FATTI E PAROLE

Foglio virtuale quotidiano di Brembio e del suo territorio

http://www.fattieparole.info

Si può leggere l'ultimo numero cliccando sopra, sull'immagine della testata o sul link diretto, oppure cliccando qui.
Ogni nuovo numero esce nelle ore serali, ma dopo le 12.00 puoi già leggerlo mentre viene costruito cliccando qui.

FATTI E PAROLE - ARCHIVIO
www.fattieparole.eu

La parola al lettore

Le tue idee, opinioni, suggerimenti e segnalazioni, i tuoi commenti, le tue proposte: aiutaci ad essere un servizio sempre migliore per il nostro paese.

Puoi collaborare attivamente con noi attraverso questo spazio appositamente predisposto - per accedere clicca qui - o anche puoi scriverci cliccando qui.

lunedì 24 agosto 2009

Occhio alle e-mail

Tentativi di truffa telematica a nome dell'Agenzia delle Entrate lombarda.
Dalle agenzie - Agi.

Ancora tentativi di truffa a nome dell'Agenzia delle Entrate in Lombardia. Dopo le false comunicazioni di posta elettronica con le quali si chiedeva al contribuente di indicare i propri dati bancari per ricevere l'addebito di presunti rimborsi fiscali, in questi giorni sono stati messi in atto nuovi tentativi di raggiri attraverso e-mail provenienti dall'indirizzo ufficio.accertamenti@agenziaentrate.it. La comunicazione, che non proviene dall'Amministrazione finanziaria, invita il contribuente a collegarsi ad una presunta banca dati degli accertamenti presente sul sito http: / /bancadati2009.altervista.org. Anche in questo caso - si legge in una nota dell'Agenzia - si tratta di una truffa. I cittadini che dovessero essere oggetto di analoghi tentativi di raggiro sono dunque invitati a cestinare con la massima sollecitudine il messaggio, a non aprire alcun collegamento ad altri siti web e a contattare quanto prima la Polizia Postale. Si ricorda che l'Agenzia - conclude il comunicato - non richiede ai contribuenti le coordinate bancarie o altri dati sensibili via e-mail, né tantomeno notifica avvisi d'accertamento attraverso questo mezzo".
Condividi su Facebook

Berlusconi complice dell'intolleranza leghista

Immigrazione: Tettamanzi, c'è bisogno di dialogo tra culture.
Dalle agenzie - Agi.

Guardando all'immigrazione, fenomeno sempre presente ma particolarmente vivo in questi giorni nei quali l'attenzione è concentrata sulla tragedia degli eritrei annegati nelle acque di Sicilia, il cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, torna a sottolineare l'esigenza e l'importanza del dialogo fra culture diverse. "Il nostro tempo - ha detto nel suo intervento al convegno delle biblioteche di cultura ebraica, cristiana e islamica del Mediterraneo - ha vero bisogno di solide basi di dialogo e di confronto tra esperienze e culture assai diverse tra loro, che vengono a contatto, sovente in modo brusco, a causa del movimento migratorio non sempre ordianto e in continua crescita". Una riflessione il cardinale di Mialno l'ha dedicata anche alla crisi economica (definita "travagliata temperie economica") che, ha sottolineato, "crea seri problemi anche di semplice sopravvivenza". Il difficile contesto economico affiancato da una crisi dei valori, avverte Tettamanzi, "rischia di accantonare la dimensione spirituale dell'uomo. L'emergenza educativa impone strategie e misure che reindirizzino i giovani fragili ed esposti a rischi seri". E la responsabilità di questo smarrimento è anche della religione. "Oggi - spiega - la cultura religiosa è ancora troppo inadeguata, e l'ignoranza o la scarsa cultura religiosa è una piaga in via di diffusione". Ecco perché anche le biblioteche religiose, che siano cristiane, ebraiche o islamiche, sono chiamate ad assumere un ruolo educativo e formativo. "Invito i bibliotecari - dice Tettamanzi - a sviluppare strategie educative comuni per formare uomini maturi capaci di dare il giusto peso ai valori materiali e spirituali, uomini che siano in grado di coltivare la propria essenza reale, rispettosi dei più alti valori di libertà, solidarietà e rispetto reciproco".
Intanto saranno iscritti nel registro degli indagati per il reato di immigrazione clandestina i cinque eritrei soccorsi giovedì a Lampedusa e unici sopravvissuti della traversata del Canale di Sicilia nel corso della quale, secondo il loro racconto, sono morte in mare almeno 73 persone. Lo ha confermato il procuratore della Repubblica di Agrigento, Renato Di Natale, che ha sottolineato come si tratti di un atto dovuto in attesa di verificare se i cinque eritrei abbiano o meno diritto allo status di rifugiato politico.
Arriva anche dall'Europa la risposta al ministro Frattini: l'Ue e la commissione europea "stanno facendo molto e con grande determinazione nell'area dell'immigrazione", come ha detto Dennis Abbott, uno portavoce della Commissione Ue. Ieri il ministro degli Esteri, Franco Frattini, aveva denunciato l'assenza dell'Europa di fronte al problema dell'immigrazione clandestina. La Commissione, ha spiegato il portavoce interpellato al telefono dall'Agi, "ha fatto, sta facendo e continuerà a fare tutto il possibile per migliorare la vita degli Stati membri e sta lavorando molto anche con i Paesi vicini". Il vicepresidente della Commissione Jacques Barrot, ha ricordato Abbott, nei mesi scorsi si è recato a Lampedusa, a Malta, nelle Canarie, in Grecia e altre missioni sono in programma in futuro, come quelle in Turchia e la Libia, previste in autunno.
È un problema, ha aggiunto Abbott, per il quale "la Commissione sta spendendo parecchi soldi. Una soluzione deve essere trovata. Bisogna mettere in piedi strumenti finanziari politici e diplomatici, per fermare le tragedie che abbiamo visto la scorsa settimana". Abbott ha inoltre ricordato che l'immigrazione è stata oggetto di un recente discussione tra Barrot e il ministro dell'Interno italiano, Roberto Maroni, e che il vicepresidente della Commissione Ue ha detto già altre volte che bisogna trovare una maniera "per meglio dividere il peso a livello europeo" dell'arrivo degli immigrati clandestini. "Non è facile - ha detto - perché bisogna sempre distinguere tra chi viene illegalmente e che no, nel rispetto non solo degli Stati membri dell'Ue ma anche dei paesi africani". Abbott ha ricordato infine che continua ad essere "attivissimo" il ruolo dell'Agenzia europa alle frontiere esterne (Frontex).
Di alcune perle sfornate calde dal ministro Luca Zaia, ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, ospite di Klaus Davi nel programma Klauscondicio, abbiamo detto in un post precedente. Qui raccogliamo quelle tragicamente notevoli sull'immigrazione: "La legge italiana sull'immigrazione e i respingimenti non sono un atto di razzismo, ma di civiltà. Maroni sta facendo un lavoro straordinario: prima della legge sull'immigrazione, varata da questo Governo, l'Italia era vista come una sorta di Eldorado dove scaricare clandestinamente immigrati destinati a ingrossare le fila delle criminalità. Ora il fenomeno è stato ampiamente ridimensionato. È evidente che tutti noi non possiamo che provare profondo dolore per quanto è accaduto, per le tragiche morti. Ma sulla legge non faremo marcia indietro".
Ma non è il solo Zaia ad esternare, c'è anche il ministro per la Semplificazione normativa Roberto Calderoli, in una conferenza stampa al meeting di Comunione e liberazione riguardo alle recenti polemiche tra il leader della Lega Umberto Bossi e i vescovi. "Credo che il nostro rapporto (con la Chiesa, ndr) sia assolutamente buono: abbiamo anticipato" al segretario di Stato, Angelo Bagnasco, "il contenuto del federalismo fiscale". "Rispetto al problema immigrazione - spiega Calderoli - credo che siamo su due piani molto diversi: è condivisibile l'approccio della Chiesa, che deve ispirarsi all'amore cristiano, dall'altra parte c'è la necessità che il Paese dia delle risposte e che non siano basate solo su questo, ma anche su risposte concrete. Il fatto di procedere su un indirizzo che vorrebbe l'accoglimento sembra, apparentemente, quello buono, ma di fatto non si fa il bene di quelle persone. Dobbiamo prendere atto che rappresentiamo la barriera sud della povertà e non possiamo farci carico" di accogliere un numero eccessivo di persone.
Già ieri il presidente dei deputati della Lega Nord, Roberto Cota aveva detto che la "politica dei respingimenti evita l'invasione e scongiura molte tragedie del mare". Una Lega "umanitari" insomma: "Senza una linea di rigore gli immigrati clandestini verrebbero tutti da noi e non saremmo in grado di gestirli" e nello stesso tempo "aumenterebbero le stragi nei mari. La politica dei respingimenti, tra l'altro, ha salvato molte vite".
Lapidario era stato ieri il segretario dell'Udc, Lorenzo Cesa: "Ogni giorno Bossi mortifica l'Italia con proposte ridicole e attacchi gratuiti, l'ultimo al Vaticano. È venuto il momento che Berlusconi metta un freno al suo alleato prediletto e dica da che parte sta: finora il suo silenzio è stato complice". E aveva aggiunto: "Anche quest'estate si è persa un'occasione per parlare dei problemi reali del Paese e si è preferito lasciare la scena al triste teatrino anti-italiano e xenofobo della Lega".
Condividi su Facebook

A destra si rimesta la brodaglia

Sempre sul tema delle regionali riprendiamo l'articolo di Luciano Nigro sull'edizione odierna di Repubblica.it, che racconta ciò che si prepara a destra per la scadenza elettorale.
Il Cavaliere vuole anticipare i tempi per sfruttare il ritardo del Pd alle prese con il congresso. Un patto con l'Udc per anticipare i democratici e per vincere le regionali del 2010.
Regionali, il premier corteggia l'Udc: "Alleati ovunque e gli offro il Piemonte".

Rassegna stampa.

Silvio Berlusconi vuole un patto con l'Udc per vincere le elezioni regionali del 2010. Perciò prepara la strategia di settembre per riagganciare Pier Ferdinando Casini. Operazione in due mosse quella che il Cavaliere sta mettendo a punto con i suoi più stretti collaboratori tra una dieta e una seduta di fitness a villa San Martino. Primo: anticipare i tempi sfruttando il ritardo del Pd paralizzato dalla scelta del segretario. Secondo: mettere sul piatto un'offerta certamente allettante per l'Udc, la presidenza del Piemonte a Michele Vietti ed eventualmente in un'altra regione pesante del Sud.
"Se i centristi accettassero un accordo nazionale per le regionali, potremmo concedere la presidenza del Piemonte o della Puglia", ha confidato il Cavaliere ai consiglieri che lo hanno sentito in questi giorni ad Arcore. Quello che conta, per Berlusconi, è un patto a 360 gradi con Casini per andare alle urne in condizioni di netto vantaggio. E per sfruttare la crisi interna del Pd il premier vuole le elezioni il prima possibile, nell'ultima domenica di marzo, il 28. Votare i primi giorni di primavera, ha spiegato Berlusconi ai suoi, oltre a rispettare i termini del mandato di 5 anni (nel 2005 si votò il 4 aprile) "permetterebbe di cogliere impreparato il partito democratico".
Una strategia che ha anche un obiettivo non secondario, frenare l'irruenza della Lega Nord nel pieno di una campagna d'estate aggressiva, con Umberto Bossi che non fa mistero di aspettarsi molto ("Penso che Berlusconi ci darà diverse regioni"). Anche il Cavaliere vuole l'accordo con il Carroccio, naturalmente. Ma alla trattativa intende andare da posizioni di forza. Il confronto a tutto campo con l'Udc è dunque un passaggio obbligato. E non solo perché sono in bilico diverse regioni (Lazio, Campania, Puglia...) dove i centristi potrebbero rivelarsi l'ago della bilancia.
Non sono mancati gli esploratori in questo torrido agosto che hanno lanciato messaggi ai centristi. Raffaele Fitto ha visto Casini a Otranto e Alimini nella sua Puglia, a due passi da Maglie un tempo collegio di elezione del leader dell'Udc. Avances hanno avuto per protagonisti pure Sandro Bondi, Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello. E i centristi hanno risposto con qualche segnale di disponibilità. In Puglia, per esempio, il leader della Vela e dello Scudo Crociato ha detto che non potrebbe sostenere un candidato come Nichi Vendola. Ma Casini prende tempo con i suoi corteggiatori sia per "non legarsi le mani" sia per vedere che cosa succederà al congresso del Pd. Così dagli esploratori e dal partito del Sud è partito l'appello ad Arcore: bisogna bruciare le tappe e mettere l'Udc di fronte a un'offerta che non può rifiutare.
E l'omaggio che il Cavaliere ha in mente per riannodare il dialogo con l'ex "amico Pier" è il Piemonte. Un cadeau da consegnare già in settembre. Perché proprio il Piemonte? Per riequilibrare i pesi al Nord, per cominciare, con la Lombardia a Formigoni, il Veneto al Carroccio e il Piemonte a un moderato come Vietti. A Torino e dintorni, del resto, i sondaggi non sono per ora incoraggianti: né un uomo del Pdl, né il leghista Roberto Cota che si scalda da mesi a bordo campo sembrano in grado di battere Mercedes Bresso. Del resto alla provincia di Torino, appena due mesi fa, l'Udc ha spianato la strada alla vittoria del presidente Antonio Saitta, Pd, con il 57,4% dei voti. E i colonnelli del Pdl che potrebbero aspirare all'incarico, come il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto e il vicecapogruppo alla Camera e numero due dell'Anci Osvaldo Napoli, non convincono fino in fondo il presidente del Consiglio.
Ecco allora la carta che Berlusconi si prepara a calare per sparigliare il gioco. Vietti in Piemonte per vincere, portare Casini dalla sua parte e provare a contenere lo straripante Senatùr.
Condividi su Facebook

La pandemia della demenza politica dilaga

Siamo ancora lontani dalle elezioni regionali ma la malattia di cui soffre la Lega Nord mostra già tutti i sintomi più allarmanti. È la volta del ministro Zaia, come ci racconta un articolo di Repubblica.it.
Il ministro Zaia rilancia i temi leghisti che hanno animato la polemica estiva.
E su 'Va Pensiero' dice: "In campo potrebbe sostituire l'inno di Mameli".

"Maglie calciatori con stemmi locali. Ma anche tg regionali in dialetto".
I giornalisti Rai: "Meglio un tg in inglese".
Rassegna stampa.

La Lega insiste sulle questioni che hanno alimentato le polemiche estive: la valorizzazione dei dialetti, il cambiamento di inno, l'utilizzo delle bandiere regionali o locali. E lo fa, stavolta, per bocca del ministro delle Politiche agricole Luca Zaia. Che comincia con un discorso: "Molte realtà come Venezia, Perugia e Palermo lo fanno già - dichiara - ma vorrei che anche i grandi club accogliessero la mia proposta di cucire sulle magliette i simboli della regione o della provincia o della città, a scelta. Sarebbe un modo molto popolare di far conoscere gli stendardi della cultura locale".
L'appello alle squadre viene lanciato nel corso di un'intervista web al programma Klauscondicio. "Tengo a precisare che l'articolo 114 della Costituzione recita che la Repubblica è costituita da Stato, Regioni, Province e Comuni - prosegue Zaia - esiste una sentenza della Corte costituzionale che esorta le regioni a dotarsi di un simbolo e i simboli non nascono dal nulla, o dal marketing, bensì sono frutto della storia di una comunità. Quindi, se le magliette si fregiassero di questi simboli, sarebbe un momento di grande visibilità e identificazione per la comunità locale".
Alla domanda se sia contrario a sostituire l'inno con il 'Va pensiero' prima delle partite, il ministro poi risponde: "Non lo sono. Il 'Va' pensiero' era cantato anche dai patrioti, quindi...".
E Zaia non si lascia nemmeno sfuggire l'occasione di tornare sul tema del dialetto. "Un'edizione del tg regionale in dialetto ci starebbe bene - spiega - magari non in sostituzione delle edizioni già esistenti, ma una aggiuntiva. Non vedo nulla di sacrilego nel fatto che le notizie possano essere comunicate nell'idioma regionale. Potrebbe essere un buon inizio per restituire RaiTre al suo progetto editoriale originale".
Le reazioni. "Un'edizione del Tgr in dialetto? Fermo restando che le priorità sono altre, mi sembrerebbe più opportuna semmai un'edizione di un Tg in inglese per favorire una piena cittadinanza europea dei nostri giovani". Così il segretario dell'Usigrai Carlo Verna ha commentato la proposta del ministro Zaia. "Le tradizioni dei dialetti non si conservano alimentando la babele. Trovo uno scempio - sottolinea - la politica che guarda al passato prima che al futuro". Parole polemiche anche dalle opposizioni. ''I tg regionali rappresentano il
fiore all'occhiello dell'informazione Rai. Una informazione premiata dagli ascolti che ha il merito, soprattutto dopo l'esordio di 'Buongiorno Regione', di continuare ad essere un veicolo fondamentale dello stesso pagamento del canone", sostiene Giorgio Merlo, vicepresidente della Vigilanza Rai. "Se ora il ministro Zaia pensa di buttarla in caciara trasformando i tg regionali in una sorta di bollettino informativo in dialetto ha trovato il modo per affossare definitivamente anche quella grande pagina di informazione pubblica regionale". Anche l'Idv sul piede di guerra: ''Da Zaia le solite aberranti dichiarazioni", commenta Felice Belisario, presidente dei senatori dell'Italia dei Valori. "L'obiettivo dichiarato della Lega è di scardinare l'unità nazionale''.
Condividi su Facebook

Oriazi e Curiazi

Il Pd verso il congresso.
Speciale, [15].
Oggi su l'Unità.it un intervista a Piero Fassino raccolta da Maria Zegarelli.
Fassino: "Partito forte? Bersani non ha l'esclusiva..."
Rassegna stampa.

"Vorrei che il dibattito politico di queste settimane fugasse l’equivoco secondo cui l’unico modo per fare un partito forte e radicato è che il segretario sia Bersani. Ho diretto per 7 anni un partito che era al collasso, l’ho ricostruito, con me alla guida ha vinto tutte le elezioni, l’ho traghettato nel Pd. Se oggi sostengo Franceschini è chiaro che è proprio perché ho a cuore un partito vero".
Piero Fassino, festa pre-congressuale, lei come se l’aspetta il dibattito?
«Genova è la più importante di 3500 feste in tutto il Paese, che è il più grande momento di contatto dell’opinione pubblica italiana con la politica. E quest’anno assumono un significato particolare perché interagiscono con il congresso. I grandi temi sia delle feste che del congresso sono due: la crisi del paese e le proposte del Pd per affrontarla, partendo dalla consapevolezza che il governo è inadeguato a mettere in campo le strategie necessarie. Il nostro compito è anche di indicare una strada. Il congresso serve a questo».
Non c’è il rischio che invece il Pd appaia al paese come un partito chiuso in un dibattito interno?
«Noi parliamo di politica e dei problemi reali del Paese, non è colpa dei dirigenti Pd se i media danno una rappresentazione diversa. Capisco che per esigenze mediatiche ai giornali piace molto di più rappresentare il congresso come un continuo rincorrersi tra Orazi e Curiazi, ma non è così. La politica è la capacità di esaminare i problemi e costruire le soluzioni, trovando anche le sintesi necessarie. Il congresso sarà tanto più proficuo se sarà un confronto vero e non una contrapposizione di piattaforme blindate. E anzi, io mi auguro che al termine del congresso su molti punti si possa arrivare a posizioni di sintesi che vadano oltre le singole mozioni».
Il suo appoggio a Franceschini anziché a Bersani, come nasce?
«Si fonda su tre motivi: Franceschini ha iniziato il suo lavoro come segretario sei mesi fa, un tempo troppo breve per considerare esaurita l’esperienza di un leader e non credo faccia bene al Pd cambiare leader troppo spesso. In secondo luogo, in questi mesi ha diretto il partito in modo solido avendo grande attenzione all’unità del partito, gestendo fasi delicate, come la vicenda Englaro e la collocazione internazionale del Pd, facendo scelte chiare. Infine, noi abbiamo voluto creare un Pd dove si potessero incontrare provenienze, culture e storie diverse, che si fondessero intorno a un progetto. Confermare Franceschini è la scelta più coerente con questo progetto».
Mescolanza riuscita?
«Quando nel 2007 feci la scelta di tenere uniti tutti i Ds nella candidatura di Veltroni qualcuno ci vide il riflesso dell’antico mito comunista dell’unità. In realtà quella era la migliore condizione per far nascere bene il Pd, senza lacerazioni. Oggi scelgo Franceschini perché due anni dopo la priorità, invece, è di non interrompere il rimescolamento delle culture».
La Lega attacca i valori fondanti dell’Unità d’Italia. C’è un pericolo reale?
«Siamo al paradosso: mentre stiamo per celebrare un secolo e mezzo di storia unitaria esplodono in modo acuto e in termini centrifughi, la questione settentrionale e la sempre irrisolta questione meridionale. Uno dei fattori di crisi di questi anni è l’indebolimento del senso di appartenenza comune a una stessa nazione. Credo che abbiano influito tante ragioni, sicuramente anche un certo modo di governare della destra che ha frammentato i valori fondanti per la vita di una nazione, ha depresso l’etica pubblica e lo spirito civico».
Cicchitto vi accusa di antiberlusconismo infantile, per la battuta su i festini del premier.
«Le battute sono battute perché mordenti e irriverenti. Se noi avessimo dovuto offenderci per tutte le volte che Berlusconi ha parlato di noi in termini pesanti e non ironici, non avremmo dovuto neanche prendere un caffè con gli esponenti del Pdl. I ministri vengano alla nostra festa, li accoglieremo come abbiamo sempre fatto: con rispetto e ascoltando le loro opinioni».
Ma lo scandalo delle escort è o no un problema politico?
«Quello che è accaduto è sotto gli occhi di tutti. Gli elettori alle europee hanno già dato la loro prima sanzione: il 42% dei voti che il premier si aspettava alla vigilia non ci sono stati e anzi ha preso due punti in meno del 2008».
(15 - continua)
Condividi su Facebook

Dal Manzanarre al Reno

Il Pd verso il congresso.
Speciale, [14].
Franceschini sceglie il suo slogan: Liberiamo il futuro.

Dario Franceschini ha scelto il suo slogan per la campagna elettorale in vista del congresso. «Liberiamo il futuro» è la parola-chiave che, a quanto si apprende, il segretario ha scelto, dopo una consultazione tra fedelissimi e supporter, per i manifesti e le iniziative della sua mozione. Ce lo dice l'Unità.it. A differenza degli altri candidati Pier Luigi Bersani e Ignazio Marino, Franceschini si è preso la pausa estiva per decidere il suo slogan attraverso un sondaggio, via sms.
I dirigenti che lo sostengono al congresso dirigenti hanno così selezionato lo slogan, a loro parere, migliore in vista della ripresa del dibattito interno, che entrerà nel vivo domani con la presenza di Franceschini alla festa del Pd a Genova.

Dal quotidiano Liberazione riprendiamo invece un articolo di Ettore Colombo di qualche giorno fa.
Corteggiato da Bossi, Bondi ma anche Alemanno: pericoli e scivoloni del candidato segretario del Pd. Il Bersani che piace tanto a destra e che glissa sulle "gabbie salariali".
Rassegna stampa.

Hanno cominciato i cattolici, anche se di una specie particolare, quella che sa fiutare l'aria che tira, oltre che sa stare al mondo, invitandolo - e in tempi non sospetti - al Meeting dell'Amicizia dei Popoli di Rimini (alias, l'annuale "festa" di Cl, quella che - ogni seconda metà d'agosto che Domine Iddio manda sulla Terra - segna per tutti, politici e non, il ritorno all'opre, e cioè alla Politica), per giunta in qualità di ospite d'onore, o quasi, visto che dialogherà addirittura con il governatore di BankItalia Mario Draghi più molti altri illustri. Ma nessuna sorpresa, almeno in questo caso: "Piergigi" non perde un Meeting da quando rivestiva i panni di governatore (anche se ai tempi si chiamavano ancora Presidenti) dell'Emilia-Romagna, ha un feeling particolare, con i ciellini, al punto da essere stato da loro definito, sempre in tempi non sospetti, un "comunista ciellino" (e non, si badi, un "catto-comunista", categoria dello spirito che i ciellini medesimi aborrono in sommo grado). Senza dire del fatto che, il medesimo Pierluigi, si è laureato - temporibus illis - con tesi sul "Concetto di Grazia da Gregorio magno a San Tommaso d'Aquino", titolo che aveva (ed ha) il sapore del miele, al sensibile palato ciellino, e idea che è valsa al Pierluigi, un paio di Meeting fa, un invito davvero d'eccezione: commentare don Giussani, padre fondatore e indimenticata guida spirituale di Cl, nell'anniversario della morte - a cui funerali, peraltro, il medesimo sedeva ai primi banchi, assieme al suo vice, quell'Enrico Letta anca lù ospite fisso, del Meeting.
Poi, però, ci si è messo di mezzo il leader della Lega in persona, quell'Umberto Bossi che sarà anche un po' opaco, a causa del brutto coccolone subito, ma che ancora non s'è rincoglionito per niente, quando si tratta di "fiutare" la preda, o il cavallo vincente. Bossi che, papale papale, ha detto, con tono secco e grave: «Meglio vinca Bersani». Infine, buoni ultimi, si sono accodati i numeri due e tre del Popolo (ex Casa) delle Libertà, i vari Bondi, Cicchitto, Verdini - nomi che ogni buon democratico, al solo sentirli, mette mano alla fondina della pistola e, potendo, spara - per non dire dei cojones dell'An che fu, alla Gasparri: «E quant'è bravo Bersani, e com'è meglio se vince Bersani», e via salmodiando di questo passo. Nemmeno il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, se l'è sentita, di tirarsi indietro, sul punto, e - pur non richiesto - ha detto anche lui la sua: «Bersani sì che è un avversario leale».
Insomma, una panacea, una silloge, un'orgia (politicamente parlando, s'intende) di commenti, e tutti tendenti al bello e al positivo. "Ah, se fosse Bersani, il segretario del Pd, allora sì che si potrebbe davvero "dialogare", con l'opposizione". E, "macari", come direbbe un commissario Montalbano in vena di analisi, "aprire una bella stagione di riforme, quelle che ci vogliono davvero, per questo nostro, povero, Paese". Mandando definitivamente in soffitta, cioè, l'opposizione pregiudiziale e pregiudizievole, alla Di Pietro - contadino di Montenero di cui, peraltro, proprio Bersani ha criticato modi e toni, elogiando invece l'Udc. Un'altra forza politica che non vede l'ora, a stare agli annali estivi, di "misurarsi" con un Bersani segretario. Manca, in definitiva, solo la parola del leader maximo, e cioè di "Papi", e poi la frittata sarebbe fatta, e cioè il "bacio della morte" definitivamente dato. Ve lo immaginate, un Berlusconi che, un giorno qualunque, tra un'inchiesta - a scoppio sicuro - della Procura di Bari e un avviso di garanzia - pur se a scoppio ritardato - di quella di Milano , facesse cadere lì, con qualche giornalista "amico" (ce ne sono, Dio solo sa se ce ne sono), una frase del tipo "Meglio Bersani"? Ecco, quello sì che sarebbe il disastro assoluto, la tempesta perfetta. Ora, essendo che noi - come i nostri 25 lettori sanno - tifiamo, pur se dall'esterno, spudoratamente per lui, Bersani, ci permettiamo - se ci è concesso - di dargli un piccolo consiglio. "Pierluì, guardate da li amichi", suona, codesto consiglio, parafrasando un indimenticabile Corrado Guzzanti che, facendo il verso al Rutelli che fu, quello candidato a premier nel 2001, diceva "A' Berlusco', t'avemo portato l'acqua co' ‘e recchie, a Berlusco', ricordate de li amichi!". Ecco, sinceramente, non vorremmo che s'avverasse, una cosa simile, e cioè un endorsement in piena regola, dopo quelli pronunciati a mezza bocca, da parte del leader della Pdl, nei confronti del candidato della mozione numero 1 al primo (vero) congresso del Pd, Pierluigi Bersani.
Ecco perché ci permettiamo di formularlo, il "consiglio". Interessato, interessatissimo. Consiglio che ci permettiamo anche di condire con qualche esortazione di prammatica, su alcuni argomenti, come si usa, tra persone civili.
Potrebbe, ad esempio, il candidato Bersani dire una parola chiara che sia una sul tema politico-sindacal-economico più controverso dell'estate, quello che riguarda non le "gabbie salariali" (Bersani, come ogni persona dotata di senno, del resto, si è già detto contrario) agitate dalla Lega Nord ma il vero attacco ai diritti dei lavoratori e del sindacato che esse stesse contengono, e cioè lo svellamento - o svuotamento o come dir si voglia - della forza e della validità del contratto nazionale di lavoro? In fondo, quella stessa Cgil che - compattamente, tanto per cambiare e tranne poche, rare, eccezioni - tifa Bersani, lo difende a spada tratta. Né abbiamo sentito dire, da Bersani, una parola che fosse una sul caso della Innse e sulla lotta dura, durissima, che quei lavoratori hanno (con sapienza, intelligenza e acume) messo in campo.
Potrebbe, inoltre, lo stesso Bersani dirci una parola chiara su un tema che - lo capiamo - è frusto e vetusto, quello del conflitto d'interessi, ma che pure c'è, in campo, dato che il premier è quello che è (e cioè l'uomo che controlla, fervidamente ricambiato, tutti e sei i principali canali e tg nazionali, Rai o Mediaset che siano) e, purtroppo, ahinoi, i tg e i direttori di giornali sono quelli che sono (degni emuli, cioè, di quei loro antenati che, quando c'era Lui, Benito Mussolini, apparecchiavano commenti e servizi da cinegiornale Luce o Eiar)?
Potrebbe, infine, il medesimo Bersani dire una parola netta e chiara ("Il tuo sì sia sì e il tuo no sia no", gridava inascoltato un signore palestinese vestito di stracci e con la barba un paio di millenni orsono) anche su un tema caro a ogni commentatore politico che si rispetti, e cioè se la parola "sinistra" ha ancora dignità di onore e onere, in questo Paese, all'alba del III Millennio, con tutti gli annessi e connessi che comporta?Ecco, vorremmo tanto delle risposte, a queste domande. Altrimenti? Beh, Bersani seguirà la sua strada, certo, magari perdendo qualche simpatia e qualche consenso (e qualche voto anche, temiamo, alle Primarie) alla sua sinistra, ma forse ne guadagnerà altrove (al centro? A "destra"? Mah, staremo a vedere), però a noi toccherà restare alla finestra, un tantinello orfani. Costretti, per fare "a capisse", come si dice a Roma, volenti o nolenti, a dover commentare il Fassino (che sta stabilmente con Franceschini, lo si sappia) di turno. Quello che "invita" la Cgil ad abbandonare quel vecchio arnese del contratto nazionale di lavoro, che vuole allearsi con qualsiasi forzista, aennino o leghista - solo un po' deluso da Papi, ma neanche troppo - gli capiti a tiro, in Veneto come in Puglia, in Trentino come in Sicilia, insomma "dal Manzanarre al Reno", che - bontà sua, di Fassino, cioè - non ama la sinistra e neppure i suoi antipatici orpelli. Quel Fassino, sempre detto "pe' capisse", che sentenziò - impunito - in un suo libro che Bettino Craxi aveva visto giusto e capito tutto mentre Enrico Berlinguer era un povero retrogado e plantigrado rimasto legato al Comintern. Ecco, non vorremmo trovarci a dover fare i conti con un Pd permeato dai "valori" di un Fassino qualunque. È chiedere troppo, Pierluigi?
(14 - continua)
Condividi su Facebook

Dietro il gioco scenari inediti inquietanti

Da "Undicietrenta" di Roberto Cotroneo su l'Unità.it riprendiamo questo commento sul gioco leghista cui abbiamo dato spazio nel blog ieri per denunciarne la stupidità e l'intolleranza.
Il gioco del clandestino annegato.
Rassegna stampa.

E adesso c'è pure il giochino su Facebook. Il figlio di Umberto Bossi, Renzo, che con l'amico Fabio Bietti, gestisce il profilo della Lega ha messo online un'applicazione che si chiama: "Rimbalza il clandestino". Vinci se riesci a rimandare indietro, buttandoli a mare, più clandestini possibile. Se non ci riesci abbastanza un "game over" ti dice di riprovare perché vuol dire che non sei ancora abbastanza leghista. Tutti gli utenti di Facebook si sono mobilitati e il gioco è stato cancellato. Ma è molto interessante quello che dice Fabio Bietti. Bietti ha dichiarato a un giornale di Varese: "ci rivolgiamo a un target giovane, ed è quindi inevitabile dover utilizzare un linguaggio semplificato e uno strumento, il gioco, in grado di attirare l'attenzione".
La frase è stupefacente. Il target giovane e il linguaggio semplificato. Quale sarebbe il linguaggio semplificato? L'idea di abbattere le zattere con i clandestini è un linguaggio semplificato? Semplificato da cosa? Se Bietti non si fosse rivolto a un target giovane che linguaggio si sarebbe usato? E in che senso si deve attirare l'attenzione con un gioco?
Dietro queste parole non c'è una boutade, o una ragazzata che potrebbe costare un rinvio a giudizio per istigazione all'odio razziale, ma c'è molto di più. C'è, e sto leggendo assai bene quelle parole, un progetto culturale e politico di stampo razzista. Una vera e propria educazione all'intolleranza, all'odio, al cinismo, all'esclusione del diverso. Per farlo si utilizza anche un giochino banale e sempliciotto, perché il giochino banale e sempliciotto attira, come dice Bietti, i giovani, o meglio, il target giovane. Il linguaggio semplificato vuole dire che l'idea di buttare a mare i clandestini ha, all'interno dela Lega, argomentazioni complesse e attente, che quasi sicuramente si ricollegano alla xenofobia e al razzismo di estrema destra europea. E il fatto che il gioco sia un veicolo per l'educazione all'odio razzista è il punto terminale di tutta questa vicenda.
Fossi nel ministro dell'Interno Roberto Maroni farei caso, con molta attenzione, alle parole di questo giovanotto che possono essere indicate come eversive, e lasciano intravedere scenari inediti piuttosto inquietanti. Ma questo giovanotto non appartiene allo stesso movimento e partito del ministro dell'Interno, assieme al figlio del fondatore della Lega Umberto Bossi? Già, la domanda vera è proprio questa...
Condividi su Facebook

Con la forza della ragione

Anniversario. Tutte le mosse del Vaticano per fermare la guerra.
Rassegna stampa - Avvenire di ieri, articolo di Antonio Airò.

Da Castelgandolfo il 24 agosto 1939, con un radiomessaggio, Pio XII si rivolgeva ai governanti e ai popoli di tutto il mondo con un caldo, accorato, sofferto appello. «È con la forza della ragione, non con quella delle armi, che la giustizia si fa strada. E gli imperi non fondati sulla giustizia non sono benedetti da Dio. La politica emancipata dalla morale tradisce quegli stessi che così la vogliono… Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra».
Nella sua voce – avrebbe scritto un settimanale cattolico, interpretando un comune sentimento – , si esprimeva «la voce della cristianità, anzi la voce stessa dell’umanità». Quella affermazione sintetica, sulla pace e sulla guerra, sarebbe diventata la cifra (quasi uno slogan) più volte ripresa in più occasioni di un pontificato difficile come era stato, nel corso della Grande Guerra, quella di «inutile strage» di Benedetto XV. Entrambe senza alcuna conseguenza positiva. Anzi sarebbero state accolte, per i due Papi, con disappunto, con protervia anche.
I governanti avrebbero continuato a tessere le loro strategie, i popoli a subire e a soffrire, la Chiesa a chiedere, inascoltata, che venissero battute le strade per arrivare a una pace duratura. Magari anche una pace di compromessi, di concessioni o rinunce reciproche, ma che per intanto facesse tacere le armi e consentisse di trovare soluzioni più autentiche e vere. Lo aveva ribadito papa Pacelli il 19 agosto ricevendo un nutrito pellegrinaggio di migliaia di veneti convenuti a Roma per ricordare i venticinque anni dalla morte di Pio X. «Fin dal primo giorno dal nostro pontificato abbiamo tentato e fatto quanto era nelle nostre forze per allontanare il pericolo della guerra e per cooperare al conseguimento di una solida pace fondata sulla giustizia e che salvaguardi la libertà e l’onore dei popoli… essendo consci di tutto quello che in questo campo dovevamo e dobbiamo ai figli della Chiesa cattolica e a tutta l’umanità».
Ma in quel 1939 che vide, il 2 marzo, l’elezione di Pio XII dopo la morte di Papa Ratti, l’Europa era inquieta divisa, sottosopra, segnata da regimi totalitari in Germania, in Unione sovietica e in Italia e da deboli democrazie occidentali. Le fragili speranze di una pace più consistente che si erano levate nel settembre del 1938 dopo la conferenza di Monaco tra Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia e nella quale Mussolini aveva svolto un ruolo, riconosciuto, da protagonista, si rivelavano facilmente eludibili. Il 13 marzo 1939 Hitler invadeva la Cecoslovacchia; pochi giorni dopo, il venerdì santo, l’Italia del Duce occupava l’Albania; a maggio Germania e Italia firmavano il «Patto d’acciaio», che avrebbe legato i due Paesi in modo indissolubile. Fino alla guerra. Intanto, tra Germania e Polonia esplodeva il contenzioso su Danzica e sul 'corridoio' rivendicato da Hitler.
Lo scontro vedeva di fronte due Paesi caratterizzati da una cospicua presenza di cattolici, divisi politicamente, e non solo. Mussolini ricevendo il gesuita padre Tacchi Venturi, spesso utilizzato come plenipotenziario dal Papa e dal Duce, gli dichiarava con cinico realismo: «La Germania non può illudersi di fare con la Polonia ciò che le è riuscito con gli altri senza spargimento di sangue. La Polonia resisterà; sarà sopraffatta dalla prevalente forza tedesca ed avremo il principio di una guerra europea». Il Duce escludeva per l’Italia un conflitto a breve termine. Tutto sarebbe dipeso da come si sarebbe evoluta la situazione internazionale. Ma era sicuro che il Führer l’avrebbe proclamata: «Scoppierà in agosto o anche prima».
In questo scenario apocalittico dell’uno contro tutti gli altri, con la Polonia sostenuta dalla Francia e dalla Gran Bretagna, l’Italia e la Germania legati dal Patto d’acciaio, con gli Stati Uniti interessati ma distanti e l’Unione sovietica di Stalin verso la quale si dirigevano i Paesi occidentali, la Santa Sede assumeva un’iniziativa diplomatica, 'segreta e discreta' per arrivare ad un incontro libero da pregiudiziali tra le cinque nazioni europee chiamate a verificare se esistevano le condizioni di un accordo in grado di ridurre le tensioni e salvare la pace. Come risulta dalla documentazione resa possibile dall’apertura degli archivi vaticani e non, i sondaggi tra i Paesi avrebbero rivelato tante assicurazioni di disponibilità, vari apprezzamenti e consensi ma anche riserve strumentali, risposte dilatorie, indifferenze, tentativi di tirare l’acqua al proprio mulino e trarne i maggiori vantaggi possibili. Tutto questo aveva finito con il creare, attorno alla proposta della Santa Sede, un vuoto di iniziative e non se ne era fatto nulla.
Per di più, il 23 agosto giungeva la notizia che a Mosca il ministro degli esteri sovietico, Molotov, e quello tedesco, von Ribbentrop, avevano firmato un patto di non aggressione, con in più un protocollo segreto che di fatto sacrificava la Polonia alle ambizioni dei due Paesi. Il radiomessaggio del 24 agosto diventava così l’ultimo appello del Papa alla pace. La Santa Sede affidava a padre Tacchi Venturi un estremo tentativo presso Mussolini. Il sostituto alla segreteria di Stato, Tardini, non ignorava che il Duce intendeva ricercare una soluzione sia pure minima per Danzica.
Bisognava interpellarlo. Il 29 agosto, il capo del governo consegnava al gesuita su un foglietto alcune indicazioni. Il giorno dopo, il cardinale segretario di Stato, Maglione, inviava tramite il nunzio a Varsavia, un messaggio per il governo di quel Paese che in parte si rifaceva alle parole di Mussolini. Ma tutto era ormai inutile. Il primo settembre 1939 Hitler invadeva la Polonia. Tre giorni dopo, a Tortona nel santuario della Madonna della Guardia, cuore della sua congregazione, don Orione si rivolgeva ai sacerdoti e ai seminaristi polacchi che si trovavano in quell’edificio per studiare dicendo loro: «Si apre il sipario di una tragedia di cui non possiamo prevedere le dimensioni… Ho fatto stendere la vostra bandiera sull’altare: passate e baciatela. Questo bacio sia come il bacio di Dio alla vostra patria: sia promessa che farete il vostro dovere di figli della Chiesa e di sudditi fedeli della vostra terra».
Condividi su Facebook

La Tia resta una tassa

Eugenio Fatigante su Avvenire di ieri ci dice che la Tia resta una tassa e non una tariffa. Qui da noi il problema non sussiste in quanto si paga ancora la Tarsu.
Tasse e famiglie.
Rifiuti, la contesa dell’Iva.

Rassegna stampa.

C’è una mina vagante per i conti di molti Comuni i­taliani (1.193 in tutto). Ma è anche una buona notizia (parzia­le, poi diremo perché) per circa 6-7 milioni di famiglie italiane, se non di più. Sono le conseguenze di uno sto­rico pronunciamento della Corte Costituzionale (passato un po’ in sor­dina) che, con una sentenza – la nu­mero 238 – depositata il 24 luglio scorso, ha sancito che la tariffa d’igiene ambientale ( Tia) applicata in molte parti d’Italia per la raccolta dei rifiuti urbani mantiene la natura pubblicistica della vecchia Tarsu. In altre parole: malgrado la trasfor­mazione, resta una tassa e non è u­na tariffa.
Quella che sembra una ste­rile disputa giuridica ha però un ef­fetto potenzialmente dirompente: in quanto tassa, su di essa non si può far pagare un’altra tassa come l’Iva, che invece viene chiesta ai cittadini. I quali, a questo punto, hanno dirit­to alla restituzione dell’Iva al 10% che hanno versato in più fino a ora. È difficile fare conteggi precisi, per­ché la tassa-tariffa varia da posto a posto. Per dare un’idea, comunque, una famiglia di 4 persone che abita a Roma una casa di 80 metri quadri paga sui 300 euro annui, di cui circa 28 di Iva che, di fatto, sono stati sottratti illegal­mente a questo nu­cleo-tipo. Il problema non si pone per il futuro, in quanto gli operatori che riscuotono la Tia si stanno già attrezzando per far rientrare nel co­sto globale chiesto al contribuente quel 10% d’Iva che non potranno più esigere in bolletta, come voce speci­fica. Per il passato, viceversa, la partita è aperta.
Per evitarla servirebbe un provvedimento legislativo che san­cisse un aumento retroattivo della Tia, ma è difficile che il governo se­gua questa via. Bisogna tuttavia fare attenzione a un paio di fattori. In pri­mo luogo, il diritto al rimborso vale solo per gli anni successivi alla tra­sformazione (non legale appunto, secondo la Consulta) in tariffa, in quanto è da allora che si fa pagare l’Iva. Nella Capitale, a esempio, la ta­riffa debuttò nel 2003, per cui è solo per gli ultimi 7 anni (2009 incluso) che si può chiedere questo arretra­to. Soltanto per circa mezzo milione d’italiani la richiesta può andare an­cora più indietro, fino al 1999. Inol­tre va da sé che per tentare questa strada è necessaria la prova del pa­gamento della Tia su cui è stata cal­colata la voce Iva.
Bisogna quindi a­ver conservato la ricevuta delle bol­lette pagate. Solo se sono state mes­se da parte, si può pensare di avvia­re la pratica per riavere il maltolto, presentando all’azienda comunale una richiesta scritta di rimborso del­l’Iva versata o rivolgendosi diretta­mente alla Commissione tributaria provinciale. Una via per ora un po’ farraginosa per il semplice cittadi­no, che altrimenti può rivolgersi a u­na associazione dei consumatori.
La più attiva finora in questo campo è il Codacons, che cura l’intera prati­ca se però ci si iscrive per due anni (un’iscrizione che costa 100 euro, quindi conviene valutare prima il rimborso cui si ha diritto). Altri con­sigliano invece gli utenti di mettere in mora il Comune (inviando una raccomandata A/R in cui si cita la sentenza), in attesa degli eventi. Bisogna infatti tenere presente che l’iter potrebbe durare qualche anno, a meno che la politica non decida di venire incontro al cittadino.
Prima di Ferragosto, a esempio, a Latina, città del Lazio, il locale assessore al Bilancio, Marco Gatto, è stato netto al riguardo: «Che la popolazione debba ottenere il rimborso del 10% è sicuro». Gatto ha però aggiunto che per questo si attende una circolare del ministero dell’Economia, dato che dovrebbe essere l’Agenzia delle Entrate, in prima battuta, a rimbor­sare quella quota di Iva alle società che gestiscono i servizi di raccolta e smaltimento rifiuti. La vicenda è an­cora agli inizi. E i cittadini devono armarsi di pazienza.
Condividi su Facebook

Avere la sfera di cristallo

Il Cittadino oggi pubblica una lunga lettera del nostro sindaco Giuseppe Sozzi nella quale si interroga ed interroga il nuovo presidente provinciale sul futuro dei rapporti tra Comuni e Provincia. È una lettera interessante anche in chiave locale perché permette congetture sui prossimi cinque anni di gestione dell'amministrazione.
Parola di sindaco. È insieme che si va lontano.
Rassegna stampa.

Caro direttore, dopo l’importante tornata elettorale che ha indubbiamente segnato una discontinuità politica ai vertici Istituzionali del nostro territorio, ci attendono alla ripresa delle attività a Settembre importanti appuntamenti e sfide dalle quali capiremo tutti quale corso prenderà la politica lodigiana post-voto. Da sindaco sono naturalmente interessato a capire quale ruolo vorrà giocare, in questo contesto, la nuova Amministrazione Provinciale. Preso atto dunque della discontinuità politica, che nessuno vuole mettere in dubbio, si tratta di capire in cosa essa si tradurrà in concreto.
Cinque anni fa, all’indomani della sua elezione a Presidente della Provincia Osvaldo Felissari insieme al Segretario della Camera di Commercio dr. Perotti lanciò un importante segnale al territorio ed in particolare ai Sindaci del Lodigiano; il segnale consisteva in una chiamata in campo delle Amministrazioni Comunali come primo motore per lo sviluppo economico sociale del Lodigiano. Si può pensarla in tanti modi ma quel segnale forte caratterizzò il quinquennio attivando importanti energie latenti che oggi sono in campo e possono servire contro la crisi economica.
Mi chiedo allora girando la domanda al Neo Presidente Foroni, resta valido oggi per la Provincia quel percorso? Se resta valido quali sono i luoghi e gli strumenti attorno ai quali radunare le forze per uscire assieme dalla crisi economica? Il Piano Strategico del Lodigiano che con tutti i suoi limiti è stato uno dei risultati di quello sforzo comune, continuerà ad essere la stella polare delle politiche territoriali oppure sarà ripensato o accantonato? Se in nome della discontinuità si deciderà di cambiare strada quale nuovo tracciato si intende percorrere e in quel percorso che ruolo si vuole assegnare alle Amministrazioni comunali?
Da quindici anni o meglio dalla nascita del Consorzio del Lodigiano primo embrione di un’autonomia territoriale acquisita nell’ormai lontano 1992 e concretizzata nel 1995 con la nascita della Provincia di Lodi, questo territorio ha vissuto stagioni politiche caratterizzate da una forte dibattito politico accompagnato però dalla capacità di trovare la condivisione sulle grandi scelte strategiche. Molti colleghi più esperti di me, ma credo Lei stesso direttore, che ne fu uno dei massimi artefici assieme ad altri, possono confermare come la sinergia e la ricerca della condivisione sono stati tratti caratteristici della politica istituzionale lodigiana, in fondo ne sono stati la vera forza.
All’interno di questo contesto la nuova Provincia è riuscita a divenire elemento indispensabile di coagulazione delle energie e delle forze territoriali ponendosi spesso come Ente super partes in grado di armonizzare le tensioni e le discrasie politico territoriali che pure anche recentemente (ricordo a tutti la lunga diatriba nata sulla costituzione del Consorzio Provinciale per i servizi alla persona) hanno agitato il nostro territorio; mi chiedo e giro la domanda al Neo Presidente Foroni, la nuova Amministrazione Provinciale continuerà nei fatti su questo percorso? Se invece deciderà in nome di una legittima discontinuità politica di cambiare rotta quali saranno allora i luoghi delle compensazioni possibili, le conferenze dei Sindaci? oppure una A.C.L. che mi auguro rinnovata e con funzioni e scopi diversi da quelli, pur egregi, svolti sinora o che altro? Oppure in nome della Discontinuità si pensa di fare a meno dei percorsi defatiganti ma fruttuosi della condivisione per percorrere la strada più veloce ma non meno pericolosa della decisione a maggioranza o del fai da te?
Riguardo a questo discorso vorrei anche mettere in guardia dal “fai da te”, soprattutto in materie delicate come la sicurezza sociale; come ho avuto modo di scrivere e dire qualche settimana fa è giunto il tempo di pensare ad un coordinamento vero dei Sindaci e degli organismi sovracomunali su questo tema delicato in modo da costruire politiche omogenee in grado di dare una risposta Lodigiana al problema sicurezza. Del resto tutti abbiamo a cuore la sicurezza dei nostri concittadini, nessuno di Noi può pensare di avere titoli o patenti speciali in questo campo e pensare di risolverlo spostandolo di qualche metro all’interno del territorio Lodigiano non aiuta a risolverlo ma poco elegantemente istituzionalmente parlando, lo scarica semplicemente nel cortile del vicino di casa che magari ha meno mezzi e risorse per affrontarlo.
Caro direttore, come avrà capito personalmente spero che si opti, alla ripresa autunnale e dopo le giuste euforie postvoto, per la continuazione di percorsi condivisi seguendo il detto di un vecchio saggio che metteva in guardia dal “fai da te” perché da soli si va più forte ma è solo insieme che si va lontano. In ogni caso ho ancora nelle orecchie il discorso di insediamento del Presidente Foroni del quale da Sindaco ho apprezzato alcuni passaggi, tra i quali quello di voler essere il Presidente di tutti e l’uomo del dialogo pur nella fermezza dei propri programmi e delle proprie convinzioni; bene, ora però dopo la pausa estiva ai Sindaci servono risposte concrete e linee programmatiche certe sulle quali confrontarsi ed agire, per il bene comune dei lodigiani.
Condividi su Facebook

Se la realtà quotidiana è un abisso senza fine

Corno d’Africa. Eritrea, giovani in fuga da uno Stato-prigione «Là c’è solo l’inferno». Finiscono in carcere anche i genitori di chi va all’estero.
Non c’è opposizione politica e nemmeno stampa libera.

Rassegna stampa - Avvenire di ieri, articolo di Paolo M. Alfieri.

Se sei giovane, sei sveglio, hai stu­diato e vuoi farti valere nel tuo Paese e nel mondo nascere in E­ritrea potrebbe precluderti, e di mol­to, qualsiasi sogno di gloria. Il tuo fu­turo, all’Asmara come a Teseney, a Ke­ren come a Massaua, è nelle mani di qualcun altro. Appena maggiorenne sarai mandato a vivere con altri 400mi­la poveracci in tende soffocanti e sen­za luce, uomini e donne insieme nei campi al confine con l’Etiopia. Dieci, quindici, vent’anni, i migliori della tua vita a guardare il deserto. A difendere pietraie e sterpaglie in attesa di una guerra che forse nemmeno ritornerà. Ostaggio di un uomo, il presidente, che né tu né tuo padre avete mai votato ed eletto. Centri educativo-militari, li chiamano. Di fatto una deportazione di massa.
Prigionieri in casa loro, gli eritrei. La carta d’identità non basta nemmeno per spostarsi all’interno del Paese. O­vunque serve un permesso di viaggio da mostrare ai posti di blocco: il go­verno vuole sapere dove ti trovi. Per andare all’estero bisogna avere alme­no 50 anni (40 per le donne). I giova­ni tutti dentro, coscritti dal servizio ci­vile o militare, sia mai riprendesse u­na scaramuccia con Addis Abeba. E l’i­dea del conflitto permanente giustifi­ca anche il presidente Issaias Afeworki dalla mancata approvazione della Co­stituzione, pronta dal 1997 e mai pro­mulgata.
Il dissenso interno, manco a dirlo, non esiste. I media non pervenuti. La stam­pa privata è abolita dal 2001, restano gli agit prop di Stato: un quotidiano in tigrino, un settimanale in inglese, una stazione radio e due canali Tv. Tra­smettono in lingue diverse, ma il con­tenuto è identico, partorito dall’Agen­zia eritrea di notizie di proprietà del governo.
Negozi, magazzini e botteghe sono spesso vuoti. Le forti limitazioni alla proprietà privata non hanno avuto e­siti felici. In ogni caso, se vuoi aprir bottega, devi entrare nella Corpora­zione del Mar Rosso, la sezione eco­nomica del partito. L’unico che c’è, na­turalmente. Fronte Popolare per la De­mocrazia e Giustizia. Ma democrazia, qui, non ce n’è. E la giustizia è fatta di torture e lavori forzati, di incarcerazioni dettate da motivazioni politiche o religiose, di arresti che quasi masi sfociano in processo.
Finiscono in carcere anche i genitori di quei figli che, per disperazione o pazzia, fuggono all’estero. Prima, però, c’è da pagare una multa di 2.500 dol­lari. Una fortuna. Lo stipendio medio, per chi si aggiudica un posto nell’in­tricata e asfissiante burocrazia di Sta­to, è di 30 dollari al mese. Agli altri spes­so non resta altro che tentare di cava­re qualcosa da terreni sempre più im­produttivi. I più fortunati campano grazie alle rimesse dei parenti all’e­stero.
Il più fortunato di tutti è lo Sta­to, che dalle tasse su quelle rimesse trae linfa vitale per i suoi investimen­ti in armi (oltre il 20% del Pil).
Dal 2002 anche le religione è nel miri­no del regime. Hanno diritto di esiste­re solo ortodossi, musulmani sunniti, cattolici e membri della chiesa evan­gelica di Eritrea. Da un paio d’anni, però, Ong occidentali e religiosi cri­stiani sono sempre meno benvenuti: una dozzina di suore e sacerdoti – metà dei quali italiani – è già stata e­spulsa dal Paese. Un tributo – sosten­gono gli oppositori – che il regime sta pagando per gli aiuti succhiati dagli Stati islamici del Golfo, Arabia Saudi­ta in testa. Il tutto mentre è sempre più solido il legame del governo con la guerriglia fondamentalista somala.
Anche a rischio della vita se sei giova­ne e vuoi respirare un po’ di libertà da questo Stato-prigione prima o poi cer­chi di scappare. Dell’Europa, forse, hai sentito parlare a scuola. Dell’Italia, di un’Italia che non c’è più, dai racconti di tuo nonno. La fuga è il primo pas­so. Le guardie, le spie di regime, i traf­ficanti non ti fanno paura se la realtà quotidiana è un abisso senza fine.
Condividi su Facebook

Anche il leone deve avere chi racconta la sua storia

Da Avvenire di ieri riprendiamo l'editoriale di Giulio Albanese.
Come guardarla, come parlarne.
Il vero «nero» d’Africa è il pregiudizio.

Rassegna stampa.

«Mettere le cose nero su bianco» recita un’espressione ricorrente nel nostro discettare che forse potrebbe aiutarci a ristabilire il giusto equilibro culturale con l’Africa, almeno dal punto di vista lessicale. Come rileva il congolese Jean Leonard Touadi, unico deputato 'afro' a sedere nel nostro Parlamento, si tratta del solo caso, nella lingua italiana, dove il termine 'nero' assume una valenza positiva. D’altronde, nell’immaginario collettivo nostrano, l’Africa è sempre associata a situazioni catastrofiche, ad emergenze umanitarie e più in generale a ogni sorta d’accidente.
Basta dare un’occhiata ai notiziari televisivi per rendersi conto che, a parte le ricorrenti tragedie degli immigrati irregolari collocate nella 'cronaca nera', la simbologia cromatica in uso tra i giornalisti del Bel Paese è infarcita di 'giornate nere', poco importa se per colpa del crollo delle Borse o del traffico metropolitano e autostradale. Sta di fatto che la nostra gente è portata istintivamente a pensare che l’Africa sia davvero la metafora dei mali del mondo, per colpa soprattutto dei propri abitanti in balìa di guerre tribali istigate da famigerate oligarchie locali, violente per non dire prelogiche o primitive. La verità è che sappiamo poco o niente di quello che succede da quelle parti, per esempio in Somalia o nel Darfur, per non parlare dei rigurgiti di jihadismo nel settentrione della Nigeria. Chi, poi, tra gli analisti di questioni economiche è capace di spiegare ai lettori gli effetti della crisi finanziara sulla debolissima economia reale di un continente il cui computo complessivo del Pil è di poco superiore a quello della Spagna? E se certi mass media – invece d’indugiare sulle vicende sentimentali di George Clooney o tediare l’audience con servizi ripetitivi e quanto mai stucchevoli su come gli italiani trascorrono il ferragosto – spiegassero quali sono gli effetti della guerra fredda tra Etiopia ed Eritrea, forse non si resterebbe sorpresi di fronte all’ennesima mattanza sulle rotte della disperazione e di fronte alla morte di fame, di sete e di onde di 73 eritrei raccontata dai cinque superstiti soccorsi giovedì scorso a Lampedusa.
Dal Corno d’Africa sempre in subbuglio al rebus dei Grandi Laghi, il continente sta pagando a caro prezzo gli errori commessi certamente dalle oligarchie locali, ma anche le ingerenze dei potentati stranieri che sfruttano con ingordigia inaudita, peraltro fomentando a dismisura la corruzione, le smisurate ricchezze del sottosuolo, fonti energetiche in primis.
Ecco allora perché l’informazione rappresenta la prima forma di solidarietà nelle relazioni tra i popoli «con l’intento di decodificare – come scrive ancora Touadi – le scorie della storia coloniale e post coloniale, quei sedimenti d’incomprensione, quei misunderstanding di senso e di significato che hanno fuorviato per secoli i rapporti tra Europa e Africa».
Dobbiamo in sostanza smetterla di elaborare ciascuno separatamente un sapere prevaricante sull’altro che non tenga conto, nel 'villaggio globale', dell’incontro in quanto manifestazione dell’alterità.
A questo proposito è bene rammentare che nel corso del suo viaggio apostolico in Camerun e Angola, Benedetto XVI ha ricordato che vi sono degli aspetti davvero vitali nelle culture africane: il senso religioso, l’amore per la vita e l’attaccamento alla famiglia. Tutte dimensioni che ci possono aiutare a comprende quello che non si stancano mai di raccontare con passione e determinazione i nostri missionari e volontari: che la cooperazione tra Nord e Sud non consiste solo nel dare, ma anche nel saper ricevere.
«Anche il leone deve avere chi racconta la sua storia. Non solo il cacciatore», scrive con schiettezza e lucidità lo scrittore nigeriano Chinua Achebe. Un detto ancestrale che evoca l’istanza di guardare all’Africa senza pregiudizi e stereotipi, andando al di là di una visione paternalistica, ammantata di carità pelosa. Sì perché l’Africa non è povera, ma semmai impoverita; non chiede beneficenza da parte di noi ricchi Epuloni, semmai invoca la partecipazione al 'bene comune' dei popoli. La sfida dunque tra noi e loro è innanzitutto e soprattutto culturale, per superare tout court la tentazione del pregiudizio.
Condividi su Facebook

I primi giorni di Ramadan a Lodi

Sashouk prevede affluenza in aumento nei prossimi giorni «e spero che a Casale trovino una soluzione».
In quattrocento per pregare Allah.
Il Ramadan si apre senza disagi ma si attendono altri arrivi.

Rassegna stampa - Matteo Brunello, Il Cittadino di oggi.

Già oltre 400 fedeli hanno riempito la moschea per il Ramadan: con l’inizio del mese sacro per i musulmani, a Lodi si sono dati appuntamenti in moltissimi per la preghiera. Uno vicino all’altro, all’interno del centro culturale islamico “Al Fath”, sabato sera hanno recitato le prime invocazioni guidate dall’imam. Un rito iniziato dopo le ore 22 per concludersi verso le 23.30, mentre all’interno luogo di culto di via Lodivecchio pochi erano gli spazi liberi rimasti. «Le cerimonie sono partite con il venerdì sera, che è stata una sorta di preparazione al Ramadan - spiega Sabri Sashouk, responsabile della comunità islamica di Lodi - in quell’occasione eravamo circa 150. Mentre con il giorno successivo, data d’inizio ufficiale del mese di raccoglimento, complessivamente eravamo più di 400, e questi numeri sono destinati a crescere, visto che solitamente la frequenza alla preghiera aumenta con il passare dei giorni, fino al culmine nella festa conclusiva».
Intanto il referente della comunità musulmana lodigiana ha voluto rassicurare, dicendo che per ora non esistono problemi di sovraffollamento. Ha auspicato che per i fedeli della Bassa si trovi una soluzione di concerto con l’amministrazione comunale di Casale, senza “intasare” il capoluogo. «Ovviamente se vengono qui non posso mandarli via, ho il dovere di assicurare il culto e sarei costretto ad attrezzare l’area per accoglierli tutti, quindi con tappetini fuori dalla moschea e altoparlanti, per consentire a tutti di ascoltare l’imam che è arrivato dall’Egitto», riprende Sabri Sashouk. Per quanto riguarda invece gli islamici della zona vicino a Sant’Angelo, che avevano optato per un tendone allestito nel comune di Vidardo e ora potrebbero dover trovare un’altra soluzione per la preghiera, il capo della moschea di Lodi ha affermato che in questo caso non ci sono difficoltà: «Per ora mi risulta che stiano continuando ad andare a Vidardo, e comunque se lì non ci saranno più posti, non credo ci siano grossi problemi, visto che già molti di loro arrivano al nostro centro nel capoluogo. Lo facevano in passato e continuano a farlo adesso». Infine con la giornata di sabato è partito il periodo per i credenti dell’Islam (tra cui molti abitanti del territorio) che impone una rigida disciplina: in primo luogo il digiuno, da seguire dall’alba al tramonto, che consiste nell’astenersi dal bere, fumare, mangiare, allo scopo di purificarsi; poi la preghiera, la meditazione e l’attività di beneficenza nei confronti dei più poveri.
Condividi su Facebook

Non passeranno i nuovi lanzichenecchi

Per il partigiano Alboni «il loro sacrificio è una delle pagine più esaltanti della Resistenza lodigiana».
L’Anpi: «I razzisti non passeranno».
Ricordati i Martiri del Poligono, «Italia libera grazie a loro».
Rassegna stampa - Matteo Brunello, Il Cittadino di oggi.

È dalle parole appassionate del presidente dell’Anpi di Lodi, Edgardo Alboni che arriva il ricordo più emozionante della tragedia dei Martiri del poligono. Una ricostruzione nel 65esimo anniversario dell’eccidio, che è stata espressa dall’ex capo partigiano: «Credo di non correre il pericolo della retorica celebrativa, se ripasso con sentimento di dolore e insieme di orgoglio patriottico, una delle pagine più esaltanti della storia lodigiana di Resistenza antifascista», ha osservato nel suo discorso sotto i portici del Broletto, sabato pomeriggio. Momento conclusivo di una cerimonia, iniziata con la posa delle corone d’alloro presso il poligono di tiro di viale Milano, per non dimenticare l’uccisione il 22 agosto 1944 di Oreste Garati, Ludovico Guarnieri, Ettore Madè, Franco Moretti e Giancarlo Sabbioni. E al contempo conservare la memoria della morte di altri compatrioti che hanno subito la stessa sorte qualche mese più tardi (il 31 dicembre): Pietro Biancardi, Giuseppe Frigoli, Paolo Sigi, Ferdinando Zaninelli, Marcello De Vocatis. E a questi si aggiunge il ricordo di Rosolino Ferrari, fucilato l’8 marzo 1945. Per tutti loro è stata celebrata una Messa a suffragio presieduta dal vescovo di Lodi, monsignor Giuseppe Merisi e concelebrata da monsignor Giuseppe Cremascoli, presso la chiesa dell’Incoronata. Un invito alla «preghiera, alla riflessione e per un rinnovato impegno», ha espresso il pastore della diocesi, perché la nostra vita riscopra il senso di «responsabilità della testimonianza», e le nuove generazioni siano formate alla scuola del nostro passato. Poi, alla presenza di diverse autorità (amministratori e rappresentanti delle istituzioni, tra cui l’assessore provinciale Elena Maiocchi), in Broletto è intervenuto Alboni, introdotto dalla vice presidente Anpi Isa Ottobelli: «La polvere del tempo che ci distanzia da quella feroce violenza liberticida ha ricoperto tante vicende della nostra vita comunitaria. Quella stessa polvere denuncia la cattiva coscienza di chi si è assunto la responsabilità della collusione politica con i rigurgiti fascisti», ha scandito. Per poi concludere con un riferimento all’attualità: «Non passeranno i nuovi lanzichenecchi. L’Italia migliore non permetterà che rozzi cultori di un’assurda politica di discriminazione razziale, del peggiore localismo culturale, abbia partita vinta». Infine, ha portato i saluti dell’amministrazione comunale di Lodi, l’assessore Andrea Ferrari: «Mi capita a volte di cercare di immaginare il volto dei giovani che consumarono il loro sacrificio al poligono e pensare in questo modo al volto della libertà, il volto dell’impegno, sino ad accettare le estreme conseguenze, di chi ha contribuito a rendere oggi l’Italia una nazione democratica e libera».
Condividi su Facebook

Accoglienza, legalità e rispetto dei diritti umani fondamentali

Greta Boni ci informa su Il Cittadino di oggi dell'intervento del vescovo di Lodi.
Il vescovo di Lodi, presidente della Caritas, interviene dopo la denuncia dei cinque superstiti: «Lasciati alla deriva».
«Lampedusa, chiarire le responsabilità».
Per monsignor Merisi sarebbe grave una violazione dei diritti.

Rassegna stampa.

I fatti devono ancora essere accertati, ma se a Lampedusa i diritti umani non fossero stati davvero rispettati, allora bisognerebbe individuare immediatamente le responsabilità. Monsignor Giuseppe Merisi, vescovo di Lodi, presidente della Caritas italiana e presidente della Commissione episcopale per la carità e la salute, non ha dubbi sulla tragedia avvenuta in Sicilia, l’ennesimo viaggio della speranza che si è concluso con una settantina di morti: «Se c’é stata questa violazione è un fatto grave».
Cinque eritrei che si trovavano a bordo di un gommone sono stati soccorsi dalla guardia di finanza, mentre si trovavano a dodici miglia da Lampedusa. Hanno raccontato di essere partiti con una settantina di persone da Tripoli il 28 luglio. La loro imbarcazione è andata alla deriva: le persone che morivano venivano gettate in mare, ma fino a questo momento sono stati recuperati sette cadaveri. I superstiti sostengono di aver incrociato almeno una decina di imbarcazioni, alle quali hanno chiesto aiuto inutilmente. Il racconto ha suscitato numerose polemiche, il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha chiesto una relazione al prefetto di Agrigento, sottolineando la necessità di verificare come si siano davvero svolti i fatti.
«Faccio mie - afferma il vescovo di Lodi - le dichiarazioni di monsignor Schettino, monsignor Montenegro e monsignor Mogavero. E confermo quanto come Caritas abbiamo detto quando siamo andati a vedere di persona la situazione di Lampedusa, cogliendo e vedendo la sofferenza della gente e dei migranti. Rispetto a ciò che è accaduto - aggiunge monsignor Merisi - è importante sottolineare quanto detto dal prefetto di Agrigento: se le cose sono andate veramente in questo modo c’é stata una violazione dei diritti umani». Di fronte al fenomeno dell’immigrazione, il presidente della Caritas ribadisce quali sono i principi da osservare: «Accoglienza, legalità e rispetto dei diritti umani fondamentali. Nel caso specifico bisogna vedere se sono stati rispettati i diritti umani. Se c’é stata una violazione è un fatto grave». Il vescovo di Lodi ha voluto ricordare la tragedia anche nel corso dell’omelia pronunciata in occasione della Messa dedicata ai Martiri del poligono. Monsignor Merisi ha invitato i fedeli a vivere nel rispetto dei diritti umani e della legalità, proprio come aveva già ricordato durante la sua visita all’isola di Lampedusa, insieme a una delegazione della Caritas italiana.
Condividi su Facebook

Fuga da Casale

La trasformazione di Casale da parte della nuova amministrazione in una cittadina intollerante e forse razzista sta dando i suoi effetti, almeno secondo quanto scrive oggi su Il Cittadino Francesco Dionigi. Nel becerume leghista dei paesi limitrofi è allarme rosso.
Casale, giro di vite.
«I controlli a tappeto fanno fuggire gli extraCee».

Rassegna stampa.

Casale - Gli extracomunitari sono “in fuga” da Casalpusterlengo, dove la nuova amministrazione comunale del sindaco leghista Flavio Parmesani ha emesso una serie di ordinanze per la sicurezza, oltre a intensificare i controlli di vigili urbani e uffici competenti riguardo l’iscrizione di stranieri nel comune casalese, con particolare riferimento a un reddito minimo di 5mila euro se non si lavora o alla documentazione che attesti una occupazione. Sembra infatti che molti immigrati si stiano riversando sui paesi limitrofi: il primoallarme arriva da Somaglia ed è lanciato dal capogruppo consiliare di minoranza della Lega Nord Andrea Negri. «Negli ultimi quattro mesi - afferma Negri - abbiamo assistito a un fenomeno immigratorio di extracomunitari a Somaglia particolarmente rilevante: in quattro mesi quelli residenti sono passati da 435 a 475. Secondo me il fenomeno va collegato ai controlli in atto ed alle giuste restrizioni emesse dal sindaco di Casalpusterlengo in tema di sicurezza e vivibilità quotidiana della città. È però evidente che questa situazione vada affrontata anche a Somaglia, prima che si determinino problemi sociali. Proprio per questo la Lega ha presentato al sindaco Pier Giuseppe Medaglia e alla giunta municipale, prima ancora che vengano discusse in consiglio comunale, una serie di interpellanze al fine di adottare misure e incrementare le esistenti per la sicurezza in paese, come già avviene a Casale, a cominciare da controlli per l’iscrizione della residenza».
Condividi su Facebook