Roma ha avuto un incontro a due con D'Alema. Il neosegretario sperava molto in questo «faccia a faccia». Ma è andato male per lui: a D'Alema, Rutelli ha confermato la sua intenzione. Se ne andrà dal piddì. Ha promesso però che non lo farà in «modo traumatico». Cosa questo significhi nessuno è in grado di prevederlo.
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Le caratteristiche del gas naturale

Risposta a: Anonimo del 30 ottobre 2009 ore 10,04.

Ecco la risposta ai suoi quesiti.
Perché il gas naturale viene anche chiamato metano?
Risposta: Il gas naturale viene abitualmente chiamato metano perché questo gas ne costituisce più del 90%.
Sugli accessori degli impianti domestici, ma anche industriali è frequente trovare cartelli con scritto metano, ad esempio i portelli delle nicchie contatori portano normalmente stampata la scritta metano, sulle condotte colorate in giallo degli stabilimenti si trova spesso la scritta metano, in tutti questi casi sicuramente il gas che scorre all'interno è il gas naturale.
Domanda: Quali sono le caratteristiche del gas naturale?
Risposta: Il gas naturale è una miscela di gas combustibili, oltre al metano (CH4) che ne costituisce oltre il 90%, normalmente contiene anche altri idrocarburi gassosi più pesanti, come etano, propano e butano, e in piccole quantità, pentano.
Non è tossico, è praticamente inodore e deve pertanto essere odorizzato artificialmente per evidenti motivi di sicurezza.
Domanda: Che differenza c'è tra il gas metano ed il gas delle bombole?
Risposta: Il metano è un gas di origine naturale che si forma principalmente dalla decomposizione di materie organiche, generalmente si estrae da falde sotterranee sature di gas compresso formatosi nel corso dei millenni, in piccole quantità si forma anche dal ciclo biologico dell'organismo e dagli escrementi, specialmente nei ruminanti. Il gas delle "bombole" è invece GPL (gas di petrolio liquefatto).
I GPL normalmente in commercio provengono, per la maggior parte, dal recupero dei gas residui che si sviluppano durante i molteplici trattamenti del petrolio nelle raffinerie. sono composti quasi esclusivamente da idrocarburi saturi o paraffinici (propano C3H8 e butano C4H10).
La miscela normalmente in uso è quella definita "GPL commerciale" in quanto i valori dei due gas, propano e butano, devono rimanere entro limiti prefissati al fine di garantire valori energetici standard e idoneità di utilizzo negli apparecchi a gas previsti.
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Passa il piano rifiuti provinciale

Maggioranza e opposizione concordi: le risposte al Pirellone in linea con le integrazioni richieste. La provincia promuove il piano rifiuti. Ora il documento prende la strada della Regione Lombardia.
Rassegna stampa - Il Cittadino, Alberto Belloni, 30 ottobre 2009.

Il piano rifiuti provinciale passa e torna in Regione Lombardia, che dopo averne bocciato la precedente bozza deciderà nei prossimi giorni se promuoverlo o meno. L’atto di palazzo San Cristoforo, già annunciato nei giorni scorsi dal presidente Pietro Foroni, è stato intanto ufficialmente varato ieri sera dal consiglio provinciale, all’unanimità, con maggioranza e opposizione concordi nel giudicare le risposte spedite al Pirellone in linea con le integrazioni chieste nella diffida estiva dall’assessore regionale all’ambiente Massimo Buscemi. «Tutte ed esattamente», ha voluto specificare in un breve emendamento il consiglio provinciale, riferendosi al riconoscimento in toto delle medesime richieste: una puntualizzazione, probabilmente, rispetto a una missiva giunta proprio dal Pirellone martedì, nella quale si consigliava di non aderire a una parte della diffida, ma che facendo riferimento a elementi estranei alle contestazioni ufficiali della regione palazzo San Cristoforo ha deciso di non seguire. Avanti così, dunque, fiduciosi che il chiarimento degli equivoci sugli inerti (2 milioni di tonnellate, sì, ma recuperate dalla provincia per oltre il 90 per cento), la ribadita autosufficienza degli impianti di gestione e smaltimento rifiuti esistenti, la confermata disponibilità ad ampliare la discarica di Cavenago e la minor rigidità su alcuni parametri (compresa l’eliminazione della distanza minima di 5 chilometri tra una cava e l’altra) possano bastare a raccogliere consensi anche negli uffici di Milano, con i quali il confronto sulla partita, negli ultimi tempi, è stato peraltro costante. Il tutto, è inteso, ricordando come il nuovo piano rifiuti, così simile a quello della giunta Felissari, possa contare su due confortanti premesse: la prima, pesante bocciatura da parte della Regione della discarica di Senna, autentica spada di Damocle sulla vicenda, e il nuovo Dgr sui rifiuti, che tra vincolo paesistico, fascia di rispetto del Pai e non retroattività del dispositivo ha allontanato ancora di più lo spettro di un nuovo impianto sulle sponde lodigiane del Po. «Teniamo comunque gli occhi aperti», ha chiosato soddisfatto ma cauto il presidente Foroni, promettendo comunque che, sulla questione rifiuti, «non ci faremo dettare la linea da nessuno, perché sappiamo come gestire il nostro territorio», e che qualora l’iter in regione dovesse culminare in sgradite sorprese (nuova bocciatura e conseguente commissariamento) «non mi tremerebbero le gambe», e che la provincia adotterà tutte le risposte necessarie. La coesione del Lodigiano, in tal senso, sembra assicurata, tanto che dopo le stilettate dei giorni scorsi i toni delle polemiche si smorzano lasciando spazio ad autoelogi e reciproci complimenti. «Siamo riusciti a fare sistema e lei è stato bravo a finalizzare», ha commentato l’ex presidente Lino Osvaldo Felissari complimentandosi con la vecchia giunta e con il suo predecessore per l’adozione di un piano a lungo condizionato da insidie e “sub judice” della giunta regionale; carezze restituite dallo stesso Foroni, che ringraziati gli uffici responsabili e l’assessore all’ambiente Elena Maiocchi ha lodato la coesione del consiglio come segno «di concretezza e maturità». Anche Luca Canova, consigliere Pd, ha limitato le critiche a qualche recente dichiarazione politica «un po’ sopra le righe» e al «traccheggiamento della regione, che ha tenuto in fricassea la questione per 7 mesi», senza però nascondere favore e apprezzamento per il lavoro fatto dalla giunta «riadottando un piano che era ottimo, e che era stato fatto nell’emergenza degli eventi ma con grande rigore». In attesa di risposte dal Pirellone (che salvo sorprese, come ha fatto intendere mercoledì l’assessore Buscemi, dovrebbero essere positive), il prossimo consiglio si terrà proprio a Senna, emblema dei timori del Lodigiano su nuovi impianti di smaltimento dei rifiuti: l’appuntamento, in tal senso, è previsto per il 9 novembre.
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Giù le mani dall'acqua

I nuovi emendamenti potrebbero prevedere la cessione del 40 per cento ai privati, ma il progetto dei comuni non morirà. «L’acqua del Lodigiano non si tocca». Anche se la legge dovesse cambiare, Sal gestirà per 30 anni l’oro blu.
Rassegna stampa - Il Cittadino, Greta Boni, 30 ottobre 2009.

Almeno su questo non ci piove: Sal, Società acqua lodigiana, gestirà per i prossimi trent’anni l’oro blu del territorio. Anche se le leggi dovessero cambiare per intraprendere il cammino della privatizzazione, l’affidamento del servizio alla società pubblica che riunisce tutti i comuni della provincia non si tocca. Lo ha dichiarato nella giornata di ieri l’ex assessore all’ambiente Antonio Bagnaschi, in occasione del seminario intitolato “L’acqua nel Lodigiano tra passato, presente e futuro”, organizzato in piazza Castello da AcquAria e dal Movimento per la lotta contro la fame nel mondo. «Sal ha un affidamento trentennale che nessuno può toglierle - afferma Bagnaschi, il quale ha seguito in prima persona il progetto che ha portato alla nascita della società -, la decisione è stata votata all’unanimità dai sindaci e da questo punto di vista è inattaccabile. È importante che siano i sindaci a decidere che cosa fare sul territorio. La normativa, però, tenta di portare il sistema verso la privatizzazione, aggredendo anche l’ultimo pezzettino di pubblico rimasto. Sal rappresenta fino a questo momento un’esperienza unica, è un esempio di come le cose possono funzionare anche nel settore pubblico, ma è una sfida difficile da affrontare». Sal dovrà realizzare sul territorio 340 milioni di euro di investimenti. In questi giorni, tutti gli sguardi degli addetti ai lavori sono puntati sul decreto legge che dovrebbe cambiare le regole del gioco. Fino a questo momento all’interno della compagine societaria di Sal sono confluite solo l’ex Consorzio Basso Lambro di Sant’Angelo e il ramo idrico di Astem; all’appello mancano Asm Codogno e Amiacque (ex Cap gestione), ma la partita non è ancora chiusa. Il decreto legge che approderà in Parlamento la prossima settimana potrebbe prevedere la cessione di una quota ai privati: «Alcuni emendamenti potrebbero obbligare a mettere a gara il 40 per cento della società - spiega Diomira Cretti, direttore dell’Aato, l’Autorità d’ambito territoriale ottimale -, per cui Sal potrebbe non essere più totalmente pubblica, in questo caso anche l’Ato dovrebbe esercitare un controllo più pressante». L’Ato ha il compito di indirizzare l’attività di Sal, stabilire le tariffe e tutelare i consumatori.Il presidente di Società acqua lodigiana, Carlo Coltri, ha sottolineato il successo dell’operazione che permetterà di gestire il servizio idrico in modo più efficiente: «Stiamo per concludere l’accorpamento - dichiara -, quando tutti i tasselli saranno pronti Sal sarà l’unico interlocutore. Nell’organico attualmente ci sono 35 dipendenti, ma a regime ce ne saranno 110. Il nuovo scenario legislativo forse introdurrà la cessione di una quota al privato, ci auguriamo che le leggi siano di facile interpretazione». Una speranza condivisa anche dal direttore generale Carlo Locatelli, il quale si augura di poter iniziare al più presto il lavoro. L’assessore provinciale all’ambiente, Elena Maiocchi, ha sottolineato che la Provincia di Lodi si impegnerà affinché la qualità dell’acqua migliori, evitando sprechi e controllando che gli “eco-furbetti” non abbiano il sopravvento.
Nel corso del seminario, presentato dallo storico Ercole Ongaro, si è parlato del libro “Storie d’acqua”, un volume che spiega in modo semplice come arriva l’oro blu nei rubinetti delle case lodigiane e racconta la storia delle società protagoniste del settore.
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Un cantiere aperto

Lodi. Incontro finale dei cittadini che avevano firmato l’appello per un progetto all’ombra del Pd. La lista di sinistra, un cantiere aperto. Saranno le segreterie dei partiti a dire la parola definitiva.
Rassegna stampa - Il Cittadino, Matteo Brunello, 30 ottobre 2009.

Per ora non decolla. La lista unitaria della sinistra rimane un “cantiere aperto”. E ogni decisione sulla sua costituzione è rimandata al confronto tra le segreterie dei partiti. È stato questo l’esito dell’incontro organizzato, mercoledì sera, da un gruppo di cittadini. Insieme avevano firmato un appello per unire le forze a sinistra del Partito democratico, in vista delle prossime elezioni comunali. Un appuntamento aperto in particolare al partito dei Comunisti italiani, Rifondazione comunista, Sinistra democratica, Socialisti democratici italiani e Verdi per la pace. «Noi abbiamo fatto la nostra parte, per lavorare ad un progetto unitario. E ora il compito passa ai singoli partiti - spiega uno dei promotori dell’iniziativa, Lele Maffi, al tavolo dei relatori con il segretario provinciale dei Comunisti italiani, Vito Cafaro - adesso noi come cittadini faremo un passo indietro, visto che i temi emersi e gli accordi riguardano primariamente le segreterie delle forze politiche». L’assemblea pubblica si è tenuta all’interno della Camera del lavoro di Lodi. L’obiettivo era quello sintetizzato nel testo diffuso per la presentazione: «Un gruppo di persone, molte delle quali impegnate in attività politiche e sociali, ha deciso di promuovere a livello individuale un appello rivolto alle forze politiche collocate in quell’area di sinistra che non si riconosce direttamente nell’esperienza del Pd, affinché si giunga alla scadenza elettorale con una lista unitaria, capace di evitare la frammentazione e la dispersione dei voti, oltre che di attivare un processo di partecipazione dal basso». Così nel corso della serata sono stati diversi gli interventi, alcuni dei quali hanno messo in luce difficoltà e nodi da affrontare. «Siamo certamente aperti al dialogo con le altre forze di sinistra - chiarisce Antonio Dimita, referente di Sinistra e libertà - tuttavia ho suggerito che ci sono alcuni aspetti tecnici, come quello dei simboli, oppure degli elementi programmatici, che vanno discussi primariamente all’interno dei partiti. Inoltre prima dobbiamo anche sentire gli iscritti e la base. E comunque la decisione di una lista comune non è ancora stata presa». Sempre da Sinistra e libertà hanno annunciato che nel corso dei prossimi giorni dovrebbero esserci degli incontri per arrivare a delle soluzioni. «L’iniziativa devo dire che ha avuto molte adesioni - sottolinea Enrico Bosani, segretario cittadino di Rifondazione - il nostro auspicio è che si arrivi ad una soluzione e vengano superate quindi alcune delle perplessità espresse da alcune forze politiche».
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Controlli antiterrorismo nella Bassa Lodigiana

Nel mirino anche phone center e kebab. Rete di controlli in città, fermati un clandestino e un tossicodipendente.
Rassegna stampa - Il Cittadino, Paola Arensi, 30 ottobre 2009.

Controlli antiterrorismo nella Bassa Lodigiana, un clandestino finisce in manette, una persona viene segnalata perché fa uso di eroina, un egiziano viene espulso e si accertano varie infrazioni amministrative presso esercizi pubblici gestiti da immigrati.
Mercoledì i carabinieri delle stazioni di Codogno e Casalpusterlengo hanno eseguito un servizio di prevenzione antiterrorismo disposto dal comando provinciale dei carabinieri di Lodi nel territorio di competenza. I controlli hanno coinvolto anche il personale dei nuclei antisofisticazioni e sanità dell’Arma di Cremona. Nel mirino Internet point, call center e negozi alimentari come macellerie islamiche e rivendite di kebab. In uno dei negozi di alimentari di Casalpusterlengo, nel quale non sono state registrate irregolarità, i carabinieri hanno trovato il 30enne egiziano E.E.. L’uomo è stato controllato mentre parlava con il titolare dell’attività, suo connazionale e dato che non aveva documenti, portato in caserma per l’identificazione. E.E. è stato quindi arrestato per non aver lasciato l’Italia come imposto da un ordine del Questore di Lodi emesso lo scorso 12 agosto. Sempre nello stesso esercizio commerciale i militari hanno identificato il clandestino egiziano I.L. di 26 anni. Il ragazzo è stato portato in questura per l’espulsione. Poco più tardi i carabinieri della stazione di Codogno, di pattuglia lungo la strada provinciale 20 all’altezza di Somaglia, hanno notato il ciclista I.M. di 22 anni pregiudicato per reati contro il patrimonio. I.M. ha cercato di evitare il controllo delle forze dell’ordine con un tentativo, poi risultato vano, di nascondersi dietro un riparo della pista ciclabile.Il giovane, che ha a suo carico un avviso orale del Questore di Lodi, al momento del controllo nascondeva nelle tasche un grammo di eroina per uso personale. I militari lo hanno quindi segnalato al Prefetto di Lodi quale assuntore di sostanze stupefacenti. I carabinieri di Codogno hanno poi controllato una macelleria islamica codognese riscontrando alcune violazioni amministrative come il mancato uso di abbigliamento idoneo alla vendita, che prevede una multa di 308 euro e la mancata esposizione delle licenze che impone il pagamento di ben 1.032 euro. Quest’ultima infrazione è stata riscontrata anche presso un venditore di kebab e sempre a Codogno.
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Cassa integrazione a rotazione all'Inalca

Ospedaletto. Allarme dei sindacati: «Tra i lavoratori delle cooperative c’è un clima di grande esasperazione e stanchezza». La crisi fa vacillare il gigante delle carni. Al macello Cremonini cassa a rotazione per 500 dipendenti.
Rassegna stampa - Il Cittadino, Andrea Bagatta, 30 ottobre 2009.

Ospedaletto - Sono 518 i lavoratori dello stabilimento Inalca di Ospedaletto interessati dalla cassa integrazione a rotazione. Il provvedimento, richiesto in deroga alla Regione già nei mesi scorsi e legato all’andamento del mercato, avrà vigore fino alla fine dell’anno e riguarda tutti i dipendenti delle tre cooperative che assicurano la forza lavoro al macello più grande d’Europa. Dal 6 luglio scorso al 5 gennaio 2010 sono state richieste 10.832 ore di cassa per 305 soci lavoratori della Universal, 9.860 ore per i 141 soci lavoratori dell’Iride e 2.192 ore per i 72 soci lavoratori della King.
Anche di primo acchito è evidente come il numero di ore richiesto, in rapporto al numero di lavoratori coinvolti, sembri indicare nella cooperativa Iride quella più soggetta al ricorso alla cassa. I soci lavoratori dell’Iride sono impiegati nella macellazione delle carni, mentre i lavoratori della Universal e della King sono addetti perlopiù alla trasformazione. E proprio sul macello sembra focalizzarsi la crisi. Per una serie di ragioni tecniche e di mercato, nella seconda metà dell’anno non è più garantito il flusso continuo di animali da macellare, e quindi lo stabilimento fa sempre più spesso ricorso a carni macellate altrove che vengono poi portate a Ospedaletto per la lavorazione.
Proprio per questo motivo, il maggior ricorso alle ore di cassa integrazione è stato per i lavoratori del macello. Di fatto, i dipendenti non sono mai stati lasciati a casa, ma non si riesce più a comporre turni da 8 ore continue. In un mese si è arrivati a perdere anche una settimana circa di lavoro, con il risultato di incidere sulla busta paga, molto più leggera. Inoltre, trattandosi di cassa in deroga dalla Regione, l’azienda non è tenuta ad anticipare i soldi, e la burocrazia produce due o tre mesi di ritardo sui contributi.
«Tra i lavoratori c’è un clima di grande esasperazione e stanchezza - dice Vanna Minoia, segretario provinciale Cgil del comparto agroalimentare -. La cassa integrazione è legata proprio a un momento del mercato e non a una crisi strutturale, e anche il ricorso alle ore è stato piuttosto basso nel suo complesso. Tuttavia sono molto preoccupata perché in un pezzo dello stabilimento, la trasformazione, vedo una certa crescita, mentre nel reparto macellazione mi sembra che le cose non vadano proprio per il verso giusto».
Meno preoccupato il segretario di categoria Cisl Gianluca Grazioli: «L’apertura della cassa integrazione era stata fatta a suo tempo per un calo nella macellazione e per i timori sull’autunno - spiega Grazioli -. In realtà finora se ne fatto pochissimo ricorso ed è comunque una cassa a rotazione. Sono abbastanza tranquillo, nel senso che non ci troviamo di fronte a una crisi strutturale e quindi non vedo particolari problemi. Poi a gennaio si deciderà se andare avanti o meno con la cassa».Ancora mercoledì pomeriggio, in assemblea dei lavoratori, è stato infine riconfermato che l’azienda non ha alcuna intenzione di aprire procedure analoghe per i 133 dipendenti assunti direttamente da Inalca.
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