FATTI E PAROLE

Foglio virtuale quotidiano di Brembio e del suo territorio

http://www.fattieparole.info

Si può leggere l'ultimo numero cliccando sopra, sull'immagine della testata o sul link diretto, oppure cliccando qui.
Ogni nuovo numero esce nelle ore serali, ma dopo le 12.00 puoi già leggerlo mentre viene costruito cliccando qui.

FATTI E PAROLE - ARCHIVIO
www.fattieparole.eu

La parola al lettore

Le tue idee, opinioni, suggerimenti e segnalazioni, i tuoi commenti, le tue proposte: aiutaci ad essere un servizio sempre migliore per il nostro paese.

Puoi collaborare attivamente con noi attraverso questo spazio appositamente predisposto - per accedere clicca qui - o anche puoi scriverci cliccando qui.

domenica 15 novembre 2009

La volpe e l'uva

L’anti-Ghedini in gonnella che detta la Legge a Fini.
Rassegna stampa - Il Giornale, Giancarlo Perna, 15 novembre 2009.

Diventata un personaggio, Giulia Bongiorno ha saputo adeguarsi. Ha perso quell’aria da secchiona un po' trascurata dei debutti. Ai tempi in cui difendeva Giulio Andreotti, sia che apparisse in tv gioiosa per un’assoluzione o abbacchiata per una condanna, aveva comunque l’aria scarruffata di un pulcino bagnato. Con gli occhialini sbilenchi e i vestiti mal assortiti pareva una maestrina di campagna scaraventata dal letto all’alba per arrivare puntuale a scuola.
Oggi è invece un elegante pezzo da novanta, graziosamente avvolta nel pantatailleur d’ordinanza del gentil sesso in carriera. Così, l’abbiamo vista 48 ore fa sui teleschermi presentare assieme a Michelle Hunziker la loro fondazione benefica «Doppia Difesa» contro la violenza sulle donne da parte di maschiacci energumenici. Un’iniziativa benvenuta che si inquadra anche nell’elevato ruolo pubblico che l’avvocatessa ricopre da quando è entrata in politica nel 2006.
Tutto è cominciato nel momento in cui si sbriciolò il matrimonio di Gianfranco Fini. Volendo separarsi con determinazione ed eleganza, l’allora leader di An si è rivolto alla Bongiorno che già godeva in Parlamento di larghissima fama. Il Divo Giulio ne aveva infatti disseminato le lodi tra i colleghi. Durante la delicata procedura di scioglimento dell’unione ventennale, Bongiorno e Fini si sono reciprocamente stimati ed è maturata la candidatura dell’avvocatessa alle elezioni politiche 2006.
Fino ad allora, Giulia - che aveva già 40 anni, essendo nata a Palermo nel 1966 - non aveva mai neppure votato. Appassionata di Pandette, basket, jogging e palestra si era disinteressata di politica, tanto da non distinguere la sinistra dalla destra. «Tra Prodi e Berlusconi non vedo differenze», aveva detto in un’intervista appena un anno prima. Titubante alla proposta di Fini, si consultò con Andreotti che considera alla stregua di un tenero nonno. Il Divo ci pensò un po' su, poi dette l’assenso.
Accettata la candidatura, Fini la presentò alla stampa con apposita conferenza. Giulia arrivò meno elegante di quanto non sia oggi, ma in via di miglioramento poiché aveva già incaricato la mamma di comprarle a Palermo i vestiti che lei - per sua ammissione - non sa scegliere non avendone né il gusto né la pazienza. Ai giornalisti disse che aveva ricevuto avances anche da sinistra ma che sceglieva la destra per il particolare rapporto con Fini. Di lui - spiegò - aveva apprezzato il favore per le quote rosa. Soprattutto però la «posizione coraggiosa e indipendente» sulla fecondazione assistita più laica e aperta di quella del centrodestra. Alla stampa non sfuggì che con questa dichiarazione Giulia si collocava tra «i cattolici adulti» di prodiana memoria. Tutti sapevano infatti che la giovane donna aveva più volte detto di essere «cattolica praticante e, anzi, di entrare in chiesa tutti i giorni». Poiché però, sulla fecondazione, era più in sintonia con Fini che col cardinale Ruini, andava considerata a tutti gli effetti una libera interprete dei dettami della Chiesa. Una cattolica adulta, appunto. Aggiunse che non voleva «crociate contro i magistrati ma essere ponte tra politica e toghe» e concluse: «Sono garantista, non perdonista». Quando finalmente tacque, Fini proclamò: «La candidatura dell’avvocato Bongiorno onora An».
Nella prima legislatura, di rodaggio, Giulia non lasciò grandi impronte. Rieletta nel 2008, ha invece assunto la presidenza della Commissione Giustizia. Contestualmente, è diventata la massima consulente dell’attuale presidente della Camera nei rapporti con l’ordine giudiziario. Diciamo che Bongiorno fa il quadro e le decisioni le prende Fini. Lei mette la pulce nell’orecchio sulle iniziative del Cav e del suo braccio destro in materia, l’allampanato avvocato padovano, Niccolò Ghedini. Fini ingigantisce le preoccupazioni e ne prende spunto per i proverbiali no che mandano in bestia il premier. Si fanno, insomma, da sponda. Giulia con un ruolo puramente tecnico, Gianfranco con mire politiche che vanno dall’azzoppamento del Cav, all’acquisto di benemerenze a sinistra per più alti traguardi.
Bongiorno va alla Camera il minimo indispensabile poiché dedica alla professione la maggiore parte del tempo. Nello studio di Piazza in Lucina - lo stesso che fu di Andreotti e che il «nonno» le ha ceduto per gratitudine - fanno la fila legioni di imputati illustri. È, o è stata, difensore dei calciatori Totti (sputo in campo a Poulsen) e Bettarini, di Vittorio Emanuele, di Raffaele Sollecito il giovanotto accusato dell’uccisione a Perugia della studentessa inglese Meredith Kercher. Ha assistito la Hunziker in una causa contro un tizio che la perseguitava. Per Fini ha querelato un mese fa Vittorio Feltri. Per conto del gip Clementina Forleo ha fatto lo stesso con i parlamentari Calderoli, Borghezio, Cicchitto e Gasparri che se l’erano presa con lei per il rilascio di pericolosi islamici. Le due si sono scoperte anime gemelle. Giulia è andata alle nozze di Clementina che le ha preparato un menu speciale di mozzarelle e pomodori. L’avvocatessa è infatti allergica alla pasta e ai cereali in genere essendo celiaca. Patologia contratta per il trauma subito il giorno in cui Andreotti fu condannato a 24 anni, in primo grado, per l’omicidio Pecorelli. La malattia, purtroppo, non è regredita neanche con la successiva assoluzione che, come molti ricorderanno, fu accolta da Giulia con il famoso «E vai!» seguito dal triplice urlo, «Assolto, assolto, assolto», rilanciato dalle tv di tutto il mondo.



Bongiorno non si vede mai in Aula. La sola attività parlamentare che svolge è la presidenza della commissione. Arriva trafelata, intabarrata nel cappotto. A cose fatte, lo rimette e fugge via. Se un deputato vuole parlarle deve affiancarla correndo. Durante la seduta, usa il campanello - in disuso da decenni - per imporre il silenzio a chi interviene fuori dal suo turno. Il solo che lascia fare, essendo irrefrenabile, è Di Pietro che interferisce disordinatamente com’è nella sua natura. Prima dell’inizio, raccomanda di mettere il silenziatore ai cellulari. Se sente uno squillo incenerisce con lo sguardo il dimentichino. Ghedini fa il possibile per rabbonirla con tutte le politesse venete di cui è capace. Le ha anche regalato un telefonino. Ma Giulia lo ricambia con diffidenza siciliana aspettandosi che voglia infinocchiarla con proposte pro Cav a lei sgradite. Sulla legge per frenare le intercettazioni ha preteso tre volte modifiche di accordi già raggiunti nel centrodestra. Spesso si autonomina relatrice di provvedimenti delicati su donne (stalking ed estensione del cognome materno ai figli), usura, mafia e altre materie che le stanno a cuore.
La mattina, prima del sorgere del sole, si concede una pausa a tanto stakanovismo e fa jogging in Villa Borghese partendo in tuta dalla sua casa nei pressi del Senato. Torna, fa la doccia, indossa giacca e pantaloni - nessuno l’ha mai vista in gonna - e si rituffa nella sua attività avvocatesca prendendo treni e aerei per i tribunali della penisola. Nel 2006, da notizie di stampa, ha denunciato un reddito di un milione e 618mila euro.
Giulia è figlia d’arte. Il padre, Girolamo, è docente di Procedura civile alla Sapienza dagli anni '90. Prima insegnava all’ateneo di Palermo dove il suo trasferimento a Roma è stato salutato con giubilo dagli studenti terrorizzati dalla sua severità. A Palermo, tuttavia, papà Girolamo ha ancora un avviato studio civilistico presidiato da Roberta, l’altra figlia. Giulia non ci è mai entrata avendo dall’inizio abbracciato la carriera di penalista nello studio Sbacchi il difensore panormita di Andreotti collegato con Franco Coppi, lo stratega della difesa del Divo. Per questa via, Giulia è entrata nell’empireo dell’avvocatura e, per li rami, si è incistata nel Pdl.
Col bel risultato che il Cav ha una gatta in più da pelare in casa sua.


Un’indagine semplice nel senso criminale del termine

I mandanti politici delle stragi del '93, ecco l'indagine che agita Berlusconi.
Rassegna stampa - l'Unità, Claudia Fusani, 15 novembre 2009.

C’è una data a cui palazzo Chigi guarda con apprensione: quando la Corte d’Appello di Palermo sentirà il superpentito Gaspare Spatuzza nel processo al senatore Marcello Dell’Utri già condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E c’è anche una procura a cui sempre palazzo Chigi guarda con attenzione: quella di Firenze che ha riaperto l’inchiesta sui mandanti occulti e sul livello politico delle stragi di Cosa Nostra nel continente (10 morti, 106 feriti, nel 1993 tra Firenze, Roma, Milano). Un’inchiesta «riaperta» esattamente dal punto dove era stata archiviata il 16 novembre 1998 quando il gip Giuseppe Soresina scrisse che «è altamente plausibile che i soggetti protetti nel registro mod.21 con le denominazioni Autore 1 e Autore 2 abbiano concorso moralmente all’azione stragista del soggetto Cosa Nostra» ma che «non erano stati reperiti elementi validi per il dibattimento». Un’inchiesta, coordinata dal procuratore Giuseppe Quattrocchi e dai sostituti Giuseppe Nicolosi e Alessandro Crini, che adesso sembra aver completato quel quadro probatorio grazie, e non solo, alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza. Viene definita «un’indagine semplice nel senso criminale del termine», che non va, cioè, «ad inseguire teoremi» e che «avrà tempi relativamente brevi».
«Il problema di Berlusconi non è né Mills né Mediaset, dicono i bene informati della maggioranza. Il problema è «Firenze», o Palermo, oppure Caltanissetta. Il problema riguarda un ipotetico coinvolgimento del Presidente del Consiglio, insieme con Marcello Dell’Utri nelle inchieste su Cosa Nostra e sulle sue connessioni politiche. Un problema, per cui si capisce meglio anche certa fretta nel Pdl per ripristinare l’immunità parlamentare.
La storia dell’inchiesta sui mandanti a volto coperto andrebbe raccontata dall’inizio, a cominciare dal pm, Gabriele Chelazzi (morto nel 2003) che con Vigna, allora procuratore, e Nicolosi cercò di dare ordine a una serie di «input investigativi» diventati ben presto «plausibile ipotesi investigativa». Occorre però partire dalla fine. Che sono le dichiarazioni, solo in piccola parte note, di Spatuzza, braccio destro dei fratelli Graviano, capi mandamento di Brancaccio, tra gli esecutori della strage di via D’Amelio e di quelle in continente. Spatuzza sedeva alla destra del padre, inteso come i fratelli Graviano a cui Riina e Provenzano avevano ordinato la strategia del terrore tra il ‘92 e il ‘93. Un ruolo che lo pone per forza di cose a conoscenza di tutti i segreti di Cosa Nostra, «in quel perido, tra la fine del ‘92 e i primi mesi del ‘94».
C’è un suo verbale raccolto dai pm fiorentini (titolari del collaboratore di giustizia) che dice chiaramente chi sono i referenti politici con cui la mafia avrebbe trattato e come. In un altro verbale rilasciato a Palermo il 6 ottobre si leggono i nomi di «Silvio Berlusconi, quello di Canale 5 e Marcello Dell’Utri». A Spatuzza ne parla Giuseppe Graviano, all’indomani della strage di Firenze (maggio 1993): «Si tratta di politica, c’è in atto una situazione che se va a buon fine ne avremo tutti i benefici, sia i carcerati che gli altri». E poi di nuovo a metà gennaio 1994, seduti al bar Doney di via Veneto: «Abbiamo il paese in mano» disse Graviano a Spatuzza, grazie all’interessamento «di persone di fiducia, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri» che da qualche mese stava organizzando la discesa in campo del Cavaliere con Forza Italia. Dopo pochi mesi i fratelli Graviano furono arrestati a Milano. Spatuzza molto dopo, nel 1997. Fatto sta che della strage allo Stadio Olimpico, ennesima e finale prova di forza per siglare la trattativa tra politica e Cosa Nostra e già saltata nel dicembre 1993 per un difetto nell’innesco, non se ne seppe più nulla.
Questo e molto altro («è un’indagine piena di riscontri») ha detto Spatuzza che si è pentito meno di un anno fa. Per gli investigatori fiorentini è l’anello mancante della vecchia indagine archiviata. Già allora avevano parlato, si legge nella richiesta di archiviazione del 1998, «Pietro Romeo che aveva quasi indicato il livello del concorso morale». E poi Ciaramitano, Pennino, Cancemi, per un totale di 23 collaboratori. Le cui dichiarazioni, tutte insieme, già nel 1998 dicevano: 1)«Cosa Nostra nell’intraprendere la campagna di strage ha agito di concerto con soggetti esterni»; 2)«Tra il soggetto politico-imprenditoriale di cui AutoreUno e AutoreDue, indicati come concorrenti del reato, e Cosa Nostra il rapporto è effettivamente sussistente e non episodicamente limitato»; 3)«La natura del rapporto era compatibile con l’accordo criminale». Quello che allora non fu del tutto possibile dimostrare è che «il soggetto politico imprenditoriale aveva sostenuto le aspettative di ordine politico (meno pressione giudiziaria sulla mafia, ndr) per il perseguimento delle quali la campagna di strage è stata deliberata e realizzata». Era la parte mancante. Adesso, forse, trovata. E riscontrata.
Condividi su Facebook

A Hitler sì ma mai a Stalin

Al vicesindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini, ho dedicato, come chi segue sa, una puntata del BlogNotte. Tanto per tenere vivo il ricordo delle esternazioni che lo hanno reso celebre e condannato all'interdizione da pubblici comizi ecco tre altri brevi esempi di colta loquela del nostro personaggio. Nel primo video mostra tutta la sua tolleranza verso i gay.



Nel secondo il buon Gentilini esterna il suo gentilino razzismo contro i cani stranieri, accusati di non rispettare "l'economia floreale delle nostre montagne".



Il terzo video, di non buona qualità perché fatto con un telefonino, ce lo mostra combattente all'attacco al banchetto dei GrilliTreviso.



E infine per par condicio una scheggia dove riesce a dire anche qualcosa di serio. È il suo breve discorso a pranzo col Gruppo alpini M.O.E. Reginato.



Interdetto dai pubblici comizi, dicevo, e cosa ti inventa quel diavolo di Feltri per far scendere sempre di più il livello del suo scottex-giornale: gli dà un palco virtuale.

Gentilini: "Il mio comizio vietato sul burqa e sulle croci".
Rassegna stampa - Il Giornale, di Giancarlo Gentilini*, 15 novembre 2009.

Lo sapete perché mi hanno condannato a non fare comizi? Perché tutto quello che avevo detto negli anni passati era la pura verità, purtroppo confermata dalla cronaca e dai provvedimenti politici adottati a livello nazionale.
Volete un esempio? Semplice, la legge ispirata dal ministro Maroni sui clandestini. Dunque, facevano tanto rumore, mostravano scandalo perché io invitavo a rispedire a casa loro i delinquenti, perché chiedevo la blindatura delle frontiere nei confronti degli indesiderati. Bene, e per questo forse sarei razzista? Non mi pare, visto che a distanza di pochi anni questa Repubblica ha una legge che, di fatto, introduce il reato di clandestinità.
Eccolo qua il razzista. Chiamatemi piuttosto lungimirante. Vi ricordate quando vietavo il burqa? Anche lì, un pandemonio. Io sarei stato quello che discriminava gli stranieri, che adottava provvedimenti degni di Hitler. Meno male che non mi hanno mai paragonato a Stalin. Sciocchezze, tremende sciocchezze. Io ho fatto il sindaco e so come si governa una città nell’interesse dei cittadini che ci abitano, stranieri compresi. Sì, stranieri compresi, perché se andate a chiedere agli immigrati che vivono e lavorano regolarmente a Treviso vi diranno che ci stanno a meraviglia. E che quello che viene passato per un tiranno ha solo ed esclusivamente chiesto, e ottenuto, che chi arrivava da fuori rispettasse le leggi e le tradizioni di questo territorio.
Io i comizi, in ogni caso, li tengo come e dove voglio. Anche perché ho presentato ricorso contro il provvedimento di una magistratura che tende sempre al rosso. Questa è la loro risposta democratica, chiudere la bocca a chi esprime concetti condivisi da tutti. Chiedetelo ai trevigiani, chiedete quanti di loro sono favorevoli alle donne che girano mascherate col burqa. Ma per favore, io ho scritto al Presidente della Repubblica perché venga dato un riconoscimento ufficiale all’usciere del museo di Ca’ Rezzonico che ha impedito l’ingresso a un essere totalmente coperto da un velo inaccettabile. Basta questo per dire che sono razzista? Se bastasse, allora non dovrei essere certo l’unico a cui togliere la parola.
No, non passeranno queste tesi fino a quando nel Veneto ci saranno persone che non mollano. Dico, vi siete mai chiesti come mai la Lega continua a guadagnare voti? Provate a fare un fischio a quei burocrati che stanno all’Unione europea e che hanno il tempo di riempire cartacce di oscenità. Sì, perché non è un’oscenità il divieto di crocifisso emesso nei confronti della nostra storia? Allora, noi dovremmo destinare soldi pubblici per aiutare gli islamici a costruire le loro moschee e nel contempo togliere i crocifissi dalle nostre scuole, dai nostri municipi, dalle nostre istituzioni. Fosse per certi preti nostrani, del resto, dovremmo togliere il crocifisso pure dalle nostre chiese, visto che qualcuno ha pensato bene di dare ai musulmani dei locali cristiani perché li potessero trasformare in moschee. Bravi, davvero, questi preti rosa, rosati, rossi, fate voi, che si lasciano sfilare il crocifisso in virtù di una resa spacciata per tolleranza.
Nossignori, sul crocifisso non si passa. È la nostra cultura, la nostra storia, la nostra tradizione, vogliamo buttare tutto nel cesso? Vogliamo lasciar fare ai burocrati di Bruxelles? Un popolo che molla sulla sua storia è un popolo che non ha futuro. E non mi vengano a dire che sono razzista perché parlo male delle moschee, perché mi oppongo alla costruzione di questi presunti luoghi di culto. Dietro il paravento del Corano, nelle moschee si ritrovano anche i terroristi. Avete visto quel che è successo a Milano? Dico, a Milano, mica in Afghanistan o in Pakistan, a Milano, grande città del nord Italia: un tipo che frequenta la moschea ha rischiato di compiere una strage. Ci sono segnali che personaggi del genere siano in costante aumento nel nostro Paese.
Di fronte a questi fatti, non posso neanche prendere in considerazione l’ipotesi di autorizzare la costruzione di una moschea. Pensate: l’Europa ci chiede di togliere il crocifisso perché potremmo mancare di rispetto agli islamici e in più noi dovremmo metterci a costruire moschee per permettere loro di sentirsi a casa.
È una vergogna. E poi dicono che io sono razzista. Magari perché non tollero che nei campi nomadi ai bambini venga insegnata l’arte del furto, dopo mille maltrattamenti. A Treviso la Lega ha sempre ottenuto un mare di voti perché il popolo la pensa esattamente come me. Perché io difenderò fino alla morte il crocifisso sulla parete della scuola, anche se non condivido affatto uno dei precetti cristiani che mi insegnavano al catechismo: se ti danno una sberla, tu porgi l’altra guancia. Mi dispiace, io sono fiero di sapere che la mia cultura ha il crocifisso nelle sue radici, ma io l’altra guancia non la porgo. Io, a questi qui che continuano a fare i delinquenti a casa mia, rifilo un cazzotto. Anzi, due, così imparano a comportarsi bene, a rispettare le città che li hanno accolti.
Questi qui sono i motivi per cui un magistrato mi ha condannato, in primo grado, a tener chiusa la bocca in pubblico. E questi qui sono anche i motivi per cui la Lega nord continua ad aumentare il consenso. Per avere il coraggio di dire e fare quello che la maggior parte del popolo pensa.
A furia di tollerare i clandestini, a furia di tollerare le moschee frequentate da terroristi, a furia di tollerare gente che gira coperta per le strade, finisce che siamo noi gli stranieri a casa nostra. Nessuna sentenza mi può impedire di denunciare questa deriva. E col prossimo governatore leghista, state pur certi che il Veneto a questa deriva non si rassegnerà mai.
*pro sindaco di Treviso
(testo raccolto da Marimo Smiderle)
Condividi su Facebook

Premier debole, ritorna il terrorismo

A l'Unità documento dei 'Nuclei azione territoriale'.
Rassegna stampa - l'Unità, 12 novembre 2009.

Un documento contenente minacce a politici e giornalisti è stato recapitato per posta oggi [giovedì 12] alla redazione di Bologna de l’Unità. Il documento, costituito da 4 cartelle, ha la struttura di una “risoluzione strategica” approvata nell’ottobre del 2009 da cinque “nuclei territoriali” (Milano, Torino, Bergamo, Lecco e Bologna) di un’organizzazione che si firma “Nuclei di azione territoriale (Luca e Annamaria Mantini)”. Sono i nomi di due terroristi dei Nuclei armati proletari. Luca Mantini fu ucciso a Firenze il 29 ottobre del 1974 durante un tentativo di rapina. Sua sorella Annamaria a Roma l’8 luglio del 1975 nel corso di una operazione antiterrorismo.
“I nuovi padroni del XXI secolo, i loro servi neofascisti e razzisti, i fautori di un governo teocratico-cattolico, devono capire che i loro sforzi di consolidare il REGIME si scontrano con un’opposizione crescente, forte e, se occorre, anche violenza. Questi signori devono capire che sono vulnerabili nelle loro case, nei loro beni, nella loro organizzazione e, se occorre, nelle loro persone”.
Il documento è stato consegnato da l’Unità alla Digos di Bologna.

Il documento può essere letto oltre che nel sito del giornale, anche nella nostra Biblioteca Digitale.

Berlusconi rivela le minacce di Al Qaida: "C'è un piano per farmi saltare in aria".
Rassegna stampa - Il Giornale, Vincenzo La Manna, 15 novembre 2009.

Magari fosse solo un game, nel senso di gioco. Magari si trattasse solo del «dossier personale» intestato a Silvio Berlusconi, inserito nella lista di una ventina di personalità politiche possibili bersagli, ritrovato nel computer di Mohamed Game, l’attentatore libico che lo scorso 12 ottobre tentò di farsi saltare in aria davanti alla caserma Santa Barbara di Milano. Ci sarebbe infatti un allarme più serio, secondo quanto trapelato nelle ultime ore, al di là del diniego ufficiale dei servizi, tramite il Copasir, su un presunto pericolo sicurezza per il premier. Porterebbe dritti a un concreto rischio attentato, invece, la decisione di far traslocare in tutta fretta il Cavaliere da Palazzo Grazioli, con destinazione Palazzo Chigi. Sede ufficiale del governo - ben più protetta della residenza privata in via del Plebiscito - dove ogni presidente del Consiglio ha sempre a disposizione un proprio appartamento.
Il capo del governo, infatti, sarebbe oggetto di una minaccia diretta da parte di una cellula terroristica islamica. Non si conoscono i contorni del fascicolo in questione, ma pare si sia arrivati a temere un «pericolo bomba» attraverso l’ascolto di alcune intercettazioni telefoniche, in cui si sarebbe fatto riferimento a un attentato per colpire il premier. Un progetto che alcune fonti collegano in maniera diretta con Al Qaida.
Per il momento, nessuna conferma ufficiale. Anzi, non ci sarebbe alcun pericolo di sicurezza per il premier, avrebbe chiarito Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi di sicurezza, al presidente del Copasir, Francesco Rutelli. Una smentita arrivata nel corso di una telefonata, in cui l’ex esponente del Pd avrebbe chiesto chiarimenti sulle motivazioni del trasloco di giovedì notte, bissato venerdì. Una scelta non da poco, inusuale, visti i pochissimi precedenti. Tanto da aver subito alimentato il giallo. Una stranezza, alimentata pure dall’insolito nervosismo avvertito attorno agli uomini che si occupano della sua sicurezza personale.
Il diretto interessato, intanto, sembra fare buon viso a cattivo gioco. E come da tradizione, anche ieri è rientrato ad Arcore per il week-end. Ma al riparo da taccuini e occhi indiscreti, a pochi confidenti avrebbe ammesso di essere «molto preoccupato» per la vicenda. Pronto a riferire: «C’è qualcuno che vorrebbe farmi saltare in aria». Sarebbe questa quindi la motivazione delle due notti di seguito trascorse a Palazzo Chigi, a distanza di anni rispetto alle precedenti esperienze. Nel 2003 vi passò infatti tre giorni, bloccato da una forte influenza, mentre in un’altra occasione vi rimase durante alcuni lavori di ristrutturazione a via del Plebiscito. In ogni caso, si tratta di una novità assoluta per questa legislatura. Soltanto nella breve esperienza del 1994 Berlusconi si era stabilito in tutto e per tutto a Palazzo Chigi, affidando in quel frangente alla first lady Veronica il riassesto dell’appartamento presidenziale. Solo in queste poche occasioni, dunque, il Cavaliere, durante la sua permanenza nella capitale in veste di presidente del Consiglio, ha cambiato letto. Tanto che la sua residenza privata, con il tempo, ha via via acquistato una dimensione pubblica, diventando teatro di vertici politici, riunioni di ministri, e anche di incontri internazionali come nel caso della visita dell’allora premier spagnolo, José Maria Aznar.
Detto questo, l’allarme terrorismo non è soltanto di matrice islamica. La conferma arriva direttamente dal ministro dell’Interno: «Ci preoccupano i segnali che abbiamo ricevuto dell’attività di un gruppo che si rifà alle Brigate Rosse». Secondo il titolare del Viminale, «questo gruppo, che ha inviato un volantino alla redazione dell’Unità nei giorni scorsi» - il riferimento è ai Nuclei di azione territoriale (Luca e Annamaria Mantini), un’organizzazione che ha firmato un documento contenente minacce a politici e giornalisti - «propone di territorializzare le attività ed è composto da cinque cellule radicate a Milano, Como, Torino, Lecco e Bergamo». Secondo Maroni, «sale l’attenzione per questi segnali nuovi e preoccupanti che il governo sta valutando». Per contrastare «episodi» che «si aggiungono» al pericolo del terrorismo islamico, «che c’è e risulta evidente dagli ultimi fatti». Ecco perché, aggiunge, «stiamo decidendo le misure da prendere».
Condividi su Facebook

Peggio della spazzatura

Alemanno alle richieste di Amnesty International, che lancia un appello mondiale: «Davvero bisogna avvisare i rom che verranno sgomberati?».
Rassegna stampa - Liberazione, Laura Eduati, 14 novembre 2009.

Puntuali e puliti, come sempre. Alle otto del mattino le mamme rom sgomberate dal cosiddetto Casilino 700 hanno voluto accompagnare ugualmente i loro bambini alla scuola elementare "Iqbal Masih". Un piccolo rom ha trovato ospitalità a casa di una maestra. Gli altri hanno dormito con le proprie famiglie ma divisi, lontani dalle povere cose macinate mercoledì dalle ruspe: una ottantina accolti a Metropolis, ex fabbrica occupata dai Blocchi precari metropolitani lungo la via Prenestina; una trentina nella sala consigliare del VI municipio.
Finalmente all'asciutto, finalmente tra quattro mura. Non certo a spese del Campidoglio, che aveva proposto una alternativa disumana durante i due violenti sgomberi, prima a via di Centocelle e poi alla fabbrica Heineken: rimpatrio assistito o ricovero nelle strutture comunali soltanto per donne e bambini piccoli e soltanto per due giorni in un edificio ancora anonimo sulla Salaria, tanto che nemmeno i consiglieri Pdl hanno potuto fornirne il numero civico.
Naturalmente la stragrande maggioranza dei rom ha preferito non smembrare la famiglia. «È un gioco delle parti», commenta Aleramo Virgili dell'Opera Nomadi: «Il Comune propone un tipo di assistenza sapendo che i rom rifiuteranno e sapendo che, se accettassero, non ci sarebbe posto per tutti». Una ventina di persone, invece, aveva accettato il rimpatrio assisitito - ovvero il pagamento del biglietto dell'autobus per la Romania -, erano saliti sul pullman che doveva portarli alla stazione Tiburtina ma quando hanno visto che il mezzo prendeva la direzione della Salaria si sono spaventati e hanno cominciato a urlare dai finestrini. Il pullman si è fermato in mezzo al nulla, sono scesi, e dopo un giorno di elemosina hanno potuto racimolare il viaggio verso Est. Ieri l'assessora ai servizi sociali, Sveva Belviso, ha proposto ai trenta rom nella sala consigliare di passare al centro di via Salaria, ma per sette giorni e senza dividere le famiglie. Le trattative sono in corso.
«Il sindaco Gianni Alemanno ha accusato genericamente i centri sociali di aver ostacolato l'assistenza e di volere i rom nelle baracche», si arrabbia Gianluca dell'associazione Popica che da mesi si occupa del campo abusivo: «In realtà il Campidoglio non ha accolto nessuno e noi da sempre lavoriamo affinché questa gente vada a vivere in una casa, questo è d'altronde il loro desiderio».
Popica e Blocchi precari metropolitani hanno voluto fare il punto della situazione davanti al VII municipio, all'ora di pranzo, insieme con il presidente Roberto Mastrantonio che poco dopo si è incatenato per protestare contro la decisione di Alemanno di riversare le conseguenze degli sgomberi sul suo territorio senza nemmeno avvisare. In serata il sindaco ha accolto la proposta del Pd capitolino: un consiglio comunale straordinario sui nomadi.
Alla conferenza stampa sono arrivati i rom rumeni accolti al Metropolis: uomini, donne e bambini che per ore sono rimasti silenziosi e attenti, ma ancora pieni di angoscia e terrore per quanto successo. Una donna racconta: «Durante lo sgombero alla ex Heineken mio figlio di diciannove anni ha avuto una crisi fortissima, non riconosceva più nessuno. È finito all'ospedale».
Accanto a loro le maestre della "Iqbal Masih" che hanno voluto raccogliere soldi e vestiti per dare una mano, e sacrificano da tre giorni ogni minuto utile per rintracciare i piccoli alunni dispersi e tentare una mediazione con il Comune. Sono arrivati persino alcuni genitori del quartiere: «Che cosa racconterò a mia figlia di sei anni quando mi chiederà che fine hanno fatto alcuni suoi compagni di classe? Mi vergogno», sussurra Roberto. Nonostante l'abusivismo e le condizioni pietose del campo, la comunità era riuscita a tracciare una buona relazione con gli abitanti del quartiere. Luciana Lucarelli, insegnante, precisa: «Non abbiamo mai avuto nessun problema con gli alunni rom e nemmeno con i genitori, che la mattina riempivano le tinozze di acqua delle fontanelle per lavare i figli prima delle lezioni».
Ai rom l'assessore al Bilancio della regione Lazio Luigi Nieri (Sinistra e Libertà) ha voluto chiedere pubblicamente scusa per il trattamento subìto, promettendo di occuparsi dei cinque uomini fermati durante l'allontanamento forzato e portati al centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria. Uno di questi si chiama Hassn Lucian, sua moglie è tornata in Romania in autobus. Pare abbia precedenti penali per furto, lo dichiareranno pericoloso per l'ordine pubblico e lo manderanno a casa: «Sono cittadini comunitari e non dovrebbero entrare nei Cie. Le autorità continuano a fare deroghe alla legge, è impressionante», dice Nieri.
Impressionante davvero è la violazione dei diritti umani dei quattrocento rom che non hanno potuto nemmeno strappare alle ruspe i propri vestiti e oggetti. Il Campidoglio afferma che hanno firmato un foglio per rinunciare all'assistenza del Comune «ma come è possibile se sono analfabeti?», si chiedono i volontari di Popica. Infuriato per le accuse rivolte da Amnesty International, che ha lanciato un appello mondiale per il doppio sgombero di mercoledì e giovedì, Alemanno ha chiamato l'organizzazione per chiarire. Amnesty però rimane del solito avviso: Roma deve garantire ai rom un alloggio adeguato e il risarcimento degli averi persi durante lo sgombero. Il sindaco ha ammesso, candidamente, di non sapere che occorre notificare uno sgombero ai diretti interessanti affinché possano fare ricorso davanti ad un giudice. Lo impongono le convenzioni internazionali sottoscritte anche dall'Italia.
Forse non lo sapeva davvero, ma per mestiere glielo avrebbero potuto ricordare il Questore o il Prefetto Giuseppe Pecoraro, con i quali Alemanno ha messo a punto il Piano nomadi, ancora in alto mare. Il Piano prevede la costruzione di villaggi attrezzati per circa seimila rom censiti nei campi riconosciuti. Gli altri? Trattati come i rom rumeni di via di Centocelle. Peggio della spazzatura.
Condividi su Facebook

Mafiosizzare l'Italia

Un lungo colloquio con il premier sgombra il campo: «Vai e torna vincitore». Nicola Cosentino al sicuro non rinuncia a candidarsi.
Rassegna stampa - Liberazione, Gemma Contin, 14 novembre 2009.

Mafiosi e camorristi di Casal di Principe, niente paura: Cosentino non se ne andrà. Parola di Silvio Berlusconi. La sua permanenza in Parlamento, come deputato di Caserta del Popolo della Libertà, è garantita. Idem la sua occupazione, in seno al governo, del cadreghino di sottosegretario all'Economia, per quelle due o tre cosucce di cui si occupa, come si legge nella biografia preparata dallo staff ministeriale: «Adozione di piani generali di recupero urbanistico; modifica dell'articolo 314 Cpp in materia di riparazione per ingiusta detenzione». Robetta così!
Dopo l'incontro con il capo Cosentino ha fatto sapere che non intende recedere - nonostante l'ordinanza del Gip Raffaele Piccirillo, pervenuta alla Giunta della Camera con la richiesta dell'autorizzazione a procedere e delle misure cautelari - neppure dalla corsa a governatore della regione Campania, come candidato ufficiale del centrodestra, facendosi un baffo delle prese di distanza, più nominali che effettive, dell'amico di partito Italo Bocchino e del presidente della Camera Gianfranco Fini. Ieri, dopo "un lungo e amichevole incontro" tra l'indagato per concorso esterno in associazione camorristica e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, il sottosegretario ha dichiarato che "non c'è nessun motivo per rinunciare".
Si sappia però che quello che appassiona davvero l'onorevole Cosentino, nonché la sua composita famiglia, è "la monnezza", attività in cui si è specializzata la società Eco4 che il pentito-imprenditore Gaetano Vassallo attribuisce proprio a lui, vero detentore della proprietà dell'azienda dei fratelli Orsi, rivendicata in un'intercettazione telefonica: «L'Eco4 song'io».
La contestazione "delittuosa" che viene mossa a Cosentino, oltre alle amicizie pericolose che intrattiene con esponenti del clan dei casalesi - anche attraverso l'incrocio di parentele - prima sul versante dei Bidognetti (i perdenti) e dopo su quello degli Schiavone (i vincenti) è che attraverso questa e altre società - si legge nell'ordinanza - egli realizzava i seguenti scopi: «Il controllo delle attività economiche, anche attraverso la gestione monopolistica di interi settori imprenditoriali e commerciali; il rilascio di concessioni e autorizzazioni amministrative; l'acquisizione di appalti e servizi pubblici; l'illecito condizionamento dei diritti politici dei cittadini (ostacolando il libero esercizio del voto, procurando voti a candidati indicati dall'organizzazione in occasione di consultazioni elettorali) e per tale tramite il condizionamento della composizione e delle attività degli organismi politici rappresentativi locali; il condizionamento delle attività delle amministrazioni pubbliche, locali e centrali; il reinvestimento speculativo in attività imprenditoriali, immobiliari, finanziarie e commerciali, degli ingenti capitali derivanti dalle attività delittuose, sistematicamente esercitate (estorsioni in danno di imprese affidatarie di pubblici e privati appalti e di esercenti attività commerciali, traffico di sostanze stupefacenti, truffe, riciclaggio ed altro); assicurare impunità agli affiliati attraverso il controllo, realizzato anche con la corruzione, di organi istituzionali; l'affermazione del controllo egemonico del territorio, realizzata non solo attraverso la contrapposizione armata con organizzazioni criminose rivali nel tempo e la repressione violenta dei contrasti interni ma altresì attraverso condotte stragiste e terroristiche; il conseguimento infine, per sé e per gli altri affiliati, di profitti e vantaggi ingiusti». «In particolare contribuiva, con continuità e stabilità, sin dagli anni '90, a rafforzare vertici e attività del gruppo camorrista facente capo alle famiglie Bidognetti e Schiavone (dal quale sodalizio riceveva puntuale sostegno elettorale in occasione delle elezioni - scrive il gip Piccirillo nelle 350 pagine del dispositivo - a cui il Cosentino partecipava quale candidato divenendo consigliere provinciale di Caserta nel 1990, consigliere regionale della Campania nel 1995, deputato per la lista di Forza Italia nel 1996, e quindi assumendo incarichi politici prima come vicecoordinatore e poi coordinatore del partito Forza Italia in Campania, anche dopo aver terminato il mandato parlamentare nel 2001) attraverso le seguenti condotte: garantendo il permanere dei rapporti tra imprenditoria mafiosa, amministrazioni pubbliche e comunali; assicurando il perpetuarsi delle dinamiche criminali economiche, esercitando indebite pressioni nei confronti di enti prefettizi per incidere, come nel caso della Eco4 Spa, sulle procedure dirette al rilascio di certificazioni antimafia in situazioni nelle quali erano ravvisabili elementi ostativi al rilascio delle certificazioni stesse, ovvero attivandosi con enti prefettizi e/o strutture del Ministero dell'Interno al fine di impedire, come nel caso del Comune di Mondragone, il corretto dispiegarsi della procedura finalizzata allo scioglimento dell'ente locale per infiltrazione mafiosa; creando e cogestendo monopòli d'impresa in attività controllate dalle famiglie mafiose, quali l'Eco4 Spa, nella quale il Cosentino esercitava, in posizione sovraordinata rispetto a Giuseppe Valente, Michele e Sergio Orsi, il reale potere direttivo e di gestione, così consentendo lo stabile reimpiego dei proventi illeciti, sfruttando dette attività di impresa a scopi elettorali, anche mediante l'assunzione di personale». «Condotta delittuosa - conclude il magistrato - avvenuta in provincia di Caserta sin dall'inizio degli anni '90 e tuttora perdurante».
Qualcuno finora era convinto che Berlusconi attraverso i suoi "bravi" stesse fascistificando l'Italia, invece la sta mafiosizzando.
Condividi su Facebook

Norme per introdurre una giustizia castale

Solo i più deboli andranno a processo, impunità per le famiglie dei vertici.
La giustizia diventa privilegio in una società fatta di caste.
Rassegna stampa - Liberazione, Domenico Gallo, 14 novembre 2009.

Anche se corre l'anno 2009, noi stiamo vivendo una stagione politica che ci rimanda al 1984, l'anno immaginario nel quale George Orwell collocava la sua profezia nera. In 1984 il potere rovesciava i significati delle parole per far sparire le sue malefatte, al punto da chiamare ministero dell'amore la struttura che organizzava e praticava la tortura.
E videntemente si è ispirato ad Orwell, l'on. Gasparri che ha intitolato la sua legge nientemeno che "misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell'art. 111 della Costituzione e dell'art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo".
Il titolo lancia un messaggio accattivante di pace ed amore (al popolo bue). Non preoccupatevi cittadini italiani, il potere ha a cuore i vostri diritti, ed ha predisposto delle misure per attuare la Convenzione europea dei diritti dell'uomo che ci impone di assicurarvi un processo equo che deve svolgersi in un tempo ragionevole.
Effettivamente è difficile immaginare una falsificazione maggiore per presentare all'opinione pubblica una disciplina che per il suo contenuto dovrebbe intitolarsi "norme per introdurre una giustizia castale".
Questo disegno di legge, in un solo articolo (l'art. 2), riesce a trasformare il processo penale (che fino a prova contraria è un bene pubblico, indispensabile non solo per il funzionamento della democrazia, ma per l'esistenza stessa dello Stato), in uno strumento a disposizione di una casta per neutralizzare gli effetti dannosi dell'obbligo di rispettare le leggi penali, lasciando che la legge penale dispieghi in pieno la sua geometrica potenza nei confronti dei ceti sociali più deboli, degli emarginati e dei senza diritti (i migranti in condizione di irregolarità).
Questa legge ci dice che, salvo casi eccezionali, i reati dei colletti bianchi non saranno più punibili. Non perché si tratti di fatti meno dannosi per la convivenza civile rispetto ai quali si potrebbe chiudere un occhio. Al contrario nell'economia della questione criminale, i fatti più dannosi (esclusa la mafia) per la collettività sono proprio i reati dei colletti bianchi. Pensiamo al crack della Parmalat che ha comportato un danno alla famiglie italiane di 14 milioni di euro, oppure alle vicende della malasanità, come quella della clinica Santa Rita a Milano, dove si facevano operazioni chirurgiche estremamente invasive al solo scopo di lucrare i finanziamenti della Regione, oppure alle frodi per il conseguimento di erogazioni pubbliche che creano un danno enorme sottraendo risorse che dovrebbero essere destinate all'occupazione ed allo sviluppo economico.
In questo modo si realizza una giustizia castale, che riflette una società castale. Al vertice c'è un ceto di privilegiati, uniti in famiglie di sangue e d'interesse per i quali non c'è legge che tenga. A costoro tutto è consentito ed è garantita per legge l'impunità, pagando solo un piccolo prezzo. Il costo degli avvocati, che piloteranno il processo sul binario morto dell'estinzione inevitabile. Tutti quelli che sono fuori da questa casta di privilegiati e che normalmente compiono reati minori collegati ad una condizione di emarginazione sociale continueranno ad essere soggetti ai rigori della legge penale.
È sbagliato, pertanto, parlare di legge ad personam. Quali che siano i motivi contingenti, quello che conta è che ci troviamo di fronte ad una disciplina che costruisce un privilegio castale, riservato ad un ceto sociale di privilegiati e porta a conseguenze estreme la politica della discriminazione consacrata nei vari pacchetti sicurezza.
L'altra faccia della medaglia è il correlativo indebolimento dei beni pubblici a tutela dei quali sono poste le norme penali dribblate con il processo celere: la correttezza ed il buon andamento dell'amministrazione, l'efficienza della spesa pubblica, la salute dei cittadini garantita dal Servizio Sanitario nazionale, la correttezza nell'esercizio delle attività economiche e produttive.
Così Il miglior governo che abbiamo avuto negli ultimi 150 anni ci sta conducendo verso un traguardo mai raggiunto nella nostra storia nazionale. Nemmeno dal fascismo, che non si è mai sognato di agevolare la criminalità dei colletti bianchi, anche se amici del regime.

Il testo del disegno di legge può essere letto nella Biblioteca Digitale.
Condividi su Facebook

Se ci sei batti un colpo

Il Pd tra «spirito di Zac» e rientri da sinistra.
Rassegna stampa - Avvenire, R.d’A., 14 novembre 2009.

Intento a costruire le ba­si del suo partito, Pier­luigi Bersani pianta «lo spirito di Zac» tra le 'radici' del nuovo Pd. Ma se il segre­tario democratico rispolvera 'l’onesto' Benigno Zac­cagnini a vent’anni dalla morte del segretario della Dc, l’area ex dc e ex popola­re continua a mostrare ma­­lessere, specie dopo l’ingresso da sinistra di Pietro Folena e Achille Occhetto. E chiede risposte alla Direzio­ne che si riunirà lunedì.
«Io voglio assolutamente mettere lo spirito di Zac nel­le radici del nuovo partito. Tutti devono sapere che se è così, possiamo tornare a cre­dere nella possibilità di una politica pulita, dignitosa e nel fatto che il senso della crescita economica può sta­re solo nell’emancipazione sociale». Ecco dunque i «due pilastri» che «interpretano nel profondo lo spirito di Zaccagnini e vorrei che fos­sero nelle fondamenta del nuovo partito».
Ma proprio gli eredi natura­li di Zac mostrano maggiore insofferenza. «Va bene lo spirito di Zaccagnini – com­menta Enrico Farinone –, ma a Bersani dico che anco­ra di più occorre garantire il progetto originario del Pd» e perciò bisogna «integrare le culture che sono alla base del progetto, senza che una predomini sull’altra».
Esattamente il timore di Giorgio Merlo, che ancora non ha digerito l’uscita di Francesco Rutelli. «Nel Pd – dice Merlo – c’è chi va e chi viene. Con il massimo rispetto per la storia e per le scelte di ognuno, registria­mo l’arrivo di Folena, Occhetto e forse, nelle prossi­me settimane, di esponenti della sinistra gruppuscolare», rimasta «senza casa e senza tutele». Proprio men­tre «se ne vanno Rutelli e u­na pattuglia di parlamenta­ri liberaldemocratici e po­polari». Qualcosa per Merlo.
Bisogna fare «chiarezza» sul ruolo dei cattolici democra­tici all’interno del Pd, con­cordano Silvia Costa e Patri­zia Toia. Per non «regalare al­le alleanze esterne una rap­presentanza di quei mondi, di quei valori e di quell’elet­torato che sono già dentro al Pd e lì vorrebbero stare». Di qui, si uniscono al coro le due esponenti piddì, la ri­chiesta di una risposta dalla direzione. Di fronte «al pro­getto di Rutelli e al rischio di una accentuazione quasi e­sclusiva del carattere di sini­stra del Pd», per entrambe, il problema non è un’alleanza «non va», con i cattolici, ma capire «se il Pd è una casa comune».
Insomma, l’ingresso di Fo­lena e Occhetto desta preoc­cupazione. «Mentre alcuni plaudono», ragiona Gianlu­ca Susta, «altri o si chiudono in un silenzio assordante o tacciono sull’uscita di Rutel­li e molti altri». Ed è il silen­zio di Bersani che va inter­rotto, per l’ex Margherita.
Intanto Alleanza per l’Italia continua a lavorare nell’area liberaldemocratica, con la speranza di Bruno Tabacci di attirare altri sostenitori del Pd, che, dice l’ex Udc, «va sul filone socialdemocratico», lasciando «libero lo spazio al centro».
Condividi su Facebook

La questione giustizia torna a infiammare

Scontro senza sbocco, da 15 anni. Veleni paralizzanti per la giustizia.
Rassegna stampa - Avvenire, Sergio Soave, 14 novembre 2009.

La questione giustizia torna a infiammare e quasi a monopolizzare il confronto politico, rendendolo nuovamente rovente. Si tratta di un tema che riceve letture almeno apparentemente opposte, il che ha impedito di affrontarlo in modo organico e ragionevole, sia sotto il profilo della reciproca autonomia tra il sistema politico e l’ordine giudiziario, su cui batte più spesso il centrodestra, sia sotto il profilo del miglioramento del servizio da rendere alla generalità dei cittadini, cavallo di battaglia delle argomentazioni prevalenti tra le diverse opposizioni. Il risultato è che, negli ultimi quindici anni, ogni tentativo di operare riforme significative, quale che fosse il colore del governo in carica, si è impantanato. C’è chi, non senza ragioni, addossa la responsabilità della paralisi alla resistenza corporativa della magistratura che, di fatto, non ha mai accettato il principio secondo cui spetta alla politica definire secondo le procedure democratiche l’assetto del sistema giudiziario, chi insiste sulla altrettanto innegabile influenza sulle iniziative legislative portate avanti dal centrodestra delle preoccupazioni per i processi intentati nei confronti del leader di questa parte politica. A causa anche di questa insanabile contrapposizione, si è finito per operare solo attraverso iniziative frammentarie e parziali che non hanno mai potuto o voluto affrontare il problema della giustizia, soprattutto di quella penale, in modo organico. Lo stato della 'grande malata' è sotto gli occhi di tutti. Le stesse proteste contro la proposta di accelerazione dei processi avanzata dai partiti di maggioranza contengono l’ammissione che in Italia per ottenere una sentenza definitiva bisogna aspettare dieci anni, il che è comunque intollerabile. Ora si tornerà a uno scontro frontale tra chi denuncia la proposta di legge Pdl-Lega di essere esclusivamente funzionale all’andamento dei procedimenti riguardanti Silvio Berlusconi e chi sostiene che l’accelerazione dei processi corrisponde a un interesse generale che viene negato solo per poter utilizzare in termini politici quella che viene considerata una persecuzione giudiziaria. L’effetto è che neanche stavolta si riuscirà a confrontarsi civilmente sul tema in sé di una trasformazione del sistema giudiziario che lo renda efficiente e rapido. L’esigenza di ottenere, nello stesso centrodestra, un sufficiente consenso politico attorno a quest’ennesima e controversa mini-riforma ha portato anche a inserire elementi piuttosto incomprensibili, come l’equiparazione della gravità dei reati di mafia e di terrorismo con la condizione di permanenza sul territorio italiano di immigrati privi di permesso di soggiorno (il molte volte contestato su queste colonne «reato di clandestinità»). Un dibattito e una critica non pregiudiziale potrebbero piallare le punte e cercare soluzioni meno unilaterali, ma il clima politico renderà ancora una volta impossibile far prevalere il ragionamento sull’invettiva reciproca. È difficile mettere d’accordo quelli che pensano che tutti i guai dell’Italia nascano dal cosiddetto 'fattore B.', cioè dalle peculiarità politico-imprenditoriali del presidente del Consiglio, con quelli che, al contrario li attribuiscono al 'fattore G.', come giustizia, cioè alle intromissioni di settori politicizzati della magistratura nella vita politica e istituzionale. È una contrapposizione che dura da quindici anni e che messo in circolo veleni potenti e ha prodotto, finora, solo la paralisi di ogni riforma organica della giustizia. E la via d’uscita ancora non si vede.
Condividi su Facebook