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sabato 29 agosto 2009

Il valore primo è quello della vita

Da Avvenire di oggi riprendiamo l'articolo di Gianni Santamaria sul tema della difesa della vita.
Fine vita, monito bipartisan: «Nessun bavaglio ai cattolici».
Rassegna stampa.

La divisione dei parlamentari in «laici» e «clericali» è «francamente insopportabile». Tanto più se il secondo aggettivo viene appiccicato ai cattolici, «come se fossero incapaci di un loro pensiero critico e di una loro capacità decisionale». Venti deputati di Pdl, Lega, Pd e Udc hanno preso ieri carta e penna e hanno replicato, pur senza citarlo, a Gianfranco Fini, che nel suo intervento alla festa del Pd a Genova, tre giorni fa, aveva evocato la distinzione per ribadire che il «cittadino deputato risponde alla sua personale coscienza». Il titolo della presa di posizione trasversale è esplicito: «Non strumentalizzare la laicità per mettere il bavaglio ai parlamentari cattolici».
Già l’altroieri alle affermazioni del presidente della Camera sul testamento biologico – perché questo è il nodo del contendere – avevano replicato piccati i capigruppo del Pdl a Palazzo Madama Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello.
Dicendo di non accettare «lezioni di laicità», avevano difeso i senatori che hanno licenziato il testo Calabrò sul fine vita, accusato da Fini di essere marcato da un’ideologia. Lo stesso Raffaele Calabrò ha espresso ieri «meraviglia», perché Fini ha «derogato dal suo ruolo super partes» per una «partita di carattere politico personale piuttosto che legata all’argomento specifico, che invece andrebbe affrontato con tutta la serietà possibile».
La missiva dei venti rappresentanti nell’assise che Fini presiede – e nella quale a partire da metà settembre si inizierà a discutere di fine vita – intende marcare un punto. «Siamo tutti impegnati, proprio in quanto laici cattolici, ad assumerci la piena responsabilità delle nostre convinzioni, a non farci né strumentalizzare, né intimidire, a cercare di condividerle con il maggior numero possibile di colleghi di tutti gli schieramenti». Altro che «longa manus dei vescovi», il plotone bipartisan rivendica studio, approfondimento e decisioni in piena autonomia.
A firmare il pronunciamento sono otto pidiellini – Di Virgilio, Aprea, Bocciardo, Bertolini, La Loggia, Farina, Pagano e Saltamartini – e un leghista, Polledri. La pattuglia del Pd è composta da Binetti, Bobba, Calgaro, Carra, Mosella, Sarubbi e Servodio. Mentre per l’Udc ci sono Buttiglione, Pezzotta, Santolini e Volontè. Rivendicano il loro statuto di laici che hanno «ben distinta» la differenza tra sfera religiosa e civile. E ritengono che il clericalismo invece «alberga a diverse latitudini, spesso vestito di un laicismo che vorrebbe confinare la sfera dei valori religiosi unicamente nel privato della coscienza dei singoli». Invece i valori «non possono essere lasciati fuori dallo spazio pubblico, cioè della politica. Nessuno li vuole imporre per legge, ma nessuno ci può chiedere di rinunciarvi». E per chi non avesse capito, il valore primo è quello della vita, che «difendiamo e difenderemo sempre e in ogni circostanza».
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Il rischio che B si identifichi con Sansone

Apriamo questo nuovo post con queste parole di Roberto Saviano: "Nessun cittadino, sia esso conservatore, liberale, progressista, può considerare ingiuste delle domande. In tutto il mondo democratico i governi sono chiamati a dare risposte: è la garanzia che non nascondono ciò che fanno e ne rendono conto all'opinione pubblica. Spero che tutti gli elettori, anche coloro che hanno votato Berlusconi, abbiano il desidero e la voglia di pretendere che nessuna domanda possa essere inevasa o peggio tacitata con un'azione giudiziaria. È proprio attraverso le domande che si può arrivare a costruire una società in grado di dare risposte".
E continuiamo con il commento sull'armageddon mediatico in atto di Giuseppe D'Avanzo tratto dal sito di Repubblica.
L'aggressione come strategia.
Rassegna stampa.

Chi abusa del suo potere, prima o poi, non tenterà più di affermare il principio della propria legittimità e mostrerà, senza alcuna finzione ideologica, come la natura più nascosta di quel potere sia la violenza, la violenza pura. Sta accadendo e accade ora a Silvio Berlusconi che, da sempre, dietro il sorriso da intrattenitore occulta il volto di un potere spietato, brutale, efficiente. Era nell'aria. Doveva accadere perché da mesi era in incubazione. Avevamo la cosa sotto gli occhi, se ne potevano scorgere le ombre. Sapevamo, dopo il rimescolamento nell'informazione controllata direttamente o indirettamente dall'Egoarca, che in autunno sarebbe cominciata un'altra stagione: un ciclo di prepotenza che avrebbe demolito i non-conformi, degradato i perplessi, umiliato gli antagonisti, dovunque essi abbiano casa. Dentro la maggioranza o nell'opposizione. Dentro la politica o fuori della politica. Nel mondo dell'impresa, della società, della cultura, dell'informazione.
Nessuno poteva immaginare che l'aggressiva "strategia d'autunno" avrebbe provocato l'inedita e gravissima crisi tra il governo italiano e la Santa Sede aperta dalla rinuncia del segretario di Stato Tarcisio Bertone di sedere accanto al presidente del Consiglio in una cena offerta dall'arcivescovo dell'Aquila nel giorno della "perdonanza".
Perdono mediatico chiedeva Berlusconi al Vaticano e l'aveva ottenuto. Nella sua superbia, l'uomo deve aver pensato che Oltretevere lo avrebbe assolto e "immunizzato" anche per il rito di degradazione che, nello stesso giorno, il Giornale dell'Egoarca ha voluto infliggere al direttore dell'Avvenire, "colpevole" di aver dato voce alle inquietudini del mondo cattolico per l'esempio offerto da chi frequenta minorenni e prostitute, di aver usato parole esplicite per censurare lo stile di vita del capo del governo. Anche contro la Chiesa, Berlusconi ha voluto mostrare la prepotenza del suo potere e la Chiesa ha chiuso la porta che gli era stata aperta.
Nelle ore di questa sconosciuta e improvvisa crisi tra Stato e Chiesa, quel che bussa alla porta di Berlusconi è soltanto la realtà che, per fortuna, alla fine impone le proprie inalterabili condizioni. Per cancellarla, nientificarla, l'Egoarca ha pensato di poter fare affidamento soltanto sul potere ideologico, egemonico e mediatico della sua propaganda, sull'accondiscendenza dei conformi e la pavidità dei prudenti sempre a caccia di un alibi. La "pubblicità" avrebbe dovuto rimuovere ogni storia, ogni evento (dalla "crisi di Casoria" alle stragi di migranti nel canale di Sicilia) sostituendoli con la narrazione unidimensionale e autocelebrativa delle imprese di chi ha il potere e, in virtù di questo possesso, anche la "verità". Forse, si ricorderà la conferenza stampa di Berlusconi di agosto. Il racconto vanaglorioso di un successo ininterrotto, attivo in ogni angolo della Terra.
Se le truppe di Mosca si sono fermate alle porte di Tbilisi scongiurando un conflitto Russia-Georgia, il merito è di Berlusconi che ha evitato l'inizio di una nuova Guerra Fredda. Se Barack Obama ha firmato a Mosca il trattato per la limitazione delle armi nucleari, il merito è di Berlusconi che ha favorito "l'avvicinamento" della Casa Bianca al Cremlino. Se l'Alleanza atlantica è ancora vegeta, lo si deve al lavoro di persuasione di Berlusconi che ha convinto il leader turco Erdogan a dare il via libera alla candidatura di Rasmussen. Se "l'Europa non resterà mai più al freddo", il merito è di Berlusconi che ha convinto Erdogan e Putin a stringersi la mano dinanzi al progetto del gasdotto South Stream. Nel mondo meraviglioso di Silvio Berlusconi non c'è ombra né crisi. Non c'è recessione né sfiducia. Non c'è né sofferente né sofferenza. Non ci sono più immigrati clandestini, non c'è crimine nelle città, non c'è più nemmeno la mafia. Regna "la pace sociale" e "nessuno è rimasto indietro" e, per quanto riguarda se medesimo, "non c'è nulla di cui deve scusarsi". Grazie ai "colpi di genio" di Berlusconi, anche i terremotati delle tendopoli all'Aquila sono felici perché "molti sono partiti in crociera e altri sono ospitati in costiera e sono tutti contenti".
Questo racconto fantasioso deve essere unidimensionale, uniforme, standardizzato, senza incrinature. Deve far leva su un primato della menzogna a cui si affida il compito di ridisegnare lo spazio pubblico. Soprattutto deve essere protetto da ogni domanda o dubbio o fatto. A chi non accetta la regola, quel potere ideologico e mediatico riserverà la violenza pura, la distruzione di ogni reputazione, il veleno della calunnia. Guardatevi indietro. È accaduto costantemente in questa storia che ha inizio a Casoria il 26 aprile, in un ristorante di periferia dove si festeggiano i 18 anni di una ragazza che, minorenne, Berlusconi ha voluto accanto a cene di governo e feste di Capodanno. Della moglie del capo del governo che dice "basta" e chiede il divorzio perché "frequenta minorenni" e "non sta bene" saranno pubblicate foto a seno nudo, le si inventerà un amante. Lo stesso rito di degradazione sarà imposto al giovane operaio che testimonia le modalità del primo contatto tra il 73enne capo del governo e la minorenne di Napoli; alla prostituta che racconta la notte a Palazzo Grazioli e le abitudini sessuali del capo del governo; al tycoon australiano che edita un Times troppo curioso; al fotografo che immortala l'Egoarca intossicato dalla satiriasi con giovani falene a Villa Certosa; all'editore di un giornale - questo - che si ostina a chiedere conto a Berlusconi, con dieci domande, delle incoerenze delle sue parole nella convinzione che è materia di etica politica e non di moralità privata rendere disponibile la verità in un pubblico dibattito. A questa stessa degradazione è stato ora sottoposto il direttore del giornale della Conferenza episcopale.
Berlusconi non si fermerà. Dal cortile di casa, questo potere distruttivo - che ha bisogno di menzogne, silenzio, intimidazione - minaccia di esercitarsi in giro per il mondo aggredendo, dovunque essi siano, in Francia, in Spagna, in Inghilterra, negli Stati Uniti, i giornali che riferiscono della crisi dell'Egoarca, della sua irresponsabilità e inadeguatezza. Sarebbe ridicolo, se non fosse tragico. Quel che si intravede è un uomo solo, circondato da pochi - cattivi - consiglieri, prigioniero di se stesso, del suo delirio di potenza, delle sue favole, incapace di fare i conti con quella realtà che vuole annullare. È un uomo, oggi più di ieri, violento e pericoloso perché nella sua crisi trascinerà lo Stato che rappresenta. Come ha fatto ieri, inaugurando il conflitto con la Santa Sede. E domani con chi altro? Non ci si può, non ci si deve rassegnare alla decadenza di un premier che minaccia di precipitare anche il Paese nel suo collasso.
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Fuori Kakà dentro Feltri

Un articolo da leggere, di Adriano Sofri, tratto da Repubblica.it.
L'artiglieria pesante del Cavaliere.
Rassegna stampa.

Il sito del nuovissimo Giornale registrava ieri come "il più letto" l'articolo intitolato "Boffo, il supercensore condannato per molestie". L'ho letto anch'io. E ho letto anche, come tutti i giorni da molti anni, l'Avvenire.
Alla fine mi sono chiesto se le "rivelazioni" su Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, anche a prescindere dalla loro dubbia accuratezza (e in assenza della versione dell'imputato) avessero influito sulla mia lettura del quotidiano, tirando addosso ai suoi argomenti un sospetto di ricatto o di coda di paglia. Mi sono risposto francamente di no. Ci ho letto, con il solito interesse, una pagina dedicata a Timor dieci anni dopo: infatti l'Avvenire è fra i quotidiani più attenti ai problemi internazionali, e fa tesoro delle fonti peculiari di comunità e missioni cattoliche. Ho letto gli articoli che ogni giorno trattano di questioni cosiddette bioetiche, e come ogni giorno ne ho tratto argomenti al mio dissenso. Ho letto con riconoscenza le pagine sull'umanità immigrata e sull'umanità incarcerata. Ho letto gli articoli sulla Perdonanza di Celestino, che piuttosto vistosamente eludevano la cena fra Bertone e Berlusconi, andata poi felicemente di traverso. Ho letto le pagine culturali di Agorà e quella delle lettere, fino alla rubrica quotidiana di Rosso Malpelo, che mi pizzica ogni tanto, ripizzicato.
Stando così le cose, che le "rivelazioni" del nuovissimo Giornale siano vere o false o, peggio ancora, mezzo vere o mezzo false, non mi importa niente. La vita sessuale di Boffo, sulla quale non a caso non mi sarei mai interrogato, non ha alcun rilievo per me - e per qualunque altra persona seria - se non quando si provasse che inficia la sua lealtà e serenità professionale. In questo l'alibi dell'aggressione giornalistica contro di lui è del tutto fittizio: "Voi frugate nel letto di Berlusconi, e noi facciamo altrettanto nei vostri". Boffo non è il capo del governo, e nemmeno un sottocapo: non ha barattato le proprie relazioni private con prebende pubbliche. I suoi fatti sono fatti suoi.
I suoi aggressori perfezionano l'alibi della ritorsione con la pretesa di una magnanima campagna contro "il moralismo". Il moralismo è uno di quei gomitoli di cui si è perso il capo, a furia di ingarbugliare. Ha un fondo da tenere fermo: che, con pochissime patologiche eccezioni, le persone di una società sanno che cosa è bene e che cosa è male. Che lo sappiano, non assicura affatto che seguano il bene e si astengano dal male. "Non bisogna giudicare gli uomini dalle loro azioni. Tutti possono dire come Medea: video meliora proboque, deteriora sequor". Vedo bene che cosa è il meglio, ma poi vado dietro al peggio. (Ho citato Diderot che cita la Medea innamorata di Ovidio: un po' di sbieco illuminista fa bene, ai nostri giorni. Ma bastava l'evangelista Giovanni).
Tuttavia, reciprocamente, che le persone agiscano male non significa affatto che ignorino che cosa è bene, e addirittura lo proclamino. Quando lo proclamano troppo stentoreamente, dimenticandosi di allegare la propria incoerenza, allora il moralismo diventa una disgustosa ipocrisia. È avvenuto platealmente nelle manifestazioni sull'indissolubilità sacra delle famiglie guidate da poligami ferventi, o sull'inesorabilità della punizione di prostitute e clienti da parte di puttanieri e cortigiane (scortum impudens satis - una escort davvero svergognata: così il cronista Liutprando a proposito di Marozia, concubina di papi e papessa lei stessa, in quel secolo X che si chiamò pornocrazia ). Ora l'equivoco cui Berlusconi (d'ora in poi B.: ragioni di spazio) e i suoi difensori si aggrappano è appunto quello dell'invasione moralista nei suoi vizi privati, a scapito delle sue pubbliche virtù. E dunque la rappresaglia - almeno dieci per uno, come nelle migliori rappresaglie- affidata alla Grande Berta del nuovissimo Giornale. Ma io, per esempio (che sono ufficialmente pregiudicato, e personalmente peccatore in congedo, per effetto se non altro delle stesse vicissitudini cliniche che hanno dotato altri più fortunati del premio della satiriasi senile, che i desideri avanza) non mi sarei mai piegato a rovistare nei costumi e nelle pratiche sessuali di B. o di altri, qualunque piega avessero. Come me, direi, questo intero giornale. E non mi sarei mai augurato una pubblica campagna che approdasse a un'invadenza e una persecuzione delle scelte sessuali di adulti capaci, o supposti capaci, di intendere e di volere. Ma si è trattato d'altro, fin dall'inizio: intanto, dall'inizio, dell'allusione diretta a frequentazioni di minori, a una condizione patologica, all'usanza invalsa e contagiosa di fare di incontri sessuali ossessivi, grossolanamente e ridicolmente maschilisti e per giunta mercenari l'introduzione, metà elargita metà estorta, a pubbliche carriere elettorali, governative, spettacolari. E di un contraccolpo irreparabile di discredito e di ricattabilità.
B. non governa più, benché dia in certi momenti più inconsulti l'impressione di spadroneggiare, che è altra cosa. È lì - sia detto a proposito del 25 luglio - per questo: perché altri sgovernano e spadroneggiano assai più licenziosamente alle sue spalle, e di quegli altri bisognerebbe tenere ogni conto già mentre lo sgombero è incompiuto, e minaccia di travolgere tutti.
B., come succede, vuole vendere cara la pelle. E siccome è molto ricco, la venderà molto cara. L'inversione della sua politica degli ingaggi all'indomani della rotta - fuori Kakà, dentro Feltri - lo proclama. E già un solo giorno ha visto scattare la controffensiva così a lungo dilazionata del nuovo attacco. Gran colpi, combinati: la denuncia delle dieci domande di Repubblica alla magistratura, l'assalto molto sotto la cintura a Boffo, e con lui alla Chiesa cattolica romana, che dopotutto non aveva lesinato indulgenze ed elusioni nei confronti dello scandalo politico e civico, oltre che morale, del capo del governo. L'ostentata persuasione di poter forzare un qualche tribunale all'intimidazione della stampa libera, se non la pura disperazione, hanno ispirato la denuncia contro Repubblica: la quale non avrebbe desiderato di meglio che di discutere ovunque, e anche in un tribunale, di quelle domande senza risposta - o con la più nitida delle risposte- ripetute non a caso ostinatamente, in bilico fra una frustrazione e una determinazione catoniana. E insieme la scelta di distruggere in effigie il direttore del giornale dei vescovi italiani e di far intendere alla suocera vaticana che, quando si spingesse ad applicare a B. un centesimo della severità con cui maneggia le comuni presunte peccatrici, la guerra diventerebbe senza quartiere. A questa, chiamiamola così, strategia, presiede il principio secondo cui non c'è maschio, credente o no, laico o chierico, che non si possa prendere con le mani nel sacco di qualche magagna sessuale. (Maschio, dico, perché negli strateghi della controffensiva la guerra resta guerra fra maschi, e le digressioni servono tutt'al più a insultare le donne altrui o a sfregiare le proprie sospette di intelligenza col nemico). La Grande Berta, l'ho chiamata. Vi ricordate, la scena di artiglieria pesante all'inizio del Grande Dittatore. Naturalmente, possono fare molto male i tiri pesanti ad alzo zero. Possono davvero umiliare le persone e devastare le famiglie. B. non può rinfacciare a nessuno di aver attentato alla sua famiglia. Possono fare molto male, ma è difficile che possano prevalere, direi. Le due cannonate strategiche di giovedì, per esempio, denuncia contro Repubblica ed esecuzione sommaria di Boffo, all'una di venerdì avevano già fatto cancellare la famosa cena della Perdonanza. Alle 13,40 di ieri ci si chiedeva se Gheddafi non volesse togliersi lo sfizio - se ne toglie parecchi, avete visto - di disdire il pranzo con B., e tenersi graziosamente le Frecce tricolori. Nel tardo pomeriggio poi B. si è dissociato dal Giornale, cioè da se stesso. E domani è un altro giorno.
Le guerre, tanto più quelle senza quartiere, non fanno bene a nessuno. B. ha una mossa vincente: dimettersi, e piantarla una volta per tutte con l'incubo del potere. Che gusto c'è ormai? Non può più invitare i capi di Stato stranieri a Villa Certosa. Nemmeno cenare all'Aquila con un Segretario di Stato straniero. Non ha da perdere che qualcuna delle sue catene televisive. Ha un'intera vita privata da riconquistare.
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Pravda Berlusconi, quando si toglierà di torno?

"Manifestazione a settembre". Bersani: atto sconsiderato.
Il segretario Pd: "Un'indegna strategia di intimidazione"Causa a Repubblica, raffica di proteste.
Franceschini: il premier ci denunci tutti.
L'Udc: "Chi guida il Paese non può essere allergico alle critiche".

Rassegna stampa - Repubblica.it, Mauro Favale.

Lo slogan c'è già: "Denunciaci tutti", stampato sulle magliette alla Festa del Pd di Genova, preludio della manifestazione in difesa della libertà di stampa che ci sarà a settembre. La citazione in giudizio di Silvio Berlusconi contro Repubblica per le 10 domande provoca una mobilitazione che va dai partiti d'opposizione (Pd, Idv e Udc) fino alla società civile. Mentre le 10 domande poste al premier da Giuseppe D'Avanzo e definite da Berlusconi "diffamatorie", vengono replicate infinite volte sul web, dai blog a Facebook.
Ieri sono state numerosissime le reazioni alla decisione del premier e del suo avvocato Niccolò Ghedini di fare causa al nostro giornale, chiedendo un risarcimento per un milione di euro perché, sta scritto nell'atto di citazione, "il danno arrecato al Dottor Berlusconi è enorme". Tutto il Pd si è mosso testimoniando solidarietà al direttore Ezio Mauro. Il segretario Dario Franceschini lancia la parola d'ordine: "Il premier non denunci solo Repubblica. Ci denunci tutti". Quella di Berlusconi, per il segretario Pd, "è un'indegna strategia di intimidazione nei confronti di un singolo giornale, dell'opposizione e di chiunque difenda i principi di un paese libero. Settembre dovrà essere il mese di una grande mobilitazione, al di là dei colori politici, per la difesa della libertà di stampa e del diritto all'informazione". Pierluigi Bersani è durissimo: "Alle dieci domande si risponde. È un fatto inedito e dieci volte sconsiderato. È meglio che Berlusconi rifletta e che si dia una calmata, perché di questo passo deve portare in tribunale mezzo mondo". E Ignazio Marino afferma che "la libertà di stampa va difesa come fa Repubblica".
Di tutt'altro tenore le reazioni del centrodestra che, invece, attacca il quotidiano e il suo direttore. "Avvelena i pozzi della vita civile", dice Osvaldo Napoli, vice presidente dei deputati Pdl. Per Giorgio Lainati, membro della commissione di Vigilanza, "il tradizionale conformismo del mondo dell'informazione fa scattare una solidarietà di parte a chi attacca, negando di fatto a chi è attaccato il diritto di difendersi". Fabrizio Cicchitto, capogruppo a Montecitorio del Pdl, chiede al Pd di "prendere le distanze da Repubblica".
Anche l'Udc si schiera contro il premier: "Chi guida il Paese - spiega il segretario Lorenzo Cesa - non può essere allergico alle critiche, anche alle più dure". Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd, mette insieme la causa a Repubblica e le critiche al Tg3 per dire che "siamo di fronte ad un attacco concentrico da parte del premier nei confronti della stampa che esprime e dà voce alle posizioni critiche nei confronti del suo operato". E Piero Fassino incalza: "Rispettare la libertà di stampa e la funzione critica dell'informazione è un dovere di chiunque ricopre incarichi politici e istituzionali". Così Paolo Gentiloni che ritiene "urgente una risposta di chi crede nell'articolo 21 della Costituzione. Perché Berlusconi ha superato un nuovo limite". Mentre Vincenzo Vita parla chiaramente di "un'ansia di regime mediatico che ha preso il sopravvento".
Al porto antico di Genova, Festa del Pd, si parla della denuncia del premier a Repubblica. Francesco Rutelli, presidente del Copasir, dal palco nota come "Berlusconi doveva rispondere alle 10 domande". "Un fatto grave", definisce Enrico Letta l'attacco a Repubblica. E Antonio Di Pietro, sceglie Twitter, diffusissimo social network, per lanciare nella rete il suo breve messaggio: «Pravda Berlusconi denuncia Repubblica per le 10 domande. Gli pongo allora l'undicesima: "Ma quando, lei, si toglierà di torno?"».
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Da Feltri un aiuto a disarcionare il Cavaliere?

Il presidente della Cei difende Dino Boffo dopo gli attacchi del Giornale. "Rinnovo tutta la stima e la fiducia mia personale e quella di tutti i vescovi italiani". Bagnasco con il direttore di Avvenire. "Attacco disgustoso e molto grave".
Feltri: "Non sono affatto pentito. Finché i moralisti speculeranno su ciò che succede sotto le lenzuola di altri, noi ficcheremo il naso (turandocelo) sotto le loro".
Rassegna stampa - La Repubblica.it

Roma - Continua a salire il livello della polemica tra i vertici della Chiesa e Il Giornale, dopo l'attacco del direttore del quotidiano Vittorio Feltri, contro il numero uno del giornale dei vescovi Avvenire, Dino Boffo, sfociato nella decisione del Vaticano di annullare l'incontro all'Aquila tra il segretario di Stato monsignor Tarcisio Bertone e il premier Silvio Berlusconi.
"L'attacco che è stato fatto al dottor Boffo direttore di Avvenire è un fatto disgustoso e molto grave", ha detto l'arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, prima di celebrare la messa per la festa del santuario della Madonna della Guardia. "Rinnovo al dottor Boffo - ha aggiunto Bagnasco - tutta la stima e la fiducia mia personale e quella di tutti i vescovi italiani e delle Comunità cristiane".
Oggi il giornale dei vescovi pubblica la lettera del direttore già resa nota ieri, la nota della Cei e la solidarietà della redazione. Nella missiva il direttore del quotidiano della Cei denuncia "un killeraggio giornalistico allo stato puro" portato avanti dal Giornale di Feltri che ha montato "una vicenda inverosimile, capziosa e assurda". "Siamo, pesa dirlo, alla barbarie". "Nel confezionare la sua polpettona avvelenata Feltri, tra l'altro - scrive Boffo - si è guardato bene dal far chiedere il punto di vista del diretto interessato: la risposta avrebbe probabilmente disturbato l'operazione che andava (malamente) allestendo a tavolino al fine di sporcare l'immagine del direttore di un altro giornale e di disarcionarlo. Quasi che non possa darsi una vita personale e professionale coerente con i valori annunciati. Sia chiaro che non mi faccio intimidire, per me parlano la mia vita e il mio lavoro".
In coda alla lettera vengono pubblicate la nota ufficiale con cui la Cei conferma la sua "piena fiducia al direttore Boffo per l'"indiscussa capacità professionale, equilibrio e prudenza". Quindi, il comunicato del Comitato di redazione di Avvenire che si schiera, solidale, al fianco del suo direttore.
E Feltri replica sul suo Giornale: non sono pentito, se i moralisti attaccano continuerò a reagire. "Silvio Berlusconi ha diramato un comunicato nel quale si dissocia dal Giornale perché contrario alle polemiche sulla vita intima di chiunque - scrive Feltri - Ci saremmo stupiti se il premier avesse detto il contrario, e cioè che approvava la nostra iniziativa. Non c'è bisogno di rammentare che il compito di decidere in una redazione spetta al direttore il quale può essere licenziato da un momento all'altro, ma non limitato nei suoi poteri". E nell'editoriale Feltri dice di non essere "affatto pentito di aver divulgato la notizia su Boffo e, in una circostanza analoga, il mio atteggiamento non cambierebbe di una virgola". E poi conclude: "Finché i moralisti speculeranno su ciò che succede sotto le lenzuola di altri, noi ficcheremo il naso (turandocelo) sotto le loro".
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Armageddon mediatico, su più fronti

Il Giornale online è attivo anche sul secondo fronte, quello dell'attacco a Repubblica.
E il direttore di Repubblica comprò casa in nero.
Franco Bechis su fbechis.blogspot.com
Rassegna stampa.

Mi ha telefonato Giancarlo Perna, firma di punta de il Giornale. Deve fare un ritratto di Ezio Mauro, direttore di Repubblica con una speciale inclinazione alla indignazione. Perna si ricordava di un articolo uscito su Il Tempo quando io ne ero direttore, che riguardava l'acquisto da parte di Mauro di un casa dal valore di 2,150 miliardi di vecchie lire (era il 2000, l’euro ancora ai nastri partenza), ma con 850 milioni non dichiarati negli atti ufficiali e pagati con una serie di assegni da 20 milioni ciascuno (uno da 10) firmati da Mauro. Sì, quell’articolo uscì dopo lunghi giorni di gestazione. Anche se tutto era documentato (ne ho ancora copia io, perfino degli assegni) all’unghia, chiesi di pazientare e insistere con Mauro per avere una sua versione dei fatti. Lui prima si negò. Poi dopo dieci giorni rispose che non conosceva chi fosse il proprietario della casa e che le modalità con cui l’aveva acquistata erano fatti suoi. A quel punto feci pubblicare l’articolo, virgolettando quella dichiarazione.
Non volevo attacchi personali, per cui solo la cronaca dei fatti e nessun commento su quegli assegni che certo fecero risparmiare un po’ di tasse. D’altra parte la storia era davvero divertente, per le clamorose coincidenze dovute al sorriso beffardo del destino... Eccola in sintesi. Nel filmato (audio trascritto a fianco ndr.) potrete invece ascoltare i principali passaggi del racconto fatto dal venditore di quella casa...
Alberto Grotti era vicepresidente dell’Eni. Finì nei guai con Enimont. Pagò con il carcere. Uscito un giorno lesse un articolo di Repubblica che riteneva diffamatorio. Volle fare causa, ma non aveva più soldi per le spese legali. Allora Grotti si rivolse alla anziana madre. Che decise di vendere una casa a Roma. La comprò Ezio Mauro, direttore di Repubblica...

«Ho portato le prove alla Guardia di Finanza: non è successo nulla...»

Racconta Franco Bechis sul suo blog: Alberto Grotti era vicepresidente dell’Eni. Fu coinvolto nello scandalo Enimont e pagò con il carcere. Uscito, un giorno, vide un articolo di «Repubblica» che ritenne diffamatorio. Pensò di fare causa. Ma non aveva i soldi. Li chiese all’anziana madre. Lei mise in vendita una casa che aveva a Roma, quartiere Parioli. L’ha comprata Ezio Mauro, direttore di «Repubblica». Grotti con quei soldi - i soldi di Mauro - ha fatto causa a «Repubblica». Ecco la trascrizione della telefonata tra Franco Bechis, direttore di «Italia Oggi», e lo stesso Alberto Grotti.

Alberto Grotti: «Com’è rimasta quella causa? Com’è rimasto il buon Ezio Mauro... Così è rimasta, cioè Ezio Mauro ha detto che non voleva che gli rompessimo i c.... Quella casa fu pagata due miliardi e centocinquanta milioni nel 2000. Di questa somma ottocentocinquanta milioni non furono dichiarati per motivi fiscali. Ma furono pagati da Mauro con assegni da 20 milioni l’uno e uno da 10 milioni. (Ndr: I Grotti contestano in giudizio la percentuale trattenuta dal commercialista che aveva fatto la mediazione). Guardi io ho tutti gli assegni in nero e su quel nero si è fregato dei soldi il commercialista. C’è una causa in corso... Il commercialista si chiamava Dino Cerrone... e si è fregato 830 milioni di lire prendendoli tutti dai soldi di Ezio Mauro - pagati in nero - perché lui aveva l’occasione, diceva lui - di fare un’operazione lenta, graduale... per non compromettere... Guardi è una cosa di una tristezza infinita perché i giudici non ne vengono mai a capo. Appena sentono Ezio Mauro...».
Franco Bechis: «No infatti, guardi, è una cosa incredibile...».
Grotti: «Vabbè, cosa vuole...».
Bechis: «Senta una cosa, a vendere la casa era stata sua mamma?».
Grotti: «Mia mamma che ha venduto la casa si chiama Dima Girardi».
Bechis: «Ma a comprare è stato per metà solo Ezio Mauro...».
Grotti: «Metà l’ha comprata Ezio Mauro... l’altra metà una certa Girardi - guardi che coincidenza - che è la compagna di Ezio Mauro. Io le dirò come sta evolvendo la situazione... So che c’è una causa ancora lì... cioè: è una causa di mia mamma contro il commercialista. C’è una causa di mia madre contro chi le ha fregato i soldi... cioè una banca, il Credito Bergamasco... perché poi ci furono dei movimenti... guardi è una situazione che non finisce mai. È difficile seguirla... la cosa che noi sappiamo è che abbiamo perso su quell’appartamento tutti i soldi derivanti dal nero di Ezio Mauro...».
Bechis: «Be’, però erano un nero fatto con degli assegni... insomma una certa traccia dell’entità di quel nero c’era...».
Grotti: «Noi abbiamo tutti gli assegni notarizzati, con il timbro del notaio e su quello, nonostante abbiamo presentato alla Guardia di Finanza, eccetera, non è successo nulla, di nulla, di nulla... altro che Berlusconi, non mi faccia dire...».

Conclude Bechis: quella causa oggi è ancora aperta. Come tutte le cause civili con il commercialista che naturalmente si è difeso dalle accuse dei Grotti.
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Il cavaliere verde dell'Apocalisse

Il premier affonda la mediazione di Letta.
Rassegna stampa - l'Unità.it

Le pagine da 1 a 3 del Giornale secretate giovedì fino alla chiusura serale per evitare insider trading. La telefonata Berlusconi-Feltri la stessa sera. Il colloquio in cui Letta, plenipotenziario azzoppato, informava desolatamente il presidente della Cei Bagnasco del siluro in arrivo. Lo scontro tra il premier e lo stesso Letta che lo avvisava sulla falsariga dell’Economist: in Italia i governi che si sono messi contro la Chiesa non sono durati, è una strada senza uscita.
Cosa c’è dietro il colpo di scena che ha mandato a monte la pax Vaticana di Silvio? Perché Feltri ha messo nel mirino il direttore di Avvenire in concomitanza con la cena della Perdonanza anziché aspettare qualche giorno, prendendo così due piccioni con una fava? Anche chi nel PdL sussurra dell’irritazione di Berlusconi per una partita sfuggita di mano, ammette a mezza bocca: «La maionese forse è impazzita, ma la maionese hanno voluto fare...».
Dopo mesi in cui lo hanno fatto «ballare», Berlusconi ha deciso la linea dura: cancellare in alleati, falsi amici e poteri forti, l’idea che sia un’anatra zoppa. La querela (un po’ tardiva) a Repubblica per le 10 domande. La mission feltriana di non fare prigionieri. Il silenzio di fronte al crescendo di esternazioni leghiste sull’immigrazione. L’attivismo di Letta per ottenere un incontro senza un mandato pieno alle spalle, mentre il premier celava a stento il fastidio di sentirsi sulla graticola. Fino alla prova muscolare nei confronti di un Oltretevere molto preoccupato per lo smarcamento di Fini nell’imminente dibattito su testamento biologico e pillola abortiva. Incurante dell’assist che lo stesso Bertone gli aveva appena offerto, dichiarando che quando si intervista un prete non si possono attribuire le parole al Papa.
Del resto la tesi che picchiare è meglio che chiedere scusa, non è condivisa solo dal Senatùr ma anche dal vecchio amico Cossiga, profondo conoscitore di vicende politiche nonché di carte giudiziarie: «Ormai è un casino. Tutti parlano a nome della Chiesa, serve che la segreteria di Stato prenda in mano la situazione - avverte l’ex capo dello Stato - Io non sarei andato alla Perdonanza: Berlusconi è premier in un regime concordatario, il che pone limiti allo Stato verso la Chiesa ma anche alla Chiesa verso lo Stato. Altrimenti, se uno vuole giocare libero si abroga il Concordato». L’antifona è chiara. Feltri, forte dell’alibi di rilanciare il Giornale, brinda alle 50mila copie in più. E prepara le prossime puntate.

Così oggi Vittorio Feltri rilancia. Da Il Giornale.it.
La rabbia dei moralisti smascherati.

I nemici del Giornale si sono scatenati. Non hanno gradito gli articoli che abbiamo pubblicato ieri su Dino Boffo, direttore dell’Avvenire (quotidiano dei vescovi italiani) e capofila dei moralisti impegnati a lanciare anatemi contro Silvio Berlusconi per le sue vicende private. Sono piovute su di noi critiche aspre e in alcuni casi violente. Quel Feltri - grida scandalizzato Boffo - è un killer. Tuttavia non ha smentito una riga di quanto scritto; già, non poteva farlo, perché la notizia che lo riguarda è vera, e purtroppo per lui non è una sciocchezza irrilevante. Egli ha patteggiato nel tribunale di Terni e pagato una sanzione pecuniaria per una storiaccia di molestie alla moglie di un uomo col quale il signor direttore Savonarola aveva una relazione omosessuale. Intendiamoci. La relazione omosessuale era ed è affare suo, ma il reato per il quale ha patteggiato, ossia le molestie, non è mica tanto privato poiché trattato in un’aula di Giustizia.
Detto questo, nessuno, tantomeno al Giornale, si sarebbe occupato di una cosa simile se lui, il Principe dei moralisti, non avesse fatto certe prediche dal pulpito del foglio Cei per condannare le presunte dissolutezze del Cavaliere. Adesso i cittadini sanno che il lapidatore non ha le carte in regola per lapidare alcuno.
Le reazioni sgangherate registrate ieri su questo fatto (e immagino la stampa di oggi quanto strillerà) dimostrano la malafede e il doppiopesismo di tanti politici e giornalisti. Per mesi la Repubblica (e non solo) ha sbattuto in prima, seconda, terza pagina articoli zeppi di insinuazioni, intercettazioni galeotte, interviste a prostitute e amiche di prostitute: una campagna interminabile finalizzata a demolire la reputazione del presidente del Consiglio, enfatizzando le sue performance di amatore instancabile. I giornali sedicenti indipendenti e i politici progressisti hanno applaudito al gossip, talvolta alimentandolo; poi noi scopriamo che uno dei massimi censori, il numero uno di Avvenire, è un tipo che prima di parlare male di altri dovrebbe guardarsi allo specchio, e veniamo ricoperti di insulti.
Craxi diceva: a brigante, brigante e mezzo. Aveva ragione. In seguito alle nostre rivelazioni la cena prevista ieri sera fra il premier e il cardinal Bertone è stata annullata per evitare strumentalizzazioni. La Cei, non senza imbarazzo, ha espresso generica e formale solidarietà a Boffo; non poteva fare diversamente. Forse non era al corrente del vizietto del suo portavoce giornalistico e, quand’anche fosse stata informata, sperava non sarebbero uscite indiscrezioni e ora, colta alla sprovvista, deve riflettere sul da farsi.
Silvio Berlusconi ha diramato un comunicato nel quale si dissocia dal Giornale perché contrario alle polemiche sulla vita intima di chiunque. Ci saremmo stupiti se il premier avesse detto il contrario, e cioè che approvava la nostra iniziativa. Non c’è bisogno di rammentare che il compito di decidere in una redazione spetta al direttore il quale può essere licenziato da un momento all’altro, ma non limitato nei suoi poteri. Se sbaglia, paga; ma è libero di sbagliare. Su questo punto il contratto di lavoro non lascia margini a dubbi. Sono pronto a rispondere di quanto abbiamo pubblicato nella consapevolezza che fornire informazioni e commentarle è nostro dovere. Aggiungo che non sono affatto pentito di aver divulgato la notizia su Boffo e, in una circostanza analoga, il mio atteggiamento non cambierebbe di una virgola.
Abbiamo la certezza che questa faccenda non finirà qui. Replicheremo agli attacchi (scontati) di cui saremo oggetto, e rassicuriamo i lettori: non siamo mammole. Finché i moralisti speculeranno su ciò che succede sotto le lenzuola di altri, noi ficcheremo il naso (turandocelo) sotto le loro.
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L'armageddon mediatico il giorno dopo

Avvenire online pubblica oggi questo articolo di Roberto L. Zanini.
Un fiume di solidarietà per l’attacco al nostro direttore.
Rassegna stampa.

Un killeraggio che indigna, brutale, e inaccettabile, un’aggressione incivile, strumentale, intimidatoria, vigliacca. Sono tanti gli aggettivi con i quali molti esponenti della politica e dell’associazionismo e tantissimi lettori hanno espresso solidarietà al direttore di Avvenire Dino Boffo, condannando l’attacco a lui rivolto dal Giornale. Nell’apertura della prima pagina di venerdì il quotidiano, di proprietà della famiglia Berlusconi e diretto da Vittorio Feltri, pubblica un articolo, a firma dello stesso ex direttore di Libero, nel quale si parla di un presunto «incidente sessuale» del «supermoralista» direttore di Avvenire. Per poi argomentare che «Dino Boffo, impegnato nell’accesa campagna di stampa contro i peccati del premier» sarebbe stato coinvolto nientemeno che in «molestie» telefoniche a sfondo sessuale.
Vicenda sulla quale il direttore di Avvenire ha immediatamente chiarito la sua posizione e che ha suscitato un vasto movimento di reazioni. Alla redazione di Avvenire sono giunte telefonate di «totale solidarietà» da parte dei ministri dell’Interno Roberto Maroni, degli Esteri Franco Frattini e del Welfare Maurizio Sacconi.
Di analoghe iniziative telefoniche sono stati autori il segretario e l’ex segretario del Pd Dario Franceschini e Walter Veltroni, Paola Binetti, Enzo Carra e Andrea Sarubbi.
«Amicizia, solidarietà e stima» dal sottosegretario alla salute Eugenia Roccella. Secondo quest’ultima, in particolare, «la strada imboccata dal dibattito pubblico italiano è devastante e allontana dalla verità delle persone e dei fatti». Opinione condivisa dal capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro e da Pierluigi Bersani.
Lo stesso premier Silvio Berlusconi ha ritenuto necessario ricordare che «il principio del rispetto della vita privata è sacro e deve valere per tutti. Ho reagito con determinazione a quello che in questi mesi è stato fatto contro di me e la mia vita privata. Per le stesse ragioni di principio non posso condividere ciò che ha pubblicato il Giornale nei confronti del direttore di Avvenire e me ne dissocio». Nella battaglia in difesa di Boffo e del suo quotidiano sono scese in campo molte associazioni.
L’Azione Cattolica parla di «attacco grave, gratuito e rancoroso», che si evidenzia come un «tentativo di intimidire» chi ha cercato di informare «con correttezza ed equilibrio». «Indignazione» per il comportamento del Giornale e «solidarietà al direttore di Avvenire» dal Movimento per la Vita di Carlo Casini. Il presidente del Mcl Carlo Costalli e quello dell’Aiart Luca Borgomeo hanno parlato di «killeraggio giornalistico». Don Fortunato Di Noto dell’associazione pro-infanzia Meter Onlus ha incoraggiato Boffo a «continuare a fare una informazione, alla luce della Verità evangelica». Calorosi messaggi di solidarietà sono arrivati dal fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi e dal rettore dell’Università Cattolica, Lorenzo Ornaghi. Fra i politici, oltre alla solerzia con la quale Francesco Cossiga ha fatto da sponda all’uscita del Giornale, sono da rilevare le parole di Rocco Buttiglione presidente dell’Udc per il quale Dino Boffo, «sottoposto a un attacco pretestuoso e incivile gode della stima inalterata mia e del mio partito». Posizione che nell’Udc è anche del segretario Lorenzo Cesa, di Enrico Marcora, Luca Volonté e Luisa Capitanio Santolini.
Fra i primi a solidarizzare per «l’attacco brutale e inspiegabile» è stato il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi del Pdl. «Trovo sbagliato – ha detto il capogruppo del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri – agire come ha fatto Feltri» ma «quello che è accaduto riguarda un giornale, non il governo o le forze politiche. Conosco e stimo Boffo». Solidale col «conterraneo» Dino Boffo, il leghista Giampaolo Dozzo. Per Enrico Letta del Pd, «l’intimidazione non scalfisce la stima e la considerazione universale di cui gode il direttore di Avvenire».

Per informare chi non ci segue con assiduità riprensiamo questo pezzo dall'agenzia Asca che riassume in sostanza gli eventi di ieri.
''Il Giornale'' a piedi uniti contro ''Avvenire'', Berlusconi si dissocia. Ma salta l'incontro con Bertone.

Che Vittorio Feltri fosse stato chiamato alla guida de 'Il Giornale' per dare un 'drizzone' - per usare l'improbabile termine spesso usato dal Premier - al modo di fronteggiare, usando più o meno gli stessi schemi, l'offensiva mediatica del gruppo 'Espresso-Repubblica', era abbastanza scontato. Ma, come talvolta accade a chi vuole essere più 'realista del Re', l'attacco sferrato oggi all'Avvenire colpendo sul piano personale il suo direttore, Dino Boffo, ha avuto un effetto oggettivamente controproducente per l'immagine del Cavaliere. Soprattutto in un momento delicatissimo sul fronte dei rapporti suoi e del Governo con la Chiesa ed il mondo cattolico. L'improvviso annullamento della cena di ieri sera all'Aquila con il Segretario di Stato della Santa Sede, Cardinale Bertone, rappresenta un brutto segnale su questo fronte e sta creando - e presumibilmente creerà ancora - non pochi ulteriori imbarazzi a Silvio Berlusconi, il quale è stato costretto ad una decisa 'sconfessione' di quanto scritto da Feltri. ''Il principio del rispetto della vita privata - ha scritto infatti il Cavaliere in una nota ufficiale - è sacro e deve valere sempre e comunque per tutti. Ho reagito con determinazione a quello che in questi mesi è stato fatto contro di me usando fantasiosi gossip che riguardavano la mia vita privata presentata in modo artefatto e inveritiero. Per le stesse ragioni di principio non posso assolutamente condividere ciò che pubblica oggi il Giornale nei confronti del direttore di Avvenire e me ne dissocio''.
Certo, una cosa simile era avvenuta anche nei giorni scorsi, con la Lega a prendere le distanze dall'editoriale de 'La Padania' che voleva rimettere in discussione il Concordato. Ma una cosa è un comunicato chiarificatore di Bricolo e Cota, altra una nota del presidente del Consiglio. Soprattutto nelle stesse ore in cui Berlusconi prendeva iniziative giudiziarie contro la reiterazione delle ormai famose '10 domande' rivoltegli da 'la Repubblica', giudicandole ''retoriche e palesemente diffamatorie''.
Circa l'assenza del premier all'Aquila, ''A me, lo chiedete?'' è stata la battuta, rivolta ai cronisti presenti, con cui il cardinale Segretario di Stato della Santa Sede, Tarcisio Bertone, ha commentato la decisione di Berlusconi di non essere presente alla cena di ieri sera nel capoluogo abruzzese per la Festa della Perdonanza.

Sempre ieri il segretario del Pd, Dario Franceschini, ha affermato: "Il Pd aveva annunciato l'intenzione di promuovere una mobilitazione in settembre a difesa della liberta' di stampa e dell'informazione nel nostro Paese. Pensiamo che adesso il tema sia talmente rilevante e riguardi tutti, al di là del colore politico, al di là di essere in maggioranza o in opposizione, che sia bene fare un passo indietro". Franceschini così ha proseguito: "Noi auspichiamo che siano le associazioni che hanno a cuore la libertà di stampa (a cominciare da Articolo 21 e dal sindacato dei giornalisti) a promuovere una manifestazione anche sulla base dell'appello presentato oggi dai tre grandi giuristi italiani Cordero, Zagrebelski e Rodotà a difesa della libertà di stampa e informazione. Il Pd - annuncia il segretario - è pronto ad aderire e a sostenerla politicamente e organizzativamente. È bene che non sia solo una cosa di partito ma che riguardi tutti, perché la libertà di stampa è un problema che riguarda tutti''.

L'Unità online così raccontava la guerra mediatica con un titolo forte: Feltri "spara" sul direttore dell'Avvenire, e questo testo:
L'offensiva d'estate contro le voci scomode prevede anche un attacco all'Avvenire, dopo i ripetuti attriti tra il governo e i vescovi. Nel mirino il direttore Dino Boffo, bersagliato da Feltri sul Giornale - di proprietà della famiglia Berlusconi -con l'accusa di essere stato coinvolto in "un incidente sessuale", concluso con un patteggiamento nel 2004.
«Un killeraggio giornalistico allo stato puro», è stata la reazione di Boffo che ha parlato di «una vicenda inverosimile, capziosa e assurda». A Boffo la riconferma della piena fiducia della Cei e la solidarietà di numerosi politici.
Secondo Anna Finocchiaro, presidente del gruppo Pd al Senato, c'è un filo conduttore nell'attacco all'Avvenire e a Repubblica. «Direi che la misura è colma: vengono colpite testate che hanno in comune una caratteristica principale, quella di esprimere il dissenso nei confronti dei comportamenti del Presidente del Consiglio». «Se a questo si somma - continua Anna Finocchiaro - la vicenda di Rai 3 e i precedenti attacchi all'Unità e ad altri giornalisti televisivi, colpevoli di svolgere il loro mestiere, il quadro è completo. Siamo di fronte ad un attacco concentrico da parte del Presidente del Consiglio di questo Paese nei confronti della stampa che esprime e dà voce alle posizioni critiche nei confronti del suo operato».
E l'altro fronte dell'attacco titolando: Berlusconi all'attacco, "diffamanti" le domande di Repubblica.
Il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, fa causa a Repubblica e chiede 1 milione di euro di risarcimento per le dieci domande che il quotidiano rivolge al premier - ormai da mesi.
Secondo Berlusconi, è scritto nell'atto di citazione depositato al tribunale di Roma e citato dal giornale, le domande sono «retoriche e palesemente diffamatorie». Secondo quanto riferito dal legale del premier, Niccolò Ghedini , sono strate promosse azioni legali contro organi di informazione anche in Francia e Spagna e si sta verificando la possibilità di un analogo intervento anche in Gran Bretagna.
Le domande riguardano i rapporti tra il premier e Noemi Letizia, l'uso della parola "papi" e dei voli di stato per gli invitati alle sue feste in Sardegna, le ambizioni presidenziali del primo ministro e il possibile uso di intelligence contro magistrati, testimoni e giornalisti, nonché lo stato di salute di Berlusconi.
«L'Italia è l'unico paese nel quale un giornale viene denunciato perchè fa le domande. speriamo che almeno il presidente voglia dichiarare la sua disponibilità a presentarsi in aula e a rispondere almeno alle domande dei giudici», è la reazione dell'Associazione 'articolo21' per la libertà di informazione.
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Fini come Sarkozy, quasi

Da Liberazione di ieri riprendiamo questo articolo a sigla Gu.Ca. su Gianfranco Fini.
Il presidente della Camera interviene a tutto campo su testamento biologico e immigrati. Portare la destra "oltre la destra".
La calda estate di Gianfranco Fini.

Rassegna stampa.

Lo aveva annunciato più volte, con ampio anticipo, poi ha deciso che era venuto il momento di passare all'azione. Già da leader di Alleanza nazionale, negli anni scorsi, Gianfranco Fini aveva detto più volte di guardare a Nicolas Sarkozy come al possibile "modello" per la costruzione di una nuova e moderna destra anche nel nostro paese. Non solo, Fini aveva scritto alla vigilia delle presidenziali del 2007, quelle che hanno incoranato definitivamente l'astro della nouvelle droite d'oltralpe, la prefazione a Témoignage , il libro con cui lo stesso Sarko tracciava l'orizzonte della sua strategia di conquista. Certo, se Sarkozy si è posto l'obiettivo di rendere più aggressiva e spregiudicata la famiglia postgollista, pescando senza timore nel repertorio "identitario" di Le Pen, il compito di Fini era decisamente più difficile, e apparentemente opposto, vale a dire completare la traversata del deserto degli eredi del Ventennio e della fiamma tricolore. Il punto di approdo dei due percorsi appare però simile: la creazione di uno spazio politico a destra in grado di captare inquietudini e trasformazioni presenti nelle società europee. Una destra che non disdegna i toni muscolari ma che non esita neppure a denunciare le derive populiste presenti in alcuni suoi settori. Una destra che, forte di un'egemonia politica e culturale sia in Italia che in Francia può concentrarsi sul suo lavoro di "definizione" e di progetto, certa che le opposizioni di sinistra non le daranno troppi problemi. Sul piano concreto però, le similitudini tra Sarkozy e Fini finiscono qui, visto che ciascuno ha poi a che fare con un tradizione politica e un dibattito nazionale tra loro molto diversi.
Quel che è certo è che il presidende della Camera sembra aver scelto l'estate del 2009 come una sorta di banco di prova dei rapporti di forza interni alla maggioranza di destra che guida il paese. Si sta candidando alla sucessione di Berlusconi, minando quella leadership populista che ha fatto fin qui le fortune del Cavaliere dal 1994 a oggi? Sta rispondendo all'offensiva leghista che preme sugli equilibri interni del governo? Sta indirizzando il PdL su un terreno innovativo che possa conquistare nuovi elettori, meno targati ideologicamente di quanto non siano stati fin qui quelli di Forza Italia e Alleanza nazionale? Quel che è certo è che Fini gioca ormai a tutto campo: dalla riforma della legge sulla cittadinanza ai temi etici, passando per la difesa della laicità dello Stato. Per chi si augurava solo una quindicina di anni fa l'avvento del "fascismo del 2000", sembra trattarsi quasi di una rivoluzione. Anche se non si può dimenticare che la destra descritta dagli interventi di Fini assomiglia molto di più al suo possibile identikit elettorale, interclassista, postideologico, tendenzialmente laico, che non le sparate prolife di Sacconi e Roccella (ma non erano socialista il primo e femminista la seconda?). Diverso il discorso sull'immigrazione, visto che al nord "l'ammorbidimento" del PdL su questi temi sembra aver tirato la volata alla Lega e visto che il cuore del popolo di destra, o almeno quanto emerge del suo essere "opinione pubblica", interpretato da testate come Libero e il Giornale, parla esplicitamente della necessità di essere "cattivi" con gli immigrati. In attesa di misurarne gli esiti, restano le prese di posizione di Fini.
L'ultima è arrivata ieri con l'auspicio avanzato dal presidente della Camera in uno scambio di mail con il direttore del "Mulino", il politologo Piero Ignazi che ha studiato a metà degli anni Novanta con grande attenzione proprio il passaggio dal Msi ad An, per una trasformazione del PdL. «Un partito che raccoglie il 35% dei voti (e che ha un potenziale elettorale anche superiore) - ha spiegato Fini - non può essere strutturalmente un partito "populista". Può capitare che, in determinate circostanze, esso usi toni populistici, ma è obbligato a esprimere, prima o poi, una avanzata cultura di governo. Se così non avvenisse, le basi reali del suo consenso si indebolirebbero inesorabilmente. E tale partito finirebbe presto o tardi in un'orbita eccentrica rispetto all'evoluzione sociale, autocondannandosi fatalmente alla marginalità politica». Perciò, aggiungeva Fini, «Nel PdL ci potranno e dovranno essere diverse "anime" in una prospettiva di partito "plurale". Ma esse dovranno muoversi in una logica diversa rispetto al passato. Non seguendo la cultura della coalizione, bensì quella della sintesi (...) Tale circostanza può consentire al nuovo partito di sviluppare compiutamente quella cultura liberale, laica e modernizzatrice che al tempo della Dc (e anche del Pci) era decisamente minoritaria all'interno della società italiana».
Solo il giorno prima, intervenendo alla festa del Partito democratico in corso a Genova, Fini aveva lanciato un paio di affondi sul testamento biologico e sugli immigrati che non hanno mancato di scatenare reazioni rabbiose tra i suoi alleati politici e i suoi stessi ex colonelli dentro An. «Io non ho il dono della fede, anche se riconosco il grande ruolo della Chiesa, la sua storia, i suoi valori. Ma la contrapposizione su certi argomenti non può essere tra laici e cattolici. Lo scontro c'è solo tra laici e clericali». E sul testamento biologico aveva affermato: «Non si tratta di favorire la morte, ma di prendere atto dell'impossibilità di impedirla (...perciò), senza fare crociate contro i cattolici, se qualcuno pensa che decide il Vaticano e non il Parlamento, io, Costituzione alla mano, dico no».
Quanto all'immigrazione, Fini era stato altrettanto netto, criticando il sostegno del PdL alle posizioni della Lega: «Affrontare un tema così grande, con un'ottica riduttiva, che qualche esponente politico sembra avere, rischia di non portarci da nessun parte. L'approccio emotivo e fondato soltanto sulla questione della sicurezza dei cittadini italiani è miope e sbagliato». «Chi arriva in Italia è una persona - ha scandito Fini - La distinzione tra regolare e clandestino non può essere la cartina di tornasole per orientare una politica. Se chi arriva in Italia è una persona, alcune politiche fatte in Italia non dovevano essere inserite in un provvedimento normativo e sono lieto che il Parlamento abbia detto di no». In sintesi per il presidente della Camera ci deve essere «estremo rigore nel rispetto delle regole fondamentali per l'ingresso e la permanenza sul territorio nazionale, ma censura nei confronti di qualsiasi politica che sia vagamente discriminatoria, xenofoba, razzista».
Del resto, solo pochi giorni fa in un articolo che sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista Formiche , il presidente della Camera aveva ribadito la sua posizione sul futuro della cittadinanza italiana, sulla cui riforma sarà presto presentata una proposta di legge. «Il nuovo moderno e strategico impegno delle Istituzioni deve essere quello di far sentire l'Italia come patria anche a coloro che vengono da Paesi lontani, e che sono già o aspirano a diventare cittadini italiani», aveva scritto Fini, prima di concludere: «Non si può chiedere a questi nuovi italiani di identificarsi totalmente con la nostra storia e con i nostri costumi. Sarebbe ingiusto e sbagliato pretendere di assimilarli nella nostra cultura. Per loro la Patria non potrà mai essere la terra dei padri. Però si può e si deve chiedere loro di partecipare attivamente e lealmente alla vita collettiva, di fare propri i valori della Repubblica, di condividere gli obiettivi di fondo della nostra società e di contribuire alla loro realizzazione. Si può e si deve suscitare passione civile e patriottismo nei nuovi italiani anche promuovendo la conoscenza, non solo della nostra lingua e delle nostre leggi ma anche della nostra storia, specie quella politico-costituzionale più recente».
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Franceschini a Lodi

Il Pd verso il congresso.
Speciale, [17].
Domani Dario Franceschini sarà alla Festa del Pd di Lodi.
Rassegna stampa - Il Cittadino di oggi.

Dario Franceschini, segretario nazionale del Partito democratico, sarà a Lodi domani pomeriggio, 30 agosto, alle 16.30. Franceschini visiterà l’area della Festa del Pd e coglierà l’occasione per presentare la sua candidatura a segretario del Partito democratico alle prossime primarie del 25 ottobre. È il primo appuntamento tra quelli previsti alla Festa dei democratici lodigiani per presentare i candidati nazionali alla carica di segretario e l’attesa è di quelle importanti. Per i sostenitori della mozione “Franceschini” è il secondo appuntamento dopo quello di luglio con Piero Fassino. Ad accoglierlo, il popolo democratico e i primi comitati locali sorti a sostegno della sua candidatura.
«L’invito fatto nelle scorse settimane - dicono i coordinatori provinciali della mozione, Enrico Brunetti e Federico Moro - è stato da subito accolto con grande disponibilità dal segretario nazionale. È il segnale della chiara volontà di essere presente in ogni territorio per sottolineare i punti forti della sua candidatura: fiducia per uscire dalla crisi e dalle paure indotte della destra italiana; regole in una società che faccia della responsabilità un baluardo capace di conciliare bene individuale e bene collettivo; uguaglianza delle opportunità; merito come parola chiave per superare le ingiustizie sociali, qualità come fondamento per una società che vede nella conoscenza e nell’innovazione il grimaldello per stare sui processi di modernità».
«Un programma impegnativo - sottolinea Enrico Brunetti - ma che segna un distacco netto dalle politiche di governo che tendono a comprimere gli spazi di coesione sociale e gli investimenti sul futuro della nostra società. Da Franceschini ci si attende quindi un discorso di respiro capace di misurarsi con i problemi di un’Italia profonda provata dalla crisi e che chiede risposte alle esigenze concrete del vivere quotidiano e per il futuro dei lavoratori e delle famiglie». «La fase congressuale - sostiene Federico Moro - prima di essere una sfida tra persone è l’occasione per mettere a punto una strategia per essere rappresentanza della società italiana, in tutte le sue sfaccettature e nelle specificità di territorio. Per questo è necessario ribadire che qui non si gioca una partita per vincere dentro il Pd ma per essere vincenti fuori. È inoltre importante riaffermare che quello del Pd è il percorso privilegiato attraverso cui sviluppare opposizione e una nuova mentalità per governare il paese. Per raggiungere questo risultato sappiamo che servirà l’apporto di tutti durante e dopo la fase congressuale, senza tentennamenti. Da Dario ci aspettiamo questo e sappiamo che il suo discorso ci conforterà in questa speranza».
All’incontro di domani saranno presenti il candidato alla segreteria regionale Emanuele Fiano, il segretario del Pd Lodigiano Giuseppe Russo, il sindaco di Lodi Lorenzo Guerini, il senatore Gianni Piatti, i consiglieri regionali Franco Mirabelli e Sara Valmaggi, il presidente del consiglio comunale di Lodi Gianpaolo Colizzi e Damiano Rossi dell’assemblea regionale del Pd.
(17 - continua)
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Non ci si improvvisa amministratori d'una città

Casalpusterlengo - Sulla moschea “provvisoria” opposizione all’attacco, la giunta intanto pensa a una soluzione rapida.
«Il gioco delle tre carte non è serio».
Rassegna stampa - Il Cittadino di oggi, Andrea Bagatta.

Non si fermano le discussioni politiche e le polemiche attorno alla decisione dell’amministrazione di chiudere la moschea di via Fugazza e di trasferirla momentaneamente, fino alla fine del Ramadan, in via Adda al civico 19. Il capannone comunale di via Adda in cui i musulmani entreranno quanto prima, per il momento è concessa una proroga per l’uso dello stabile di via Fugazza, si trova proprio in mezzo alle abitazioni, a lato dell’immobile del distretto sanitario dell’Asl, e i residenti hanno fatto capire che non vogliono la moschea sotto casa, nemmeno per tre settimane. «Non è spostando la questione da una parte all’altra della città che si risolve - commenta Federico Moro di Casale Democratica -. Il gioco delle tre carte non è serio, ma d’altronde questa amministrazione dimostra di non sapere amministrare problemi complessi. Il tema dei costi sarà tutto da vedere, e poi c’è il tema del trasferimento, che sta mettendo in fibrillazione la città. Vorrei sapere dove sono Pdl e Udc e che cosa hanno da dire, visto che tutta la partita è in mano alla Lega». Il capannone comunale adesso è completamente spoglio e usato a deposito: dovrà essere pulito e sarà allestito con dei fari e delle luci, alcuni bagni chimici mobili, qualche lavandino. I costi saranno a carico del comune, e appena saranno terminati gli interventi i musulmani potranno spostarsi. Tuttavia, a ieri non era stato fatto ancora nessun intervento. Tra l’altro, è la prima volta che uno spazio pubblico comunale viene concesso, di fatto, per un evento di carattere religioso, il Ramadan, come conferma l’ex vicesindaco Roberto Ferrari. «Altre volte i musulmani ci avevano chiesto il centro sportivo per la festa conclusiva del Ramadan, ma la nostra linea era sempre stata quella di non assegnare spazi pubblici per manifestazioni religiose - spiega Ferrari -. Oggi siamo al paradosso che chi non voleva la moschea si ritrova a dare uno spazio comunale, per giunta creando un precedente: se l’anno prossimo chiederanno ancora il capannone di via Adda, su quale base amministrativa dire di no? La situazione poteva essere risolta senza clamore, alla fine del Ramadan, lasciando che fosse gestita a livello privatistico». Oppure, poteva essere risolta senza interventi coercitivi, come suggerisce Leopoldo Cattaneo del Partito Comunista dei Lavoratori. «Ci sono tanti stabili per cui non è stato fatto il cambio di destinazione d’uso, ma non vengono chiusi - attacca Cattaneo -. La vicenda poteva essere risolta senza la chiusura della moschea. Per giunta, in via Fugazza i disagi erano contenuti e quelli esistenti si potevano risolvere diversamente dalla chiusura. Adesso, solo per fare propaganda, l’amministrazione si ritrova in una situazione da cui non sa più come uscire e dimostra la sua totale incapacità amministrativa». Dall’amministrazione comunale, intanto, non arrivano commenti ufficiali, perché «si preferisce continuare a lavorare per una soluzione veloce della vicenda».

Giunta sotto accusa.
Polemiche sulla moschea spostata in via Adda.
L’opposizione: «La struttura non è a norma».
Il Giorno di oggi, Mario Borra.

Prima l’annuncio di un comunicato stampa «per rassicurare i residenti di via Adda», come ha ribadito ieri il sindaco Flavio Parmesani, poi il silenzio che, per la verità, suona imbarazzante. Nessuna nota ufficiale è arrivata fino a ieri sera. Dopo la firma sulla chiusura del centro di preghiera islamico di via Fugazza, l’amministrazione comunale, mercoledì scorso, aveva già trovato l’alternativa fino al prossimo 21 settembre, ultimo giorno del mese sacro del Ramadan: un magazzino, «incastrato» tra due palazzine, all’interno del quale ancora non ci sono lavabi, acqua, luce, servizi igienici. I residenti si sono subito scatenati. «Non li vogliamo. Temiamo caos, rumore e sporcizia». Fino a ieri pomeriggio, il piccolo capannone era ancora adibito a ricovero di attrezzi comunali e i fedeli islamici hanno continuato a pregare nella struttura di via Fugazza, formalmente non più vocata come luogo di culto in conseguenza dell’effetto immediato dell’ordinanza. Al silenzio della maggioranza, si sono contrapposti gli attacchi della minoranza di centro sinistra. «Ci dicano cosa costerà questa operazione di trasferimento in una zona non idonea e in una struttura non a norma - spiega l’ex assessore Ferdinando Fanchiotti - E quando lo stabile di via Adda verrà aperto, vogliamo sapere se avrà tutti i requisiti a norma. I fedeli islamici potevano rimanere in via Fugazza fino alla fine del Ramadan. Ora si scopre che la stretta sulla sicurezza si è tramutata in una bolla di sapone».
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Fondi per l'agricoltura del territorio

Il contributo verrà distribuito fra le 1.400 aziende del territorio.
La soddisfazione degli operatori: «Una bella notizia».
Agricoltura, dalla Regione i fondi anti crisi.
Preziosa boccata d’ossigeno per le aziende lodigiane: in arrivo 25 milioni.

Rassegna stampa - Il Cittadino di oggi, Alberto Belloni.

Preziosa boccata d’ossigeno in arrivo per il latte lodigiano. Il settore, tutt’ora in grave affanno per gli alti costi di produzione, il basso prezzo riconosciutogli dall’industria e la feroce concorrenza dall’estero, si accinge infatti a beneficiare di una preziosa iniezione di denaro fresco. Ricevuto il via libera dalla Comunità europea, il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, ha promesso la distribuzione anticipata a partire dal 16 di ottobre del 70 per cento dei contributi Pac (Politica agricola comunitaria). Si tratta, in sostanza, di circa 280 milioni sui 400 complessivamente previsti per la Lombardia per ogni anno da qui al 2013; un sostegno indispensabile, che nel caso del Lodigiano dovrebbe valere poco meno di 25 milioni di euro da spalmarsi tra le circa 1.400 aziende agricole che ne hanno fatto domanda. «L’aspettiamo, perché ce n’è veramente la necessità», auspica Luigi Tomasi, direttore di Confagricoltura di Lodi e Milano; «È una bella notizia, dà respiro, anche se di fatto è un anticipo e non un aumento - gli fa eco Paolo Ciceri, presidente dell’Apa -: ma il bisogno di liquidità è talmente forte che è fondamentale per concludere la stagione pagando tutte le spese». Anticipo dei Pac a parte, però, la situazione resta difficilissima. Vacante da tempo un accordo, l’industria continua a ritirare il latte a 29-30 centesimi al litro, contro costi di produzione più alti di quasi 10 centesimi; e il 30 giugno scorso è decaduto anche il contratto “privilegiato” con la Galbani, che pagava 34 centesimi al litro. «Il 2 di settembre faremo riunione di Confagricoltura Lombardia, per valutare e decidere quale azione mettere in campo - commenta Tomasi -. La situazione così com’è è assolutamente insostenibile. Abbiamo chiesto a Formigoni di farsi interprete di una dichiarazione di stato di crisi a livello nazionale, per poter accedere a misure straordinarie, dal congelamento di prestiti e mutui alla sospensione dei contributi: se ne è fatto carico, ma non ha ancora dato una risposta precisa e cercheremo di sollecitarla. L’altra possibilità è di cercare una mediazione con gli industriali, affinché riconoscano almeno i costi di produzione». Carlo Franciosi, presidente della Coldiretti per Lodi e Milano, punta molto sul decreto sulle etichettature annunciato dal ministro Zaia per smascherare i finti prodotti tipici fatti con latte straniero e spingere il consumatore a riaffidarsi al “Made in Italy”. Il progetto più ambizioso, però, è un altro: «Occorrerà costituire una società che regoli il mercato, fatta da agricoltori, cooperative e produttori - spiega -. Se c’è eccedenza di prodotto andrà regolamentata, ma a questa azione dovranno partecipare tutti, se no non servirà. Abbiamo già pronti regolamento e statuto, ora dobbiamo trovare l’adesione della stragrande maggioranza, qualificata, altrimenti non avrà successo. E al tavolo con gli industriali, per il prezzo, ci torneremo quando avremo le armi necessarie». Paolo Ciceri auspica in una tutela dei prodotti nostrani, ma chiede agli agricoltori di scendere in campo in prima linea: «Sta agli allevatori tirare fuori la testa dalle loro aziende e valorizzare i nostri prodotti – conferma -: se non ci riusciamo vuol dire che non ne siamo in grado. Sappiamo che il nostro latte è il migliore, è la nostra arma e dobbiamo farla valere di più: pur senza chiedere la luna, non può valere lo stesso di quello che non hanno gli stessi controlli sanitari, la stessa qualità e che arrivano da lontano, altrimenti le aziende chiudono».
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Lodigiano, troppe aziende alle corde

Alberto Belloni su Il Cittadino di oggi evidenzia che numerose aziende non hanno ancora riaperto e il segretario dell’Unione artigiani teme un autunno di grandi difficoltà.
Imprese, si avvicina un settembre nero.
L’allarme di Sangalli: «Dopo le ferie in molti potrebbero chiudere».
Rassegna stampa.

Troppe aziende alle corde, tanto da prolungare loro malgrado le rispettive ferie e di temere l’eventualità di non riuscire a riaprire bottega. È questo lo scenario post-agostano paventato dal segretario dell’Unione artigiani di Lodi, Mauro Sangalli, secondo il quale alla ripresa dell’attività il sistema economico locale, piccole imprese in testa, rischia di incappare in un vero e proprio “settembre nero”. Concorde con le recenti valutazioni di Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, Sangalli ritiene che seppure attenuatasi la crisi economica sia tutt’altro che superata, e che nei prossimi mesi la situazione possa registrare pesanti effetti negativi: «La ripresa di settembre e l’autunno ci preoccupano - spiega Sangalli -. A differenza del passato, negli ultimi anni e oggi in particolare, diverse aziende hanno posticipato la riapertura dopo le vacanze estive e molte di queste si stanno addirittura interrogando se sia il caso di cessare l’attività, dopo un primo semestre in cui vi è stata una diminuzione di lavoro del 30-40 per cento. Le piccole aziende che lavorano conto terzi - prosegue il segretario dell’Unione - sono stremate. Il loro fatturato si è dimezzato. Non si vede un futuro. Spesso sono le nostre grandi aziende che, lavorando meno, trattengono dentro la fabbrica tutto il lavoro. Così facendo riescono a sopravvivere, ma nei fatti questo sta decretando una morte lenta di tutto l’indotto, che è fatto di manodopera altamente specializzata». In gioco, per Sangalli, c’è la “tenuta sociale” del Lodigiano. Più cauto, il segretario di Confartigianato, Vittorio Boselli, s’affida alla caparbietà degli imprenditori lodigiani e invita le istituzioni a continuare a sostenere le aziende: «Non me la sento di fare previsioni, vista la complessità della situazione - analizza Boselli, ricordando come la ripresa di settembre sia tradizionalmente “lenta”, anche negli anni migliori -. È vero che fino alla fine dell’anno nessun osservatorio o dato ci permette di immaginare una pronta ripresa, per cui ci aspettiamo mesi di perdurante resistenza rispetto a una capacità produttiva che resterà non eccellente. Non dobbiamo però dimenticare che fino a oggi le imprese hanno dimostrato tenuta e tenacia straordinarie, avvalendosi anche di elementi di politica territoriale che sono serviti, come le forme di accompagnamento al credito che hanno permesso di immettere liquidità. Sotto il profilo della responsabilità delle istituzioni, il segnale che arriva dalle imprese è che dobbiamo tenere altissima l’attenzione. Prima della pausa estiva, il dato incoraggiante era che il monte ore sugli ammortizzatori sociali non era stato utilizzato appieno: però pensiamo che nelle prossime settimane possa esserci un maggiore ricorso alla cassa integrazione». Tra agevolazioni nell’accesso al credito, maggiori garanzie presso le banche, riduzione della pressione fiscale, sostegno all’occupazione e incentivi per gli investimenti, per Sangalli la ricetta prioritaria per aiutare le imprese è garantirgli liquidità: «Le aziende rappresentano ancora oggi una risorsa positiva e gli imprenditori sanno ancora fare il loro mestiere, ma i processi di ristrutturazione necessari non possono essere fatti senza il supporto reale delle banche. Deve essere subito ripristinata la funzionalità del sistema creditizio».

Lorenzo Rinaldi, sempre su Il Cittadino di oggi, ci informa che la Marcegaglia di Graffignana ha confermato la volontà di ricorrere alla cassa integrazione sino a fine novembre.
All’Icc firmato l’accordo per la mobilità.
L’intesa riguarda 19 lavoratori dell’azienda di San Martino.

Accordo raggiunto per la mobilità alla Icc di San Martino in Strada. Il provvedimento interesserà in totale 19 lavoratori e dovrebbe scattare dal prossimo mese di settembre. Ieri mattina i sindacati del comparto chimico hanno incontrato i vertici dell’azienda, che occupa una quarantina di addetti. L’intesa di massima raggiunta prima delle vacanze è stata dunque ufficializzata: la mobilità, che come detto scatterà a breve, sarà accompagnata da un incentivo economico. Non fa parte dell’accordo invece il ricollocamento dei lavoratori che perderanno il posto nella nuova ditta che prenderà in affitto un capannone della Icc. Non è escluso, comunque, che alcuni dei lavoratori Icc in esubero passino alla nuova ditta, che si occupa della produzione di guarnizioni per auto.La mobilità alla Icc è frutto della decisione aziendale di concentrarsi unicamente sul reparto cosmetica, che realizza smalti per unghie. Il reparto meccanica, che lavorava per la Bossi Negri, verrà invece chiuso. In forza di questa decisione, gli esuberi sono 19, mentre il reparto cosmetica dovrebbe proseguire l’attività con una ventina di addetti. Gli spazi lasciati liberi dal reparto meccanica dovrebbero essere riempiti da un’altra ditta, che prenderà in affitto il capannone dalla stessa Icc. I sindacati segnalano che i profili professionali dei lavoratori destinati alla mobilità sono già stati inviati alla nuova ditta, nella speranza che possano essere presi in considerazioni per eventuali assunzioni. Sempre ieri si è svolto un vertice per la Marcegaglia (Ponteggi Dalmine) di Graffignana, l’azienda metalmeccanica di proprietà della famiglia del presidente di Confindustria. Al tavolo del confronto erano presenti i sindacati lodigiani dei metalmeccanici e il capo del personale del gruppo industriale lombardo. I responsabili aziendali hanno confermato la volontà di utilizzare 13 settimane di cassa integrazione ordinaria a partire da lunedì 31 agosto, fino a venerdì 27 novembre. La cassa ordinaria, motivata con la carenza di ordini, è stata richiesta per un massimo di 60 lavoratori. Concretamente però gli operai coinvolti dalla cassa, ogni settimana, dovrebbero essere tra i 30 e i 40. La cassa, che è prevista a rotazione tra il personale, potrebbe essere interrotta nel caso aumentassero i ritmi di lavoro a seguito dell’arrivo di nuove commesse. Per il momento, tuttavia, l’azienda ha comunicato ai sindacati di non avere grandi visibilità e pertanto a metà settembre dovrebbe svolgersi un nuovo incontro con i rappresentanti dei lavoratori per fare il punto della situazione. Farebbero ben sperare, però, le nuove commesse per due navi che potrebbero arrivare dalla Cina e che dovrebbero alimentare la produzione di ponteggi nel polo di Graffignana.

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Razzisti e imbecilli

È il titolo di un pezzo di "Undicietrenta" di Roberto Cotroneo su l'Unità.it che riportiamo più sotto. È il titolo giusto per questo post che raccoglie anche due contributi tratti dal quotidiano Liberazione. Il primo è un articolo di Mauro Biani.
Quando la satira supera la realtà. La vignetta è del 2004 nata come una provocazione.
Io, vignettista antirazzista autore del presunto manifesto leghista.
Rassegna stampa.

Ebbene sì, l'autore del presunto manifesto leghista sulla tortura degli immigrati sono io: un vignettista antirazzista. Il problema del mio mestiere è proprio che la realtà supera la satira, e quella che nel 2004 era nata come una provocazione per sbeffeggiare l'estremismo padano, oggi risulta del tutto verosimile.
E allora fermiamoci un attimo e stiamo ai fatti. Nel 2004 all'interno del portale pacifista peacelink.it parte un progetto di manifesti elettorali taroccati realizzato a quattro mani con Carlo Gubitosa come risposta alla noiosa retorica della propaganda dei partiti. Il bersaglio era la cultura di guerra e violenza che pervadeva (e pervade) il sistema dei partiti. Così con Carlo (che da tempo fa satira assieme a me su giornali come Liberazione e siti come www.mamma.am ) abbiamo reinterpretato i manifesti elettorali pubblicati dagli schieramenti politici in lizza per le europee dell'epoca, svelando su ogni manifesto i "pensieri proibiti" e i desideri inconfessabili dei partiti. Era maggio del 2004 e non immaginavamo che questo sasso mediatico sarebbe rimbalzato nello stagno della rete per cinque anni, fino a perdere tutto il suo slancio paradossale per trasformarsi in un messaggio credibile, come se nel 1933 avessimo fatto un manifesto finto in cui si proclamava la superiorità della razza italiana con toni alla Guzzanti di "Fascisti su Marte" per poi essere presi sul serio dalle leggi razziali del 1938.
Era un progetto reale di comunicazione grafica pacifista che voleva svelare la violenza della comunicazione politica e la sua assurdità.
Un progetto contro le parole e gli slogan violenti, che si è trasformato in una cartina di tornasole sulla pericolosa deriva razzista del paese, come a dire "attenzione, quello che oggi è paradosso tra qualche anno potrebbe diventare una idea plausibile e perfino una legge dello stato". Nel 2004 quel desiderio inconfessabile di "difendersi" dagli immigrati spingendosi fino alla tortura preventiva era la sintesi del cuore oscuro che pulsava dietro le iniziative politiche della Lega Nord in tema di tortura (in Italia non è ancora reato grazie all'opposizione della Lega), immigrazione (legge Bossi/Fini) e legittima difesa (trasformata in legittima offesa con licenza di uccidere per assecondare gli istinti pistoleri del popolo padano). Ora è probabile che questo gruppetto di Facebook banalmente lo abbia trovato su google images e acchiappato, non conoscendone neanche la provenienza. Ma la la trasformazione dell'impossibile paradosso satirico in un plausibile slogan estremista è un segnale culturale, sociale e politico ancora più inquietante e come accade nel nostro Paese a tutti i seri segnali d'allarme, probabilmente verrà ignorato.

Il secondo articolo tratto da Liberazione è di Vittorio Bonanni.
Nomi eccellenti tra gli aderenti, come Bossi, oltre a sindaci e parlamentari.
Legittimo torturare i clandestini, lo dice la Lega su Facebook.


Siamo ormai alla tortura di Stato. Sì perchè se una forza di governo, ripetiamo, di governo, come la Lega nord, si permette di aprire una pagina su Facebook chiamata "Lega Nord Mirano" dove si ritiene normale torturare i clandestini in quanto di tratterebbe di legittima difesa, come recita appunto il manifesto che compare su Facebook - peraltro disegnato ironicamente nel 2004 dal nostro vignettista Mauro Biani - di questo si tratta. Del gravissimo episodio, che fa seguito al gioco "Rimbalza il clandestino" ideato dal figlio di Umberto Bossi, Renzo, sempre su Fb e poi cancellato dopo le proteste, si è cominciato ad avere notizia ieri nelle agenzie, subito riprese da Repubblica che ha denunciato la cosa ma soprattutto dagli altri utenti dello stesso Facebook, con la nascita immediata del gruppo "Cancelliamo la pagina della Lega nord di Mirano", che in poche ore si è riempita di centinaia di iscritti per contrastare gli oltre quattrocento aderenti a quella che può essere definito un vero e proprio incitamento alla violenza e alla morte contro le migliaia di uomini e donne che arrivano nel nostro paese per sfuggire a guerre e miseria. Ancora più grave il fatto che esponenti delle istituzioni e del governo, come il ministro Umberto Bossi, il già parlamentare Enzo Erminio Boso, la parlamentare Emanuela Munerato, il sindaco di Vittorio Veneto Giannantonio Da Re e il capogruppo alla Camera Roberto Cota abbiamo aderito senza batter ciglio, anche se quest'ultimo ha reagito sostenendo che si tratterebbe di un "manifesto patacca" messo ad arte su Facebook e dopo il divampare delle polemiche si è cancellato, giustificando l'adesione iniziale con il fatto che «l'amicizia su Facebook si dà in buona fede a centinaia di soggetti ogni giorno e non si può in alcun modo essere responsabili delle condotte altrui». La colpa per lui sarebbe di un «circuito mediatico impazzito». Anche il segretario della Lega Nord Mirano si è affrettato a disconoscere la pagina di Fb: «È solo uno scherzo di cattivo gusto», aggiungendo che presto «saranno fatte delle indagini per capire chi è stato e se dovessi scoprire che è iscritto alla Lega non c'è dubbio che lo allontanerò all'istante». Tra i primi a reagire l'ex leader del Pd Walter Veltroni: «Chiederò al ministro degli Interni Maroni - ha affermato - di adoperarsi perchè venga immediatamente cancellato». Proteste anche dall'Osservatorio antiplagio che ha chiesto alle autorità di intervenire affinché la pagina venga cancellata da Fb mentre l'Arci presenterà un nuovo esposto alla Procura e chiederà all'opposizione parlamentare «di presentare con urgenza una mozione di sfiducia nei confronti di un ministro indegno di ricoprire tale ruolo». L'associazione chiede inoltre al gestore del social network di oscurare la pagina e al presidente della Camera, Gianfranco Fini, di «far sentire la sua voce nei confronti di un membro del Parlamento che aderisce ad un gruppo di esplicita matrice violenta e razzista». Ma anche il silenzio dell'Europa, che isolò l'Austria quando portò al governo Haider e il suo partito, non è più tollerabile. L'Italia democratica non può più essere lasciata sola di fronte a scenari che ricordano più il Sudafrica dell'apartheid che il Continente dei diritti civili e dell'accoglienza.

Ed ecco l'articolo di Roberto Cotroneo da cui abbiamo preso il titolo per il post.
Razzisti e imbecilli.

Facebook non mente. I social network sono il miglior modo per capire le peggiori intenzioni delle persone. E soprattutto dei gruppi politici. Chissà perché ma Facebook fa un effetto strano ai movimenti e alla politica, si pensa di poter fare attraverso il social network tutto quello che si vuole, come fosse un territorio di nessuno. Un luogo dove tutto si può scrivere, tutto si può essere, senza che si venga a sapere. Paradossalmente il social network più diffuso e potente del pianeta nella mente delle persone si trasforma, come fosse un miracolo, in un club privato, in un tavolo riservato dove nessuno vede e nessuno può accedere.
Come possa accadere tutto questo andrebbe chiesto a uno psicoanalista che si occupa di fenomeni sociali. Certo è che la Lega ogni giorno ne combina una. Ieri il Concordato da rivedere, oggi la pagina su Facebook della Lega Nord di Mirano, paesino in provincia di Venezia, di 26 mila anime. Dove nella foto del profilo c'è un manifesto che incita a torturare gli immigrati. Clamoroso. Clamoroso soprattutto perché tra gli amici della pagina della Lega Nord di Mirano, c'è anche Umberto Bossi, suo figlio, quello che fa i videogiochi che annegano gli immigrati, e Roberto Cota, capogruppo alla Camera. Naturalmente Bossi e Cota si sono immediatamente premurati di cancellare l'adesione, ma dovevano preoccuparsi prima, quando l'hanno data.
Ora, tutto questo non è una goliardata o un incidente. Tutto questo è una deriva stomachevole di un partito che non ha altra identità, se non quella razzista. Di un partito di gente che probabilmente non sa che fuori Mirano, se ti metti su Facebook ti leggono comunque tutti. Perché la Lega non lo sa, ma internet ce lo hanno i meridionali, gli immigrati, gli africani, e persino i cinesi (rischiando il carcere). La Lega non lo sa, ma la pagina Facebook di Mirano non è letta dai razzisti della piazzetta del paese, ma dal resto del mondo. La Lega non lo sa, perché stanno tra di loro a giocare in qualche bar alle slot machine e sognano i raid contro gli immigrati, ma questa roba la vedono tutti. E ora sono guai. Bossi, in un paese normale si dimetterebbe immediatamente. Ma in un paese normale dovrebbero essersi dimessi tutti da decenni. Dal premier in giù. La vergogna rimane, ma tanto i leghisti non capiscono. Non capiscono nulla, stanno là a giocare ad annegare clandestini e a incitare alla tortura. Ma non sarebbe il caso di cominciare ad aprire inchieste e a far rispettare le leggi? Che valgono anche per gli imbecilli.
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