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venerdì 28 agosto 2009

È proprio questo lo sviluppo che vogliamo?

Il commento dei due ex consiglieri comunali, capigruppo di minoranza sulla lettera della consigliera Rosaria Russo.
Non siamo più minoranza consiliare ma siamo ancora minoranza. Il nostro sostegno e supporto a tutte le iniziative a favore della comunità.

Vogliamo esprimere un breve commento alla lettera della consigliera comunale Rosaria Russo pubblicata nel nostro blog mercoledì 26 agosto.
Innanzitutto, un cordiale saluto di bentornata e un sincero apprezzamento per l'opera prestata nella martoriata terra d'Abruzzo. È infatti grazie all'opera ed al fattivo impegno di gente come lei che queste popolazioni non si sono sentite e non si sentono sole in questi diffficili momenti.
Un ringraziamento anche perché con questa lettera ha riportato la politica, la buona politica all'attenzione dei brembiesi.
I quesiti e le riflessioni che pone in merito alle vicende che hanno accompagnato l'adozione del nuovo PGT, a nostro avviso, sono pertinenti e centrano il problema promuovendo quel dibattito sulle vere questioni che fino ad oggi purtroppo è mancato.
La discussione infatti, prima che essere caratterizzata da aspetti tecnici, che pur ci possono stare, deve essere indirizzata verso la valenza politica del piano.
I quesiti e le riflessioni che pone, a nostro avviso, centrano il nodo focale della questione.
Infatti la domanda se è proprio questo lo sviluppo che vogliamo, merita sicuramente una risposta, una risposta che deve venire dalla gente e non da altri.
A questa domanda noi vogliamo aggiungerne qualcun'altra, raccolta per strada e sicuramente fatta di buon senso. Ci è stato chiesto infatti: " ma a me, cittadino di Brembio, che vantaggi comporta l'aumento della popolazione?".
Un'ulteriore domanda viene spontanea leggendo nella relazione a corredo del PGT, dove si afferma che l'aumento delle aree edificabili previste nel piano serve a dare risposta alla domanda interna di abitazioni. Allora viene spontaneo chiedersi se sia poi vero che c'è questa domanda interna; e se questa c'è, sia poi così vero che non possa essere soddisfatta con le aree già disponibili, tanto che si pone la necessità di destinare all'edificazione ancora una quantità così considerevole? A onor del vero, girando per il paese, qualche dubbio viene, ma di tutto questo avremo modo di parlarne nel dettaglio prossimanente.
Per nostro conto, ci preme precisare che se è vero che non siamo più minoranza consiliare, ci consideriamo comunque ancora parte della minoranza, e come tale daremo tutto il nostro supporto e sostegno a tutte quelle inziative e prese di posizione che andranno incontro alle aspettative della nostra comunità, senza preclusioni di sorta, ma anche senza fare sconti a nessuno, sia che si tratti di maggioranza che si tratti di altri.
Siamo per questo profondamente convinti che in questa prospettiva avremo sicuramente occasione per condividere e sostenere di concerto con Rosaria, posizioni e scelte comuni nella dialettica politico-amministrativa dei prossimi anni.
Pino Botti, Sergio Fumich
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L'opinione pubblica può fare delle domande al potere?

L'analisi.
La menzogna come potere.

Rassegna stampa - Repubblica.it, articolo di Giuseppe D'Avanzo.

Avanzare delle domande a un uomo politico nell'Italia meravigliosa di Silvio Berlusconi è già un'offesa che esige un castigo?
L'Egoarca ritiene che sollecitare delle risposte dinanzi alle incoerenze delle dichiarazioni pubbliche del capo del governo sia diffamatorio e vada punito e che quelle domande debbano essere cancellate d'imperio per mano di un giudice e debba essere interdetto al giornale di riproporle all'opinione pubblica. È interessante leggere, nell'atto di citazione firmato da Silvio Berlusconi, perché le dieci domande che Repubblica propone al presidente del Consiglio sono "retoriche, insinuanti, diffamatorie".
Sono retoriche, sostiene Berlusconi, perché "non mirano a ottenere una risposta dal destinatario, ma sono volte a insinuare l'idea che la persona 'interrogata' si rifiuti di rispondere". Sono diffamatorie perché attribuiscono "comportamenti incresciosi, mai tenuti" e inducono il lettore "a recepire come circostanze vere, realtà di fatto inesistenti". Peraltro, "è sufficiente porre mente alle dichiarazioni già rese in pubblico dalle persone interessate, per riconoscerne la falsità, l'offensività e il carattere diffamatorio di quelle domande che proprio 'domande' non sono".
Come fin dal primo giorno di questo caso squisitamente politico, una volta di più, Berlusconi ci dimostra quanto, nel dispositivo del suo sistema politico, la menzogna abbia un primato assoluto e come già abbiamo avuto modo di dire, una sua funzione specifica. Distruttiva, punitiva e creatrice allo stesso tempo. Distruttiva della trama stessa della realtà; punitiva della reputazione di chi non occulta i "duri fatti"; creatrice di una narrazione fantastica che nega eventi, parole e luoghi per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di nemici e immaginari complotti politici.
Non c'è, infatti, nessuna delle dieci domande che non nasca dentro un fatto e non c'è nessun fatto che nasca al di fuori di testimonianze dirette, di circostanze accertate e mai smentite, dei racconti contraddittori di Berlusconi.
È utile ora mettersi sotto gli occhi queste benedette domande. Le prime due affiorano dai festeggiamenti di una ragazza di Napoli, Noemi, che diventa maggiorenne. È Veronica Lario ad accusare Berlusconi di "frequentare minorenni". È Berlusconi che decide di andare in tv a smentire di frequentare minorenni. Nel farlo, in pubblico, l'Egoarca giura di aver incontrato la minorenne "soltanto tre o quattro volte alla presenza dei genitori". Questi sono fatti. Come è un fatto che le parole di Berlusconi sono demolite da circostanze, svelate da Repubblica, che il capo del governo o non può smentire o deve ammettere: non conosceva i genitori della minorenne (le ha telefonato per la prima volta nell'autunno del 2008 guardandone un portfolio); l'ha incontrata da sola per lo meno in due occasioni (una cena offerta dal governo e nelle vacanze del Capodanno 2009).
La terza domanda chiede conto al presidente del Consiglio delle promesse di candidature offerte a ragazze che lo chiamano "papi". La circostanza è indiscutibile, riferita da più testimoni e direttamente dalla stessa minorenne di Napoli. La quarta, la quinta, la sesta e settima domanda ruotano intorno agli incontri del capo del governo con prostitute che potrebbero averlo reso vulnerabile fino a compromettere gli affari di Stato. La vita disordinata di Berlusconi è diventata ormai "storia nota", ammessa a collo torto dallo stesso capo del governo e in palese contraddizione con le sue politiche pubbliche (marcia nel Family day, vuole punire con il carcere i clienti delle prostitute). La sua ricattabilità - un fatto - è dimostrata dai documenti sonori e visivi che le ospiti retribuite di Palazzo Grazioli hanno raccolto finanche nella camera da letto del Presidente del Consiglio.
L'ottava domanda è politica: può un uomo con queste abitudini volere la presidenza della Repubblica? Chi non glielo chiederebbe? La nona nasce, ancora una volta, dalle parole di Berlusconi. È Berlusconi che annuncia in pubblico "un progetto eversivo" di questo giornale. È un fatto. È lecito che il giornale chieda al presidente del Consiglio se intenda muovere le burocrazie della sicurezza, spioni e tutte quelle pratiche che seguono (intercettazioni su tutto). Non è minacciato l'interesse nazionale, non si vuole scalzarlo dal governo e manipolare la "sovranità popolare"? In questo lucidissimo delirio paranoico, Berlusconi potrebbe aver deciso, forse ha deciso, di usare la mano forte contro giornalisti, magistrati e testimoni. Che ne dia conto. Grazie.
La decima domanda infine (e ancora una volta) non ha nulla di retorico né di insinuante. È Veronica Lario che svela di essersi rivolta agli amici più cari del marito per invocare un aiuto per chi, come Berlusconi, "non sta bene". È un fatto. Come è un fatto che, oggi, nel cerchio stretto del capo del governo, sono disposti ad ammettere che è la satiriasi, la sexual addiction a rendere instabile Berlusconi.
Questa la realtà dei fatti, questi i comportamenti tenuti, queste le domande che chiedono ancora oggi - anzi, oggi con maggiore urgenza di ieri - una risposta. Dieci risposte chiare, per favore. È un diritto chiederle per un giornale, è un dovere per un uomo di governo offrirle perché l'interesse pubblico dell'affare è evidente.
Si discute della qualità dello spazio democratico e la citazione di Berlusconi ne è una conferma. E dunque, anche a costo di ripetersi, tutta la faccenda gira intorno a un solo problema: fino a che punto il premier può ingannare l'opinione pubblica mentendo, in questo caso, sulle candidature delle "veline", sulla sua amicizia con una minorenne e tacendo lo stato delle sue condizioni psicofisiche? Non è sempre una minaccia per la res publica la menzogna? La menzogna di chi governa non va bandita incondizionatamente dal discorso pubblico se si vuole salvaguardare il vincolo tra governati e governanti? Con la sua richiesta all'ordine giudiziario di impedire la pubblicazione di domande alle quali non può rispondere, abbiamo una rumorosa conferma di un'opinione che già s'era affacciata in questi mesi: Berlusconi vuole insegnarci che, al di fuori della sua verità, non ce ne può essere un'altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. La sua ultima mossa conferma un uso della menzogna come la funzione distruttiva di un potere che elimina l'irruzione del reale e nasconde i fatti, questa volta anche per decisione giudiziaria. La mordacchia (come chiamarla?) che Berlusconi chiede al magistrato di imporre mostra il nuovo volto, finora occultato dal sorriso, di un potere spietato. È il paradigma di una macchina politica che intimorisce. È la tecnica di una politica che rende flessibili le qualifiche "vero", "falso" nel virtuale politico e televisivo che Berlusconi domina. È una strategia che vuole ridurre i fatti a trascurabili opinioni lasciando campo libero a una menzogna deliberata che soffoca la realtà e quando c'è chi non è disposto ad accettare né ad abituarsi a quella menzogna invoca il potere punitivo dello Stato per impedire anche il dubbio, anche una domanda. Come è chiaro ormai da mesi, quest'affare ci interroga tutti. Siamo disposti a ridurre la complessità del reale a dato manipolabile, e quindi superfluo. Possiamo o è già vietato, chiederci quale funzione specifica e drammatica abbia la menzogna nell'epoca dell'immagine, della Finktionpolitik? Sono i "falsi indiscutibili" di Berlusconi a rendere rassegnata l'opinione pubblica italiana o il "carnevale permanente" l'ha già uccisa? Di questo discutiamo, di questo ancora discuteremo, quale che sia la decisione di un giudice, quale che sia il silenzio di un'informazione conformista. La questione è in fondo questa: l'opinione pubblica può fare delle domande al potere?
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Armageddon mediatico atto secondo

Mentre Feltri si occupava dell'Avvenire, Berlusconi sparava un missile terra terra su Repubblica.
Gossip, Berlusconi querela Repubblica.
Il Pd: "Intimidazione, ci denunci tutti".

Rassegna stampa - La Repubblica.it

Roma - Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, intenta causa a Repubblica e chiede un risarcimento danni per un milione di euro al Gruppo L’Espresso, oltre a una somma da stabilire "a titolo di riparazione". Per i legali del premier, infatti, sono "diffamatorie" le ormai famose "10 domande" formulate dal quotidiano il 26 giugno scorso. La citazione in giudizio firmata il 24 agosto, riguarda anche un articolo del 6 agosto dal titolo "Berlusconi ormai ricattabile". Invitati a comparire al tribunale di Roma sono Giampiero Martinotti, autore del pezzo contestato, il direttore responsabile di Repubblica, Ezio Mauro, e il gruppo L’Espresso.
Diffamazione. Quanto alle "10 domande" queste sono per i legali di Berlusconi "palesemente diffamatorie", perché "il lettore è indotto a pensare che la proposizione formulata non sia interrogativa, bensì affermativa ed è spinto a recepire come circostanze vere, realtà di fatto inesistenti".
La replica. Secca la replica del direttore di Repubblica, in un editoriale in prima pagina dal titolo: "Insabbiare". Mauro scrive: "Non potendo rispondere, se non con la menzogna, Silvio Berlusconi ha deciso di portare in tribunale le dieci domande di Repubblica, insabbiando così - almeno in Italia - la pubblica vergogna di comportamenti privati che sono al centro di uno scandalo internazionale e lo perseguitano politicamente. È la prima volta, nella memoria di un Paese libero, che un uomo politico fa causa alle domande che gli vengono rivolte".
Ghedini: "Altre querele". E il presidente del Consiglio sta avviando una serie di azioni legali contro media in Italia e all’estero per casi di diffamazione nella copertura di fatti legati alla sua vita privata. Lo ha detto il suo avvocato. Niccolò Ghedini, avvocato del premier, ha detto che sono già state avviate azioni legali in Italia, Francia e Spagna e di aver dato mandato agli avvocati in Gran Bretagna di studiare azioni analoghe.
Franceschini: "Denunci tutti". Il segretario del Partito democratico Dario Franceschini ha telefonato al direttore di Repubblica per esprimergli "la solidarietà di tutto il Pd e sua personale davanti all’incredibile azione giudiziaria del premier contro il suo giornale". Ne dà notizia una nota dell’ufficio stampa del Pd. "È chiaro - ha dichiarato Franceschini - che ci troviamo di fronte a una indegna strategia di intimidazione nei confronti di un singolo giornale, dell’opposizione e di chiunque difenda i principi di un paese libero che non ha precedenti in nessuna democrazia e che è anche un segno di paura e di declino. Il presidente del Consiglio non denunci solo Repubblica, ci denunci tutti. Ribadisco - prosegue - che settembre dovrà essere il mese di una grande mobilitazione, al di là dei colori politici, per la difesa della libertà di stampa e del diritto all’informazione". Sulla stessa linea lo sfidante per la poltrona di segretario, Pierluigi Bersani: "L’iniziativa di portare in tribunale le dieci domande di Repubblica mi pare inaccettabile e dieci volte sconsiderata. Percorrendo questa strada il presidente del consiglio si vedrà costretto a chiamare in tribunale mezzo mondo".

Ecco di seguito l'editoriale di Ezio Mauro.
Insabbiare.

Non potendo rispondere, se non con la menzogna, Silvio Berlusconi ha deciso di portare in tribunale le dieci domande di Repubblica, per chiedere ai giudici di fermarle, in modo che non sia più possibile chiedergli conto di vicende che non ha mai saputo chiarire: insabbiando così - almeno in Italia - la pubblica vergogna di comportamenti privati che sono al centro di uno scandalo internazionale e lo perseguitano politicamente. È la prima volta, nella memoria di un Paese libero, che un uomo politico fa causa alle domande che gli vengono rivolte. Ed è la misura delle difficoltà e delle paure che popolano l'estate dell'uomo più potente d'Italia. La questione è semplice: poiché è incapace di dire la verità sul "ciarpame politico" che ha creato con le sue stesse mani e che da mesi lo circonda, il Capo del governo chiede alla magistratura di bloccare l'accertamento della verità, impedendo la libera attività giornalistica d'inchiesta, che ha prodotto quelle domande senza risposta. In questa svolta c'è l'insofferenza per ogni controllo, per qualsiasi critica, per qualunque spazio giornalistico d'indagine che sfugga al dominio proprietario o all'intimidazione di un potere che si concepisce come assoluto, e inattaccabile. Berlusconi, nel suo atto giudiziario contro Repubblica vuole infatti colpire e impedire anche la citazione in Italia delle inchieste dei giornali stranieri, in modo che il Paese resti all'oscuro e sotto controllo. Ognuno vede quanto sia debole un potere che ha paura delle domande, e pensa che basti tenere al buio i concittadini per farla franca.

Le prime dieci domande di Repubblica:



Le seconde dieci domande di Repubblica:


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Armageddon mediatico, Il Giornale rilancia

Intanto è saltato l'incontro all'Aquila tra il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che avrebbe dovuto partecipare al rito della "Perdonanza" e poi cenare con il porporato, ospiti entrambi dell'arcivescovo dell'Aquila Giuseppe Molinari. "Per evitare strumentalizzazioni, il presidente del Consiglio, on. Silvio Berusconi, ha delegato come rappresentante del Governo Italiano, l'on. Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio", ha spiegato il vice direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Ciro Benedettini. "Al termine della celebrazione - ha aggiunto il portavoce vaticano - l'Arcivescovo aveva pensato, in un primo momento, di organizzare una cena quale segno di ringraziamento al Segretario di Stato, ai vescovi e alle autorità per la loro presenza e per la loro opera a favore delle vittime del terremoto. In un secondo tempo si è preferito cancellare la cena e devolverne il costo a beneficio dei terremotati".
Per quanto riguarda l'attacco de "Il Giornale", Berlusconi si dissocia. "Il principio del rispetto della vita privata è sacro e deve valere sempre e comunque per tutti. Ho reagito con determinazione a quello che in questi mesi è stato fatto contro di me usando fantasiosi gossip che riguardavano la mia vita privata presentata in modo artefatto e inveritiero. Per le stesse ragioni di principio non posso assolutamente condividere ciò che pubblica oggi Il Giornale nei confronti del direttore di Avvenire e me ne dissocio". Lo ha affermato il premier Silvio Berlusconi in una nota.
Vediamo come Il Giornale.it giustifica le decisioni del suo direttore di attaccare il direttore di Avvenire secondo un canone che - la cronaca insegna - sembra prendere piede: dopo gli immigrati... una storia già vista. E non dimentichiamo che Feltri non è il figlio di Bossi.
Caso Boffo, scontro tra Cei e il Giornale Berlusconi: "Rispettare la vita privata".

Milano - Polemica in corso fra il quotidiano della Cei e il Giornale. "Il direttore dell Avvenire - scrive Feltri nell’editoriale di prima pagina sul Giornale - non ha le carte in regola per lanciare anatemi furibondi contro altri peccatori, veri o presunti, e neanche per tirare le orecchie a Berlusconi. Il problema è che in campo sessuale ciascuno ha le sue debolezze ed è bene evitare di indagare su quelle del prossimo. Altrimenti succede di scoprire che il capo dei moralisti scatenati nel vituperare il capo del governo riveli di essere come quel bue che dava del cornuto all’asino. Mai quanto nel presente periodo - scrive Feltri, - si sono visti in azione tanti moralisti, molti dei quali, per non dire quasi tutti, sono sprovvisti di titoli idonei. Ed è venuto il momento di smascherarli. Dispiace, ma bisogna farlo affinchè i cittadini sappiano da quale pulpito vengono certe prediche".
Feltri: "Quale killeraggio? È documento pubblico" Il direttore del Giornale si difende e attacca. Nessun killeraggio ma solo la trascrizione "di un documento del casellario giudiziario, cioè pubblico": prosegue Vittorio Feltri. "Abbiamo semplicemente ricordato - dice Feltri - che Boffo ha dovuto rispondere in tribunale di una vicenda, che si è conclusa con patteggiamento e ammenda, e che risulta in modo chiaro dal casellario giudiziario di Terni. Ebbene, questa vicenda attiene alla sfera dei comportamenti sessuali".
Berlusconi: "Mi dissocio dal Giornale" Il premier prende le distanze dall'attacco a Dino Boffo. "Il principio del rispetto della vita privata è sacro e deve valere sempre e comunque per tutti. Ho reagito con determinazione a quello che in questi mesi è stato fatto contro di me usando fantasiosi gossip che riguardavano la mia vita privata presentata in modo artefatto e inveritiero. Per le stesse ragioni di principio non posso assolutamente condividere ciò che pubblica oggi il Giornale nei confronti del direttore di Avvenire e me ne dissocio".
La replica di Boffo "La lettura dei giornali di questa mattina - scrive il direttore di Avvenire è in una nota - mi ha riservato una sorpresa totale, non tanto rispetto al menù del giorno, quanto riguardo alla mia vita personale. Evidentemente il Giornale di Vittorio Feltri sa anche quello che io non so, e per avvallarlo non si fa scrupoli di montare una vicenda inverosimile, capziosa, assurda. Diciamo le cose con il loro nome: è un killeraggio giornalistico allo stato puro, sul quale è inutile scomodare parole che abbiano a che fare anche solo lontanamente con la deontologia. Siamo, pesa dirlo, alla barbarie".
Feltri: "Io sono indipendente". "Il presidente del Consiglio non poteva dire una cosa diversa su questo argomento e il fatto che si sia dissociato dimostra solo che Il Giornale e il suo direttore sono indipendenti da lui, il contrario di quello che dicono tutti". Così Feltri commenta le parole di Berlusconi. "Non mi sento né rafforzato né indebolito da questa critica - dice ancora Feltri -. Io rispondo semplicemente al mandato che mi è stato dato al momento in cui ho assunto la direzione di questo quotidiano, che è quella di rilanciarlo e lo faccio con i mezzi che ho a disposizione". Sottolinea Feltri che "nel momento in cui mi hanno chiamato a dirigerlo penso che mi conoscessero e io certo non chiedo il permesso all’editore prima di fare qualcosa". Ma in queste ore ha sentito il suo editore? "No, non ho sentito Paolo Berlusconi e non ho avuto quindi nessun confronto con lui". Quanto alle sue rivelazioni sulla vita privata del direttore di Avvenire, "io ho un documento e lo pubblico e lo commento e basta. In Italia si butta via tutto, io pubblico".
Arcygay: "Schedatura gay dimessa da tempo". Ma la schedatura degli omosessuali non era una pratica dimessa da tempo, precisamente da quando era ministro degli Interni Giorgio Napolitano? Come mai "la Polizia conosceva l’omosessualità del direttore di Avvenire". Con questo interrogativo il presidente dell’Arcigay, Aurelio Mancuso, interviene sulle rivelazioni del quotidiano Il Giornale, della famiglia Berlusconi, che ha pubblicato oggi in prima pagina la notizia di "un incidente sessuale" del direttore dell’Avvenire, Dino Boffo.
Il direttore rilancia. Feltri non è pentito e anzi avverte: "Domani continuo". Dopo la bufera scatenata dal suo editoriale di fuoco contro l’omologo dell’Avvenire Dino Boffo, tra le cause (come lui stesso ammette) dell’annullamento della cena tra Silvio Berlusconi e il Card. Tarcisio Bertone, Vittorio Feltri non fa marcia indietro: "Ho dato una notizia ufficiale, non ho raccolto pettegolezzi di portineria. Non mi sento colpevole, rifarei quello che ho fatto e anzi domani continuo". Insomma, il direttore del Giornale non teme la querela di Boffo: "Le querele possiamo farle tutti, poi dobbiamo vincerle. Io ho i documenti sulla mia scrivania. Cosa vuole querelare? Che lo faccia, chi se ne frega". D’altronde, "se non avesse fatto il moralista, nessuno avrebbe detto niente". Feltri si dice "molto divertito nel constatare che per tre mesi la Repubblica ha insistito a pubblicare in prima pagina la vita privata di un signore che fa il presidente del Consiglio e nessuno ha detto nulla. Il Giornale scopre che il capofila dei moralisti, che scrive tutto quel che può scrivere contro Berlusconi, ha dovuto patteggiare e pagare una sanzione pecuniaria perchè molestava la moglie del suo amante: insomma, consentiamo ai cittadini di sapere da quale pulpito viene la predica. Non credo sia una condotta scorretta, d’altronde, come diceva Craxi, ’a brigante, brigante e mezzo".
"Nessuno ha il diritto di lapidare gli altri". Feltri è consapevole che il suo editoriale ha, con ogni probabilità, contribuito all’annullamento dell’incontro Berlusconi-Bertone: "Forse i vescovi - taglia corto - è bene che sappiano che il loro portavoce giornalistico è questo signore. Poi facciano quel che vogliono. Ma di certo nessuno ha diritto di lapidare gli altri". Il direttore non rinuncia poi a commentare la manovra del premier contro Repubblica: "Dopo tre mesi di persecuzione, credo che una reazione di questo tipo sia il segno che non c’è altro da fare che questo. Poi non è la prima volta che si querela un giornale, non ci vedo niente di inedito. Dopodichè - aggiunge - che si querelino i giornalisti e i giornali non mi va bene".
L'abbiamo insomma capito: a Feltri il moralismo non piace, soprattutto se rivolto verso chi lo paga. Repubblica? Siamo al secondo atto di oggi.
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L'armageddon mediatico è cominciato

Chiunque questa mattina ha serenamente aperto il sito di Avvenire, non si aspettava certo di leggere questo comunicato del direttore Dino Boffo:

La lettura dei giornali di questa mattina mi ha riservato una sorpresa totale, non tanto rispetto al menù del giorno, quanto riguardo alla mia vita personale. Evidentemente «il Giornale» di Vittorio Feltri sa anche quello che io non so, e per avallarlo non si fa scrupoli di montare una vicenda inverosimile, capziosa, assurda. Diciamo le cose con il loro nome: è un killeraggio giornalistico allo stato puro, sul quale è inutile scomodare parole che abbiano a che fare anche solo lontanamente con la deontologia. Siamo, pesa dirlo, alla barbarie.
Nel confezionare la sua polpettona avvelenata Feltri, tra l’altro, si è guardato bene dal far chiedere il punto di vista del diretto interessato: la risposta avrebbe probabilmente disturbato l’operazione che andava (malamente) allestendo a tavolino al fine di sporcare l’immagine del direttore di un altro giornale e disarcionarlo. Quasi che non possa darsi una vita personale e professionale coerente con i valori annunciati. Sia chiaro che non mi faccio intimidire, per me parlano la mia vita e il mio lavoro.
Al direttore del Giornale ora l’onere di spiegare perché una vicenda di fastidi telefonici consumata nell’inverno del 2001, e della quale ero stato io la prima vittima, sia stata fatta diventare oggi il monstre che lui ha inqualificabilmente messo in campo. Nella tristezza della giornata, la consapevolezza che le gravi offese sferratemi da Vittorio Feltri faranno serena la mia vecchiaia.

La polpetta avvelenata di Feltri era l'articolo di Gabriele Villa pubblicato su Il Giornale di oggi, che riportiamo qui sotto.
Boffo, il supercensore condannato per molestie.

«Articolo 660 del Codice penale, molestia alle persone. Condanna originata da più comportamenti posti in essere dal dottor Dino Boffo dall’ottobre del 2001 al gennaio 2002, mese quest’ultimo nel quale, a seguito di intercettazioni telefoniche disposte dall’autorità giudiziaria, si è constatato il reato». Comincia così la nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore, alias il direttore del quotidiano Avvenire, disposto dal Gip del Tribunale di Terni il 9 agosto del 2004.
Copia di questi documenti da ieri è al sicuro in uno dei nostri cassetti e per questo motivo, visto che le prove in nostro possesso sono chiare, solide e inequivocabili, abbiamo deciso di divulgare la notizia. A onor del vero, questa storia della non proprio specchiata moralità del direttore del quotidiano cattolico, circolava, o meglio era circolata a suo tempo, per le redazioni dei giornali. Dove si chiacchiera, anche troppo, per tirar tardi la sera. C’è chi aveva orecchiato, chi aveva intuito, chi credeva di sapere.
Ma le chiacchiere non bastano a crocefiggere una persona. O meglio bastano, sono bastate, solo nel caso di due persone: Gesù Cristo per certi suoi miracoli e, più recentemente, Silvio Berlusconi per certi suoi giri di valzer con signore per la verità molto disponibili.
Ma torniamo alle tentazioni, in cui è ripetutamente caduto Dino Boffo e atteniamoci rigorosamente ai fatti, così come riportati nell’informativa: «...Il Boffo - si legge - è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconce e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione. Rinviato a giudizio il Boffo chiedeva il patteggiamento e, in data 7 settembre del 2004, pagava un’ammenda di 516 euro, alternativa ai sei mesi di reclusione. Precedentemente il Boffo aveva tacitato con un notevole risarcimento finanziario la parte offesa che, per questo motivo, aveva ritirato la querela...».
Dino Boffo, 57 anni appena compiuti, è persona molto impegnata. O, come si dice quando si pesca nelle frasi fatte, vanta un curriculum di rispetto. È direttore di Avvenire da quindici anni, direttore e responsabile dei servizi giornalistici di Sat 2000, il network radio-televisivo via satellite dei cattolici italiani nel mondo, nonché membro del comitato permanente dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori, che detta le linee guida delle Università Cattolica del Sacro Cuore. Acuto osservatore della vita politica italiana e delle vicende che segnano il mutamento dei tempi e dei costumi, recentemente, in più d’una occasione, Boffo si è sentito in obbligo, rispondendo alle pressanti domande dei suoi smarriti lettori, di esprimere giudizi severi sul comportamento del presidente del Consiglio. E, turbato proprio da quel comportamento, è arrivato a parlare di «disagio» e di «desolazione». Persino, e dal suo punto di vista è assolutamente comprensibile, di «sofferenza». Quella sofferenza, per citare testualmente quanto ha scritto ancora pochi giorni fa, sul giornale che dirige «che la tracotante messa in mora di uno stile sobrio ci ha causato». Questa riflessione l’ha portato a esprimere, di conseguenza, più e più volte il suo desiderio più fervido, ovvero il «desiderio irrinunciabile che i nostri politici siano sempre all’altezza del loro ruolo».
Nell’informativa, si legge ancora che della vicenda, o meglio del reato che ha commesso e delle debolezze ricorrenti di cui soffre e ha sofferto il direttore Boffo, «sono indubbiamente a conoscenza il cardinale Camillo Ruini, il cardinale Dionigi Tettamanzi e monsignor Giuseppe Betori».
I primi due non hanno bisogno di presentazione, l’ultimo, per la cronaca, è l’arcivescovo di Firenze. Si dice che le voci corrono. Ma, alla fine, su qualche scrivania si fermano.
Il Comitato di redazione di Avvenire ha emesso sempre oggi il seguente comunicato:

Il plateale e ripugnante attacco a Dino Boffo sulla prima pagina de Il Giornale di oggi è una chiara intimidazione al direttore di Avvenire e a tutta la redazione del quotidiano. A cui Vittorio Feltri e il suo editore non perdonano l’indipendenza di giudizio e il richiamo ai valori cristiani espressi in questi mesi. Un attacco personale al direttore di Avvenire ma anche un attacco alla libertà di pensiero e di stampa: esprimendo piena e affettuosa solidarietà a Dino Boffo, la redazione tutta assicura che proseguirà come al solito nel proprio lavoro di informazione puntuale dei lettori esercitando sempre e comunque il diritto di critica oltre a quello di cronaca.
Anche l'Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Italiana ha pubblicato su Avvenire online una nota: In merito alle accuse sollevate oggi da un quotidiano, si intende confermare piena fiducia al dott. Dino Boffo, direttore di Avvenire, giornale da lui guidato con indiscussa capacità professionale, equilibrio e prudenza.
Insomma i berluscones dei suoi media sono scesi in campo per la loro battaglia finale a difesa di un premier in declino - paragonato addirittura a Cristo - e di un governo e una coalizione che cominciano a scricchiolare sempre più rumorosamente. Ma questo è solo il primo capitolo della storia.
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Le notizie scremate da Google News Italia.
Gratis è bello. Quanto libero non si sa.

Rassegna stampa - Articolo di Alessandro Zaccuri, Avvenire di oggi.

Ce lo ripetono da anni e ormai un po’ ci siamo convinti: alla fine quello digitale sarà un mondo perfetto e trasparente, dominato dai princìpi della gratuità e della semplicità.
Non ci sarà più neppure bisogno di connettersi, perché l’essere umano sarà cablato alla nascita. Dopo di che basterà meno di un clic e avremo quello che ci serve.
Subito, senza sforzo e senza necessità di pagare. Per il momento, purtroppo, il mondo digitale conserva ancora diverse imperfezioni che lo accomunano al mondo reale. Se in rete qualcosa è gratis, per esempio, non è perché non costa nulla, ma perché qualcuno, in qualche modo, sta pagando. Questione complessa, destinata a complicarsi ancora di più se ci si sposta nel territorio dell’informazione. A chi appartengono le notizie che circolano sul web? Secondo gli internauti più intransigenti le news sono di chi le legge, con tante grazie ai servizi di aggregazione che permettono di organizzare veri e propri giornali virtuali, personalizzati e in continuo aggiornamento. Semplice, no? E gratuito, oltretutto. In realtà l’operazione non è così immediata, né a costo zero. Se ne sono resi conto gli editori italiani, che da tempo contestano i criteri adoperati da Google News, il più diffuso e stimato fra gli aggregatori di notizie: la selezione viene effettuata attingendo ai siti di quotidiani e periodici, che non sono in alcun modo remunerati per il materiale che forniscono. Le testate sono libere di sottrarsi a questa campionatura, ma così facendo si troverebbero automaticamente escluse dal motore di ricerca. Una situazione sulla quale ora ha deciso di indagare l’Antitrust, per la quale il comportamento di Google sembra profilare un quadro di posizione dominante. Il popolo della rete non l’ha presa bene. Forum e blog già parlano di censura, come sempre accade quando si accenna a una qualsiasi forma di restrizione nella libera prateria di Internet. Nella quale, in effetti, le recinzioni sono già presenti da tempo e con esse i legittimi profitti che operatori come Google riescono a raccogliere canalizzando contatti e introiti pubblicitari. Anche nel mondo digitale, infatti, se qualcuno paga, qualcuno guadagna. Il vero problema, tuttavia, non è di natura economica, ma culturale. Negli ultimi anni il mondo dell’informazione è già stato travolto dalla tempesta del citizen journalism, caratterizzata dall’idea che le notizie siano una sorta di materiale grezzo, che chiunque può ottenere e divulgare senza bisogno di mediazione. Un meccanismo che a volte funziona in modo addirittura eroico, ma che spesso porta a esaltare il dettaglio a discapito del quadro d’insieme, contravvenendo così alle più elementari regole della professione giornalistica. Professione, sì, perché essere pagati per informare è – a ben pensare – un motivo di libertà, non una forma di assoggettamento. E pagare per le informazioni che si ricevono è un gesto di civiltà, che mette l’informatore nella condizione di svolgere al meglio il suo lavoro.
Altrimenti, sul web o sulla carta stampata, scriverebbe soltanto chi può permetterselo.
Sarebbe più semplice, forse. Ma prima o poi pagheremmo tutti, e la pagheremmo cara.
Pagare per le informazioni che si ricevono è un gesto di civiltà, che mette l’informatore nella condizione di svolgere al meglio il suo lavoro.

Per meglio capire l'articolo di Zaccuri, ecco questo secondo articolo di Claudia La Via, sempre da Avvenire.
Google Italia finisce nel mirino Antitrust.
«Possibili distorsioni nella pubblicità».

Le unità speciali della Guardia di Finanza hanno bussato ieri alla porta degli uffici milanesi di Google Italia per notificare un pro­cedimento di istruttoria avviato dal­l’Antitrust. Sotto la lente del Garan­te ci sarebbe Google News, il servi­zio di rassegna stampa on line della casa di Montan View, che aggrega di­verse notizie su uno stesso argo­mento provenienti da diverse fonti. Tutto è partito da una segnalazione del 24 agosto scorso da parte della Federazione italiana editori giorna­li, intimorita che questo servizio possa incidere sulla concorrenza nel mercato della raccolta pubblicita­ria on line. La segnalazione non sembra infatti riguardare tanto il servizio in sé, quanto piuttosto la modalità in cui viene messo in pra­tica che, a detta della Fieg, «non è trasparente». «Gli editori sono preoccupati dell’andamento del set­tore e, in questo scenario, diventa predominamente la difesa della qualità. Per questo occorre una ve­rifica delle regole di Internet», ha di­chiarato il presidente della Fieg, Car­lo Malinconico.
Cos’è Google News. Il servizio for­nisce una rassegna stampa conti­nuamente aggiornata, selezionan­do le notizie pubblicate su 250 siti di lingua italiana ed estrapolandone titoli e sommari. Una volta selezio­nata la notizia, un collegamento permette di accedere direttamente alla pagina originaria della testata sulla quale è stato pubblicato l’arti­colo, senza però passare prima dal­la home page. Questo, secondo la Fieg, rappresenterebbe una forte penalizzazione, in quanto proprio la pagina iniziale di ogni sito è fon­te di maggiore visibilità e, di conse­guenza, di introiti pubblicitari. Il no­do poi, per la Fieg, sta anche nella gerarchia di visualizzazione delle notizie.
Se l’inclusione su Google News può rappresentare un’importante occa­sione per aumentare la propria vi­sibilità, gli editori non possono però esercitare nessuna forma di con­trollo dei contenuti visualizzati sul sito del motore di ricerca, né inter­ferire sull’ordine in cui le notizie ven­gono visualizzate. L’unica possibi­lità è scegliere di non rendere di­sponibili i propri contenuti su «Goo­gle News», ma questo, secondo gli editori, li escluderebbe automatica­mente anche dal motore di ricerca Google.
Dove comincia tutto. Il cambia­mento dell’editoria portato da In­ternet ha iniziato anche a modifica­re il modo di concepire e rendere di­sponibili le notizie. La questione o­ra gira intorno alla scelta di consen­tire la distribuzione gratuita delle notizie o di prevedere un pagamen­to per il servizio. Le prime polemi­che erano nate, già durante gli scor­si mesi, in America. Molti giornali ed editori avevano avuto da ridire pro­prio per il servizio Google News che, da qualche tempo ospita (proprio sulla versione americana, ndr ) an­che annunci pubblicitari. Così il ser­vizio del colosso di Montain View, se prima generava traffico anche a favore dei giornali, oggi - a detta degli editori - somiglia più a un concor­rente che a un 'alleato'.
Che cosa c’è in ballo. L’accusa rivol­ta dalla Fieg al più grande motore di ricerca del mondo è infatti legata so­prattutto alla sfera della raccolta pubblicitaria sul Web e ai timori di vedere intaccate le interessanti pro­spettive economiche che la rete può aprire a un editoria che oggi è in a­pnea. Secondo l’Agcom, nel 2008 il mercato della raccolta pubblicitaria on line in Italia ha raggiunto quasi 560 milioni di euro. Google, sempre nel 2008, ha realizzato oltre 21 mi­liardi di dollari nel mondo dalla ven­dita di spazi pubblicitari in rete e og­gi il suo motore di ricerca ha una quota di mercato del 64,7%. E infat­ti se quest’anno, anche a causa del­la crisi economica, gli investimenti pubblicitari sui mezzi di informa­zione sono stati drasticamente ri­dotti, l’unico a fare la differenza è stato proprio Internet che, tra gen­naio e maggio del 2009, ha registra­to un aumento degli investimenti del 7,8 %.
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L'inutile occhio del grande fratello

Istruttiva parabola del sistema video londinese anti-malavita.
Resa del grande occhio accecato da troppe immagini.

Rassegna stampa - Avvenire di oggi, Antonio Giorgi.

Qualche dubbio l’avevamo, e in effetti viene istintivo considerare che se fosse bastato disseminare nelle strade e nelle piazze la selva di telecamere che fanno mostra di sé in ogni centro grande o piccolo che sia, oggi le città sarebbero pacifiche, linde e ordinate, le notti silenziose come su un’isola deserta, nessuno oserebbe più scippare una vecchietta o accoltellare un rivale e gli imbrattatori di muri avrebbero cambiato da tempo mestiere. Il nostro personalissimo – e pertanto irrilevante – dubbio sulla reale efficacia delle telecamere in funzione anticrimine trova ora inaspettatamente conforto dalle affermazioni sconsolate dei vertici della polizia metropolitana di Londra, capitale di un Paese che ha piazzato quattro milioni di occhi elettronici (uno ogni quattordici cittadini, spiega chi ha fatto due rapidi calcoli) spendendo 500 milioni di sterline in un decennio. «Servono a poco», ammette sottovoce la polizia inglese. E se non è una dichiarazione di resa siamo certamente all’ammissione di impotenza, mentre lo strumento che doveva dare il colpo di grazia al crimine si svela per quello che è: rozzo, insufficiente, inadeguato. Altro che l’arma assoluta capace di debellare i malviventi e restituire la pax urbana alle città. Il bilancio della video-lotta alla malavita è dunque in rosso, e gli elevatissimi oneri di installazione e manutenzione del sistema lo confermano. Parliamo di Londra, certamente. Ma da noi i costi non sono certo inferiori, il business è business sotto qualunque cielo. Il sistema doveva farci più sicuri, si proponeva come una assicurazione sulla nostra incolumità e sui nostri beni e invece il sommesso – per ora – ripensamento londinese decreta il brusco ridimensionamento delle attese di quanti confidavano nel potere risolutivo dell’immagine registrata per prevenire il crimine e per venire a capo di rebus intricati quando un delitto, nonostante la deterrenza della telecamera, fosse stato consumato e si trattasse di mettere il sale sulla coda al suo autore. Perché si fa presto a dire telecamera, ma quando un crimine di strada è compiuto nulla come la collaudata, arcaica strategia dei marescialli di provincia e dei questurini della mobile si svela ancora oggi vincente. Una strategia fatta di conoscenza del territorio e dei residenti, pazienti ricerche, meticolosi ascolti e raffronti, sondaggi discreti, interminabili appostamenti, e nutrita – poi – di tanto, tanto camminare di casa in casa, di cancello in cancello, di bar in bar come erano usi fare i segugi d’antan. Passi su passi, a piedi, «fino a consumarsi le suole delle scarpe», raccontano ingrigiti protagonisti di epiche indagini approdate a esiti che l’occhio elettronico non è in grado di eguagliare. Sarà perché la miriade di telecamere vomita nelle sale operative delle centrali torrenti di immagini che è impossibile valutare, confrontare, decifrare all’istante. Sarà perché, come sempre, il troppo è troppo, disturba e si autodanneggia fino a rendersi inutile o quanto meno improduttivo.
Dice bene un intellettuale come il francese Paul Virilio, filosofo, urbanista, massmediologo: l’eccesso di immagine distrugge l’immagine, crea una sovraesposizione soffocante in mezzo alla quale è impossibile districarsi. Troppe immagini, in buona sostanza, diventano sinonimo di nessuna immagine. Punto e a capo. Ecco, a questo siamo arrivati, e a Londra sono i primi a rendersene conto: anneghiamo nei fotogrammi, annaspiamo tra una ripresa angolare e una verticale, ci scopriamo sorvegliati – noi che cerchiamo di fare i bravi ragazzi – ma non riusciamo a sentirci più sicuri. Con buona pace del Grande Vigilante e del suo occhio che ha principalmente un handicap: non sa pensare.
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Quando i migranti italiani morivano nell'Atlantico

Sulla questione dei migranti riprendiamo da Repubblica.it di oggi un articolo di Giulia Vola.
Le storie. Così il dramma dell'emigrazione resta scolpito nella memoria della comunità italiana d'Argentina.
Quando i migranti eravamo noi.
"I nostri morti gettati nell'oceano".
Rassegna stampa.

Buenos Aires - Loro muoiono nel Mediterraneo. Quando gli emigrati eravamo noi, morivamo nell'Atlantico. "Buttarono nell'Oceano donne, un bambino e molti vecchi, in tutto quasi venti persone. Così raccontava mio padre". Maria Dominga Ferrero vive in provincia di Cordoba, in Argentina, nella casa che suo padre comprò quando, nel 1888, arrivò alla "Merica" a bordo del 'Matteo Bruzzo'. Una casa con i muri bianchi, la cucina grande, le stanze ariose e l'orto nel retro. "In barca gli dicevano 'coma esto, gringo de mierda', mangia questo. Era pane e vermi. Vide morire di fame una donna incinta. Ma cosa poteva fare?".
Maria parla un po' in piemontese e un po' in castigliano, mentre gira la minestra di verdure che bolle sul fuoco. "La solfa era la stessa. La differenza era che se sopportavi il male potevi fare suerte, fortuna. Non come capita agli immigrati che oggi vanno in Italia. A l'è vera? Non è vero?". La domanda rimane sospesa, Maria apre i cassetti, cerca ricordi. "Mio padre - dice - all'inizio vendeva la verdura che coltivava ma nessuno capiva la sua lingua. Così vendeva tutto a 5 centesimi".
Loro, i sopravvissuti di oggi, vengono rinchiusi nei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione. Noi finivamo negli Alberghi degli immigrati gestiti dallo Stato o nei Conventilli in mano ai privati. Felicia Cardano è molto anziana, ma ricorda bene i racconti di famiglia: "Mio padre arrivò a Buenos Aires nel 1889 a bordo del 'Frisca'. Durante il viaggio morirono il suo migliore amico e altre trenta persone. Lo misero all'Hotel della Rotonda, un enorme baraccone di legno, dove si stava stipati come sardine insieme ai pidocchi e alla puzza. Si poteva rimanere al massimo cinque giorni, il tempo di trovare un lavoro in città o nei campi, dove era più facile".
Scenari confermati da Luigi Barzini che così scriveva sul Corriere della Sera nel 1902: "L'Hotel degli emigranti (lo chiamano Hotel!) ha una forma strana, sembra un gasometro munito di finestre (...). L'acre odore dell'acido fenico non riesce a vincere il tanfo nauseante che viene dal pavimento viscido e sporco, che esala dalle vecchie pareti di legno, che è alitato dalle porte aperte; un odore d'umanità accatastata, di miseria (...). Più in alto, le tavole serbano dei segni più vivi di questo doloroso passaggio: li direi le tracce delle anime. Sono nomi, date, frasi d'amore, imprecazioni, ricordi, oscenità raspati sulla vernice o segnati colla matita, talvolta intagliati nel legno. Il disegno più ripetuto è la nave; il loro pensiero guarda indietro!".
Gli stessi graffiti ricoprono adesso le pareti dei Cie, memoria recente del transito dei migranti di oggi, stranieri di tutto il mondo, che lavorano nei cantieri, nei campi, nelle cucine dei ristoranti, nelle case, invadono i quartieri, contaminando le loro e le nostre abitudini. Noi, i "gringos" di allora, invadevamo "le passeggiate perché sono gratuite, le chiese perché credenti devoti e mansueti, gli ospedali, i teatri, gli asili, i circoli e i mercati": così scriveva infastidito all'inizio del secolo il sociologo argentino Ramos Mejía.
Numeri alla mano, dal 1886 al 1889 gli emigrati partiti da Genova e sbarcati a Buenos Aires raddoppiarono da 43mila a 88mila. Nel 1897 nel porto argentino erano già sbarcati un milione di italiani. Nel 1895, su 660mila abitanti di Buenos Aires, 225mila erano dei nostri. In provincia di Cordoba i 4.600 del 1869 diventarono 240mila nel 1914. Muratori, fabbri, falegnami, calzolai, sarti, fornaciai, meccanici, vetrai, imbianchini, cuochi, domestici, gelatai e parrucchieri: non avevamo concorrenza.
"Si lavorava da matin a seira e la domenica si andava a messa ben vestiti - raccontano le sorelle Fusero, nipoti di Bartolomeo arrivato a Buenos Aires il 22 novembre 1905, a 22 anni - . I bambini mangiavano il gelato, le donne bevevano la limonata e gli uomini il vermouth. Si cantava Quel mazzolin di fiori, La Piemontesina e Ciao bela mora ciao, si giocava a bocce e si chiacchierava. La sera si mangiava la bagna càuda e prima di andare a dormire si pregava: il parroco dovette imparare il piemontese perché le donne, non riuscivano a confessarsi. Nduma bin! Eravamo messi bene! Siamo nati tutti nella stessa camera, all'ombra di un magnolia nata da un seme portato dall'Italia".
Centoventi anni dopo, i nuovi migranti inseguono in Europa il posto migliore dove vivere. Poi chiamano a raccolta il coniuge, i figli, il fratello, l'amico. Nel frattempo mandano i soldi a casa. "Noi, poveri e affamati di allora, andavamo a fare l'America - racconta la nipote di Giuseppe Caffaratti, torinese arrivato in Argentina nel 1890 a 15 anni - perché peggio di com'era in Italia non si poteva: era uno sgiai, uno schifo". "Emigravamo per mangè", racconta Reinaldo Avila, nipote di Giuseppe partito da Caraglio, in provincia di Cuneo, nel 1883. "Mio nonno era un contadino ignorante, si è spaccato la schiena nei campi. Oggi qui tocca ai boliviani e in Italia agli africani. È la vita".
Loro, i profughi di oggi, scappano dalle guerre moderne, dalla miseria dell'Africa, dell'Asia e dell'Est europeo. Noi, vittime di allora, fuggivamo dalla Grande Guerra. Racconta Margherita Lombardi, nipote di Clelia scappata da Alessandria: "Mia zia perse un figlio in battaglia nel 1916 e un altro nel viaggio sull'Oceano. Si salvò solo lei". Si fuggiva dalle cartoline precetto, il terrore delle madri: "Meglio un figlio lontano ma vivo che vicino ma sotto terra, disse mia nonna a mio padre Fernando - racconta Gladis Fiacchini - . Siamo cugini di Renato Zero, ma abbiamo perso i contatti: mio padre non volle mai più ritornare indietro".
Altri fuggivano dopo aver visto la morte in faccia. "Ci imbarcammo sulla 'Filippa' senza documenti e senza un soldo il giorno dopo che Miguel tornò dal campo di concentramento in Germania", ricorda Letizia Garessio. Suo marito, Miguel Bautista Pistone, argentino nato da italiani emigrati in America a metà '800, era tornato in Italia dopo aver fatto fortuna e durante la guerra era finito in un campo di concentramento: "Miguel era pelle e ossa - dice Letizia - , che cosa potevano fargli? Chi gli avrebbe impedito di salvarsi?". Gli dico che ora l'Italia respinge i profughi che vengono dal mare: "Meno male che siamo nati un secolo fa e che siamo scappati qui - commenta - . Miguel tornò in Italia solo una volta per vendere tutto e comprare una casa qui".
"Mio padre scappò da Fossano e dalla guerra che gli aveva ucciso un fratello - racconta Antonio Caballero - , aveva 17 anni e fin dal primo giorno cominciò a dimenticare l'Italia. Non ho mai parlato con i miei parenti rimasti a casa. Non ho mai imparato l'italiano perché nessuno me l'ha mai insegnato. Nessuno di noi ha fatto fortuna, semplicemente siamo sopravvissuti".
I migranti di oggi arrivano in Italia con il sogno di guadagnare per poter tornare in patria. Ma anche loro spesso finiscono per mettere radici. Come il nonno di Teresa Burdone, piemontese emigrato in Argentina alla fine dell'Ottocento: "Quasi tutti noi - dice Teresa - , figli o nipoti di italiani, abbiamo la doppia cittadinanza e un'altra vita da vivere, ma il cognome ci ricorda che siamo stranieri da sempre".
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Farla finita con una politica miope e schizofrenica

Da Avvenire riprendiamo l'articolo che segue di Carlo Cardia.
Ma l’Italia era «unita» prima di Garibaldi.
Rassegna stampa.

Una delle cose più importanti, in vista delle celebrazioni unitarie, sarebbe quella di non separare Stato e nazione, non esaltare il primo come unico referente della seconda, perché soprattutto in Italia costituiscono entrambi l’orizzonte di convivenza delle nostre popolazioni. Rispetto ad altri Paesi, lo Stato ha realizzato tardi l’unità politica italiana, ma ciò non cancella la tradizione culturale, religiosa, civile, che per secoli ha formato e plasmato la nostra identità, e per questo rientra appieno nella nostra memoria storica, nei programmi di studio, in quella profondità che riemerge di continuo come un fiume carsico.
Uno degli aspetti meno convincenti delle discussioni sulle celebrazioni unitarie è veder rigettati sull’unità realizzata nell’Ottocento i problemi successivi e quelli di oggi. Come se le vicende, anche dolorose, di Paesi di nuova indipendenza possano addebitarsi all’indipendenza stessa, anziché agli sviluppi storici e ai problemi della modernità. Anche la denuncia della povertà e inconsistenza dei protagonisti del Risorgimento, che avrebbero poi agito da conquistatori, oltre che ingenerosa, ignora che alternative storiche realistiche sono del tutto improponibili. In ogni caso, pur con qualche verità, restano tesi anguste che riflettono un provincialismo autolesionista, facente parte anch’esso delle nostre (meno nobili) tradizioni. Se si guardasse ad altre esperienze si scorgerebbero facilmente il travaglio che ha accompagnato la formazione di Stati unitari più antichi e solidi del nostro, le asprezze e le tragedie di cui le loro storie sono costellate.
Basti pensare ai fatti e misfatti delle case regnanti in Inghilterra, a delitti e faide tra esponenti dinastici, alcuni regolarmente registrati nella Torre di Londra, anche se vittime e mandanti regali sono stati magari sepolti nella stessa cattedrale con una pietas che ha cementato l’unità; o al prezzo di violenza e dominazione che ha dovuto pagare l’Irlanda, vittima secolare del consolidamento dell’identità inglese. Oppure ricordare la spietatezza di guerre e lotte intestine che la Francia ha subito nel suo emergere come Stato nazionale, e poi nella seconda sanguinosa identità rivoluzionaria nel 1789-94. Degli esiti totalitari della Germania del XX secolo si sa quasi tutto, compreso il ruolo svolto dalla cultura ottocentesca osannante lo spirito del popolo (Volkgeist) che escludeva gli altri.
Dunque, altrove lo Stato ha in qualche modo plasmato l’identità nazionale, ma l’ha fatto con la durezza rapportabile all’epoca in cui si realizzava l’unità. Se misurate su queste realtà, certe sottintese invidie di casa nostra (quasi un complesso di inferiorità) per la grandezza di altri Stati, si rivelerebbero prive di ogni consistenza. Da noi è avvenuto il contrario, perché l’unità politica è giunta dopo la nazione, nel momento in cui un’Italia divisa sarebbe stata assurdo anacronismo nell’Europa degli Stati. Ma proprio perché una identità italiana esisteva già, essa resta più profonda, possiamo vantarcene stando attenti a non scambiare particolarismi e localismi (nostro retaggio storico) con la fine dello Stato o della nazione. Stando attenti a non cancellare dalla nostra identità tutto quanto ha preceduto l’Italia unitaria, che appartiene ad una storia più grande di cui siamo stati protagonisti ricevendone eredità preziose.
La nazione italiana, prima ancora di divenire entità statale ha prodotto storia, cultura, spiritualità, che noi studiamo senza nemmeno star lì a pensare che santa Caterina era di Siena e non italiana, o che Dante e Machiavelli siano frutti esclusivi della cultura fiorentina, che Galileo sia di Pisa, Beccaria di Milano. Per questa ragione, e senza alcuna retorica, la nostra identità è indissociabile dalla romanità e dalla sua civiltà, ancor più dal cristianesimo e dalla Chiesa, come realtà che hanno plasmato in senso universalistico la cultura e la coscienza degli italiani. La Chiesa appartiene al mondo intero, eppure senza di essa la storia italiana non sarebbe immaginabile. La funzione di tutela svolta dal papato è stata ininterrotta nei secoli a cominciare dal fatto che i pontefici hanno difeso l’Italia dagli infiniti tentativi di conquista che venivano da ogni parte del Mediterraneo, o dai ripetuti tentativi medievali di germanizzazione degli imperatori, regolarmente (sia detto rispettando il profilo religioso) scomunicati e condannati da quasi tutti i papi teocratici.
Pochi ricordano che la sconfitta definitiva del Barbarossa passa attraverso la battaglia di Legnano e l’alleanza tra i comuni, Venezia e papa Alessandro III, e si conclude nella pace di Venezia con l’abbandono delle mire egemoniche di Federico di Hohenstaufen. La stessa storia del pensiero religioso produce nelle nostre terre un effetto unificante che coinvolge ogni campo dell’arte e della cultura, assicurando una identità diversa, più profonda di quella che poteva dare l’una o l’altra casa regnante. Da Benedetto ad Anselmo, da Ambrogio a Gregorio, da Tommaso d’Aquino a Francesco, uomini di preghiera, di pensiero e di azione (o tutte le cose insieme) entrano nella memoria storica dell’Italia unita con una naturalità impensabile in altri Paesi. Anche nelle scorrerie che i grandi Stati facevano nella penisola per stabilirvi una provvisoria egemonia non è vai venuto meno il comune senso di appartenenza delle popolazioni che hanno vissuto da protagoniste altri grandi movimenti storici, laici o religiosi, come il Rinascimento, la riscoperta della classicità, la tutela dell’unità religiosa, costruendo una lingua che si è formata letterariamente ed è divenuta una delle più musicali d’Europa. Nell’intrecciarsi di letteratura, sapienza giuridica, perfezioni artistiche ineguagliabili, l’identità italiana è apparsa a volte più chiara agli altri di quanto non fosse a noi stessi proprio per la mancanza dello Stato.
Oggi è noto che spesso gli studenti non sanno quando si è realizzata l’Unità d’Italia, e questo è il frutto di una scuola disastrata. Ma nessuno studente, anche il più povero di conoscenza storica, dubita che la nazione italiana esistesse già prima di quella data che non ricorda, e non dubita pur nella confusione di epoche che c’è nella sua testa che Leopardi, Foscolo, Ariosto o Tasso, Petrarca e altri ancora abbiano costruito la nostra identità.
La storia secolare ha immesso nella nostra sensibilità una radice universalista che non si è mai esaurita, ed ha attivato virtù sconosciute ad altri. La tendenza a scartare soluzioni estreme e feroci, di cui è piena la storia europea, una certa moderazione (tendente a saggi compromessi) di cui ha fruito anche lo Stato unitario, la capacità di collegarsi a movimenti internazionali senza piaggeria, l’istinto di accoglienza verso altre popolazioni di cui parliamo in questi giorni. Si tratta di elementi che dovremmo valorizzare con giusto orgoglio, consapevoli che il rapporto tra Stato e nazione è da noi peculiare, in qualche modo rovesciato rispetto ad altri paesi, con conseguenti debolezze e preziosi vantaggi.
In questo orizzonte, è vero che un nodo irrisolto della nostra identità è l’oscillazione tra universalismo e particolarismo, con cadute improvvise nelle paludi dei piccoli egoismi nazionali o regionali. Anche per questa ragione, un omaggio autentico alla nostra tradizione sarebbe quello di non perdere la visione generale dei problemi senza tornare a dividere Nord e Sud, e di farla finita con una politica verso gli immigrati miope e schizofrenica, realizzando con le leggi e con i fatti una accoglienza capace di integrare gli altri anziché respingerli. Questi, però, sono problemi che la modernità ci pone oggi, e che dobbiamo risolvere con gli occhi del realismo e della solidarietà, senza retoriche recriminazioni verso un passato costruito a tavolino. Anche così si recherebbe un contributo utile alle celebrazioni unitarie.
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Chi ricorda male dimentica

Il Cittadino pubblica oggi una lettera di Luca Canova, vice capogruppo del Partito democratico in Provincia.
Martiri. Governate e rispettate la memoria.
Rassegna stampa.

Gentile direttore, ho letto le dichiarazione di importanti esponenti della destra lodigiana, in merito alla commemorazione alla cerimonia dei Martiri del Poligono fatta da Edgardo Alboni.
Alboni e l’Anpi rappresentano un riferimento e un esempio per quanti sono cresciuti in una democrazia che gli italiani si sono conquistati sul campo e con il sangue. I suoi richiami si rifanno ai timori crescenti di razzismo e violenza, riduzione della libertà di informazione, degrado della morale pubblica. Non sono solo timori suoi, sono anche quelli dei Democratici e di gran parte delle democrazie europee.
La competizione interna spinge gli assessori a spararle sempre più grosse ma il Lodigiano ha bisogno di governo non di polemiche estive. La destra lodigiana ha vinto, governi e rispetti la memoria di chi è caduto per la libertà di tutti gli italiani.
Quanto alle dichiarazioni un po’ disinvolte dell’Assessore Capezzera sul fatto che i fascismo non fu il male assoluto e che dovremmo ricordare anche i repubblichini, la ricostruzione di un minimo di verità storica può aiutare. La Repubblica Sociale Italiana fu alleata organica del nazismo in un periodo in cui le persecuzioni razziali raggiunsero l’acme e nel quale repubblichini e nazisti compirono stragi di civili in tutta l’Italia del nord. A sessanta anni da quei fatti dobbiamo ricordare, a mio parere, soprattutto chi fu fucilato e torturato e consegnare nella discarica della storia chi fucilò e torturò gli italiani che insorsero contro il regime. È questo il senso del ricordo, non una melassa indistinta.
Fra chi riempì i campi di sterminio e chi li liberò, alleati e sovietici, rimane una bella differenza e noi siamo figli, come ricorda Alboni, dei liberatori e non degli aguzzini.
Quanto poi alle cose buone del fascismo anche Hitler fece le autostrade, ma il ricordo dell’Europa è soprattutto Auschwitz e 50 milioni di vittime di guerra. E le autostrade le fecero anche le democrazie americana e inglese, senza sterminare milioni di ebrei, omosessuali, zingari, testimoni di Geova, oppositori politici.
È questa la differenza fondamentale che va ricordata sempre, quella fra dittatura e democrazia, tolleranza e odio. Se è vero che chi dimentica è condannato a rivivere, chi ricorda male è come se dimenticasse. Andare oltre è giusto, ma senza dimenticare nulla.
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Il filtro magico

Antonio Proni ritorna oggi con una lettera a Il Cittadino sulla questione della centrale Sorgenia di Bertonico.
Centrale. La distanza dall’obiettivo resta notevole.
Rassegna stampa.

Nell’intervista del 19 luglio u.s. al nuovo presidente della provincia sul tema della Centrale a turbogas di Bertonico si dice tra l’altro “Chiederemo, come aveva proposto l’ex assessore all’ambiente Antonio Bagnaschi l’installazione di un filtro catalitico di ultimissima generazione in grado di far sì che le emissioni dell’aria siano il più possibile vicine a zero”. Il costo ipotizzato (non si sa da chi): 100 milioni di euro. Ho cercato di sapere, tramite la nuova amministrazione provinciale, più notizie di questo filtro magico che pulisce l’aria e fa sì che la Centrale di Bertonico non emetta sostanze inquinanti, ma non mi è stato finora concesso. Ho chiesto in particolare cosa fosse questo filtro (SCR od altro?), che cosa trattiene e quante e quali sono le emissioni dopo filtrazione e se si fossero eventualmente ipotizzati sistemi sequestranti per i circa due 2milioni di tonnellate di gas serra che verranno prodotti, ma non ho avuto risposta.
In realtà andando successivamente a leggere, per via elettronica, la bozza di convenzione realizzata dalla amministrazione provinciale precedente per la Centrale di Bertonico, si vede che non è prevista da subito la installazione di un sistema filtrante per gli ossidi di azoto se non (eventualmente) entro tre anni. Perché, dato che gli ossidi di azoto sono l’inquinante più pericoloso e peseranno per molte centinaia di tonnellate/anno nell’aria del lodigiano?
Eppure è noto e provato che con un sistema di combustione come il DLN 2.6 plus in combinazione con il sistema SCR (riduzione catalitica selettiva), inserito opportunamente in una caldaia di recupero, si possono abbattere gli ossidi di azoto fino a circa 5 mg/metrocubo. Il sistema per l’abbattimento degli ossidi di azoto è costituito ad esempio da un supporto di titanio all’86% con catalizzatore di riduzione a base di ossido di vanadio e tungsteno. Per l’abbattimento degli ossidi di azoto si può impiegare ammoniaca diluita al 25% che non presenta alcun pericolo (come un tempo poteva presentare la ammoniaca concentrata) o più semplicemente urea che è un solido. Il rilascio massimo di ammoniaca non reagita è 1 mg/metrocubo. Una delle società più quotate che fornisce questi sistemi di abbattimento è la ditta austriaca Envirgy, mentre fornitori del solo catalizzatore intercambiabile sono la Argillon (tedesca), la Haldortopsoe (danese), la Frauenthal (austriaca), la Hitachi (giapponese), la Cornetex (americana). Questi sistemi, da soli od insieme a combustori a basso tenore di ossidi di azoto, sono usabili nelle Centrali, negli inceneritori od in altri combustori che bruciano sostanze organiche come avviene assai spesso nel nostro territorio.
Un sistema di questo tipo (ad es.combustore serie DLN2 e filtro catalitico) è in corso di allestimento in Iride Energia a Torino Nord in una centrale in costruzione da 400MWe e sarà realizzato in altre realtà italiane quali la centrale di Loreo (Ro). Per quest’ultima (vedi intervista del «Cittadino» ad un ricercatore del CNR del 05/08/09) è previsto anche un sistema per il sequestro dell’anidride carbonica. Il costo complessivo di un impianto SCR di denitrificazione potrebbe essere significativamente inferiore ai 10 milioni di euro, su di un investimento complessivo di oltre 500 milioni di euro e particolare cura deve essere dedicata alla manutenzione di questi filtri affinché siano efficaci nel tempo.
Inoltre nella bozza della Provincia di Lodi per la centrale di Bertonico non si citano nemmeno per il futuro sistemi per il sequestro delle oltre 2 milioni di tonnellate di gas serra che verranno prodotti e non vengono considerate le decine di tonnellate di polveri primarie e condensabili da metano che non vengono misurate e che quindi “per definizione” sono inesistenti.
Diverso è il discorso per gli ossidi di carbonio per il quale sembra venga installato da subito un filtro catalitico (platino/palladio?) per l’ossidazione dell’ ossido di carbonio ad anidride carbonica (costo ipotizzato 2 milioni di euro): in questo modo per l’ossido di carbonio si passerebbe da 30mg a 5 mg/Nmetrocubo.
Conclusioni: la Centrale di Bertonico non ci voleva perché, per quanto possa essere basso l’inquinamento (grazie anche ad una buona legislazione regionale per le centrali a turbogas), si aggiunge ad una situazione ambientale del territorio già gravemente compromessa, ma se vogliamo dire che sarà la Centrale migliore d’Europa dal punto di vista emissivo, diamoci una mossa da subito, perché la distanza da questo obiettivo è ancora notevole.
Ps: confermo la mia disponibilità a fornire consulenza gratuita sull’argomento a chi lo ritenga utile.
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Lodigiano, è ancora crisi

Si teme per Akzo Nobel e Tego. Bene la Prysmian.
Crisi, settembre a rischio. Ecco l’elenco delle aziende che affrontano la tempesta.

Rassegna stampa - Il Giorno di oggi, Luigi Albertini.

Notizie rassicuranti si inseguono da settimane. Ma la schiarita pronosticata dai grandi economisti sembra ancora non coinvolgere il Lodigiano. Ma i sindacati, dopo la pausa estiva, si aspettano tutt’altro che un «settembre radioso». «In realtà — spiega Mario Uccellini, segretario della Cisl lodigiana — prevediamo un settembre difficile perché non si avvertono segnali di ripresa, anzi temiamo nuove riduzioni di personale». Uccellini subito soggiunge: «Non vogliamo passare per disfattisti, anzi ci piacerebbe essere smentiti dai fatti». Quali sono i settori a maggiore rischio nel territorio? «Il metalmeccanico, il chimico e quello delle costruzioni. Tutte le mattine sfoglio l’elenco delle aziende in sofferenza e vedo che continua ad allungarsi. Mi domando dove sia la ripresa». Per molti, mancano le commesse. C’è ancora preoccupazione per la Akzo Nobel di Fombio: concluso il periodo di cassa integrazione, ci saranno nuovi incontri sindacali.
Assemblea anche alla Pregis di Ossago, dove si vocifera il prolungamento della cassa fino a novembre per almeno 60 dipendenti. Alla Icc di San Martino in Strada il provvedimento proseguirà, pare per 19 lavoratori interessati alla mobilità. Incertezze alla Giannoni di Castiraga Vidardo, colosso delle componenti per caldaie: reduci da un periodo di cassa integrazione, l’azienda pare sia intenzionata a richiedere un prolungamento per tredici settimane. Stessa situazione alla Marcegaglia di Graffignana: pure qui è probabile il ricorso ad altre tredici settimane di vacanze forzate per almeno 60 lavoratori. Prolungamento della casa fino ad ottobre probabile per la Poligof di Pieve Fissiraga per circa 25 dipendenti, mentre alla Tego Becker di San Martino in Strada si dovrebbe proseguire sino a dicembre per 80 lavoratori. Fino al 31 ottobre, è ufficiale, per 75 dipendenti della Thermal Ceramics di Casalpusterlengo, colosso dei refrattari, mentre per la Baerlocher di Lodi la misura è stata richiesta per 96 lavoratori (progetto peraltro ancora da definire con i sindacati). Cassa fino a dicembre alla Tre Erre di Salerano per una decina di dipendenti. La Prysmian di Merlino interrompe invece la cassa integrazione.
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Lodi può essere la nuova Stalingrado

Riprendiamo da Il Cittadino di oggi due articoli di Greta Boni sulle prossime elezioni amministrative a Lodi. Elezioni che possono assumere una valenza anche extra-cittadina in quanto possono rappresentare un punto di svolta nella tendenza che ha portato i «nuovi lanzichenecchi» in Provincia e a Casale.
Il partito fa quadrato attorno al leader, ma servono alcuni “piccoli” cambiamenti.
Pd, salvate il “soldato” Guerini.
Rassegna stampa.

Il Pd ha un solo modo per salvarsi: fare quadrato attorno al suo uomo di punta. Naturalmente Lorenzo Guerini, il sindaco di Lodi (e presidente di Anci Lombardia) che correrà per la seconda volta alla conquista del Broletto.
Tra le fila del Partito democratico c’è chi guarda i risultati delle elezioni provinciali - che hanno portato alla vittoria del leghista Pietro Foroni - e sostiene che si debba fare di tutto per “salvare il soldato Guerini”. Con tutti i “se” della situazione, perché nel centrosinistra molti ricordano che il voto per la Provincia è tutto “politico”, mentre per il Comune quello che conta è il candidato. E in questo caso il candidato è uno che sa il fatto suo e che, soprattutto, conosce bene la politica. Molto dipenderà dal nome del suo avversario, e non è detto che lo sfidante appartenga alle fila del Pdl. Per sostenere con i fatti Guerini si sono già messi in moto il presidente del consiglio comunale e leader di Alleanza per Lodi, Paolo Colizzi, attraverso una propria lista, e Antonio Corsano, consigliere comunale, all’opera con una lista civica. Qualcuno, anche se a bassa voce, ritiene che il Pd abbia bisogno di alcuni “piccoli aggiustamenti”, che poi piccoli non sono affatto. A cominciare dalla guida della segreteria provinciale: Giuseppe Russo è stato eletto sindaco di Tavazzano e per alcuni è necessario nominare al più presto un nuovo responsabile, magari più giovane e con un po’ più di polso. Il momento però appare particolarmente delicato, visto che il partito a livello nazionale sta vivendo una fase traumatica per la scelta del proprio leader: non è quindi il caso di accapigliarsi proprio adesso. Anche se in realtà nel Lodigiano da questo punto di vista l’atmosfera sembra essere più distesa, senza che la battaglia tra Franceschini, Bersani e Marino abbia ripercussioni profonde.

Il centrodestra al lavoro per la competizione elettorale, ma la trattativa non è ancora nel vivo
Pdl, cercasi sindaco disperatamente.
Per le comunali il candidato potrebbe essere un leghista.


A settembre il “gioco” entrerà nel vivo. Il centrodestra dovrà trovare il candidato capace di sfidare Lorenzo Guerini, il sindaco di Lodi chiamato a respingere l’assalto alla fortezza di palazzo Broletto. Non sono in pochi a pensare che l’avversario debba essere un uomo “targato” Pdl. Alcuni esponenti del partito sono pronti a giurare che le cose andranno proprio così, dal momento che la Lega nord si è già aggiudicata la presidenza della Provincia di Lodi e del comune di Casalpusterlengo. Eppure, le speranze potrebbero essere disattese: non è detto che il Carroccio rinunci senza combattere alla possibilità di mettere le mani su palazzo Broletto. Anche in questo caso, come è successo con Pietro Foroni, i lumbard potrebbero far uscire dal cilindro magico un nome inaspettato. Secondo alcune indiscrezioni, i vertici starebbero già facendo qualche ragionamento in proposito, ma la fase delle “trattative” non è ancora iniziata. La Lega nord è già riuscita in passato a raggiungere l’obiettivo, quando a guidare la giunta c’era proprio Alberto Segalini, uno dei personaggi attualmente più in vista. L’ex sindaco, interpellato mesi fa dal «Cittadino», aveva preso categoricamente le distanze da qualsiasi insinuazione. Alla luce degli ultimi gossip, questa ipotesi sembra però svanire.
In queste settimane anche il Pdl si è messo in moto, con l’obiettivo di scegliere un personaggio conosciuto e stimato nella città del Barbarossa, sia dal punto di vista professionale che personale. Nonostante i pettegolezzi, sembra che il vicepresidente Giancarlo Regali non sia interessato alla carica e preferisca darsi da fare per mettere in tasca la vittoria con un lavoro di squadra. Ci si chiede se all’interno del Pdl ci sia una donna capace di tentare il “colpaccio”, e subito c’è chi pensa all’ex consigliere provinciale Patrizia Cardone. In ogni caso, gli azzurri dovranno presto fare i conti con i militanti di Alleanza nazionale, che non hanno nessuna intenzione di limitarsi a fare da traino per la campagna elettorale, come è accaduto per la tornata delle provinciali. Questa volta il coordinatore Pdl sul territorio, il vicepresidente della Provincia Claudio Pedrazzini, dovrà stare attento a evitare le mosse che in occasione delle recenti elezioni hanno scatenato l’ira degli alleati, gestendo la situazione senza lasciarla precipitare. Certamente i tempi stringono. A meno che, ancora una volta, il centrodestra “sfoderi” il nome del candidato... fuori tempo massimo.
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I soldi delle centrali meglio spenderli per i catalizzatori

Su Il Cittadino di oggi, Carlo catena ci dice che d’estate il sole trasforma ossidi di azoto e idrocarburi in polveri fini e micidiali sostanze ossidanti.
«L’ozono killer arriva dalle centrali».
Esperto del Cnr punta l’indice sugli inquinanti secondari.
Rassegna stampa.

Scomparso anche nel Lodigiano il “vecchio” inquinamento da biossido di zolfo, grazie alla riduzione del tenore di zolfo in gasoli e oli combustibili, ora l’emergenza per l’Unione europea e anche per le centraline Arpa che controllano la qualità dell’aria nella nostra provincia sono polveri fini e ultrafini, biossido di azoto e ozono al suolo: tutti inquinanti che le direttive comunitarie, ma anche gli studi più recenti dell’Isac-Cnr, legano ai combustibili fossili, metano e centrali a turbogas in prima fila, assieme agli autoveicoli. «L’ozono in particolare è un inquinante secondario e sappiamo che in Pianura Padana può arrivare quello prodotto in zone industriali transfrontaliere, così come vale anche il contrario – spiega Marco Cervino, uno dei ricercatori dell’Isac-Cnr che si occupano di modelli matematici di diffusione degli inquinanti -. Se non vi sono certezze sull’entità dell’impatto nelle immediate vicinanze dell’eliminazione di una fonte di inquinanti primari, è invece innegabile che una riduzione, ricorrendo a fonti di energia come il solare piuttosto che catalizzando le centrali termoelettriche, porti a un miglioramento generale della qualità dell’aria».
Un fenomeno storico è quello degli elevati livelli di ozono in estate: i dati Arpa (157 microgrammi metro cubo 48 ore fa Lodi e 145 ad Abbadia Cerreto) e Legambiente evidenziano come anche nel Lodigiano quest’anno si siano superati decine di volte i livelli di 120 microgrammi per metro cubo di ozono, situazione che se si ripeterà l’anno prossimo violerà le nuove regole europee. «Ossidi di azoto e composti organici volatili, dal metano agli idrocarburi, compresi i prodotti di combustione di centrali termoelettriche, inceneritori e impianti a biomasse, per effetto della radiazione solare si trasformano in ozono, una molecola di tre atomi di ossigeno che ha un potentissimo effetto ossidante – spiega Cervino -, e che causa danni alle mucose respiratorie oltre che alle foglie, con tanto di riduzione della produttività di colture agricole». Il legame tra emissioni delle centrali termoelettriche (e quella di Tavazzano, quasi del tutto metanizzata ma non catalizzata, è sopra vento rispetto a Lodi, con i suoi 45mila abitanti) e generazione dell’ozono è quindi assodato. Ma c’è poi una nuova ricerca dello stesso Isac, conclusa poche settimane fa, che riguarda gli aerosol che compongono le polveri fini: in Pianura Padana i picchi di questi aerosol sono tra le 4 e le 8 del mattino, quando lo spettrografo dell’Isac – Cnr li ha classificati come nitrati originati dall’ossido di azoto, e il secondo invece è tra mezzogiorno e il primo pomeriggio, e in questi casi sono i composti organici volatili che si convertono in particelle fini per effetto dei raggi del sole e dell’ozono. Inquinanti “terziari”, verrebbe da dire a questo punto. Ma anche in questo caso la combustione è la prima causa: «Se vogliamo respirare pulito dobbiamo rinunciare ai combustibili fossili - è la conclusione cui arriva Cervino – o almeno ripulire il più possibile i fumi». Se poi consideriamo che nel Lodigiano si produce almeno 15 volte l’elettricità che si consuma nel territorio (e con la nuova centrale di Turano – Bertonico saranno nuovi record) e che la mortalità per tumori è tra le più elevate d’Italia qualche interrogativo sarebbe il caso di porselo. Ad esempio se i soldi delle centrali, invece che per teatri e relative stagioni, municipi faraonici e rotonde lastricate in mattoncini, non sarebbe meglio spenderli per i catalizzatori, già obbligatori in molte Nazioni. Ma di queste cose si parla solo al Cnr o nelle aule di università. Nei palazzi del potere italiani e lodigiani gli argomenti sono ben altri.
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Intolleranza produce intolleranza

Andrea Bagatta ci racconta su Il Cittadino di oggi che il comune di Casale è al lavoro per trasformare il magazzino in luogo di culto, ma la gente mugugna: «Ma perché il sindaco non se li porta a casa sua?».
I residenti contro la nuova moschea.
Ramadan, in via Adda primi mugugni per l’arrivo degli islamici.

Rassegna stampa.

Si fa bollente il clima attorno alla scelta dell’amministrazione comunale di assegnare alla comunità islamica un capannone di via Adda come moschea provvisoria: i residenti non ne vogliono sapere e minacciano azioni di protesta. Mercoledì era arrivata l’ufficialità della chiusura della moschea di via Fugazza per il mancato rispetto della destinazione d’uso dell’immobile e l’annuncio che per concludere il Ramadan i musulmani avrebbero potuto contare su uno spazio pubblico di via Adda 19. Lo stabile individuato dall’amministrazione comunale come moschea temporanea fino alla conclusione del Ramadan, il 21 settembre, è un magazzino posizionato proprio al centro di un’area residenziale, tra il distretto sanitario dell’Asl, una piccola palazzina privata e un complesso di palazzi. Due gli accessi: dalla parte del distretto dell’Asl, in fronte alla via Emilia, c’è un parcheggio con un grande giardino pubblico, sul retro, in via Adda 19, a pochi metri corre la ferrovia. Ancora non è stato comunicato quale accesso sarà utilizzato, né è stato specificato dove saranno posizionati i bagni chimici e i lavandini per le abluzioni. Questi sono i piccoli interventi promessi dal comune, insieme alla posa di alcune luci e allo spostamento del materiale depositato all’interno, prima di dare il via libera all’uso dello spazio pubblico. «Il costo sarà a carico del comune, anche perché le attrezzature poi resteranno nostre, ma anche se non sappiamo ancora la cifra precisa, stiamo parlando di cifre davvero basse - dice il sindaco Flavio Parmesani -. Nemmeno l’affitto sarà un problema: tutt’al più sarà una cifra simbolica necessaria per i passaggi burocratici». In attesa della sistemazione, che potrebbe costare alle casse comunali fino a qualche migliaio di euro, per pochi giorni ancora è stata concessa una proroga ai musulmani per restare in via Fugazza. E in via Fugazza i residenti di via Adda avrebbero voluto che la moschea restasse. «Ma come, la spostano da là a qui solo per tre settimane? - chiede tra l’incredulo e l’arrabbiato Pasquale, la cui abitazione confina con il capannone comunale -. Per così poco tempo potevano tenerla ancora in via Fugazza. Invece, una volta che saranno entrati qui dentro non vorranno più andarsene. Noi qui non li vogliamo, e ci faremo sentire». «Mi chiedo perché facciano le cose senza prima ascoltare il parere dei residenti - gli fa eco la signora Antonia, residente nel palazzo a fianco della nuova moschea temporanea -. Perché il sindaco e gli assessori non se li portano a casa propria? Se è solo per tre settimane, il comune poteva allestire un tendone dove farli pregare, senza rovinare il quartiere». «Dove arrivano, c’è sempre caos e sporcizia, e non li mandi più fuori - dice il signor Luigi -. Non li vogliamo, e magari faremo qualcosa tutti insieme per farlo capire al comune». I parcheggi, le preghiere rumorose, il caos del traffico, le famiglie e i bambini al seguito, il rispetto dell’igiene e del decoro della zona sono le principali preoccupazioni dei residenti che finora, nonostante le lamentele, non hanno ancora deciso manifestazioni di dissenso. D’altronde, in questi giorni alcuni sono ancora in ferie, e altri non hanno ancora appreso la notizia. Ma nei prossimi giorni la protesta potrebbe salire.
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Moretti fatti un giro su un treno dei pendolari

Pendolari infuriati per la sporcizia sulle carrozze.
Il servizio di Trenitalia? «Sembra uno scherzo».
Rassegna stampa - Il Cittadino di oggi, Greta Boni.

I pendolari sono sempre più indignati. Nonostante le risorse che lo Stato distribuisce a Trenitalia, il servizio non migliora. E non è solo una questione di ritardi o materiale rotabile scadente, sulle carrozze si deve affrontare persino la sporcizia che invade sedili, finestrini e pavimenti. Per non parlare delle toilette.
«Nei giorni scorsi é stato approvato alla Camera il decreto legge sul trasporto ferroviario regionale, il provvedimento ponte - afferma Giuliano Carenzi, pendolare della Bassa - che prevede lo stanziamento di 80 milioni di euro a favore di Trenitalia, al fine di “garantire l’attuale standard ferroviario” per le regioni a statuto ordinario». Una motivazione che ha lasciato di stucco i viaggiatori: «Cos’è, uno scherzo? - si chiede Carenzi, insieme al gruppo di passeggeri lodigiani -. Qual è lo “standard di riferimento”? Lo standard attuale, che viene garantito dal provvedimento ponte a suon di milioni, si può verificare dalle immagini scattate il 26 agosto sul convoglio 20416 che percorre il tratto Piacenza-Sesto S.Giovanni, ma i treni pendolari sulla tratta sono tutti a questo livello e non possono riferirsi ad un servizio pubblico di un paese civile! Molte persone sono rimaste in piedi per non sporcarsi».
Per questo motivo i pendolari invitano i vertici a fare un giro sui convogli dei pendolari: «Moretti (amministratore delegato delle Fs, ndr) dovrebbe mettere il naso fuori dal Freccia Rossa - sottolinea Carenzi -, indossare una tuta sterile e, dopo le vaccinazioni del caso, salire sui convogli pendolari per rendersi conto di quale sia “l’attuale standard ferroviario”. Se lo facesse - conclude Carenzi -, potrebbe verificare anche le condizioni inumane riguardanti il riscaldamento e il condizionamento, dato che caldo e freddo non si possono fotografare. Qualcuno dovrebbe solo solo vergognarsi».
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