1989-2009. Dalle macerie del muro.
Rassegna stampa - il manifesto, Anna Chiarloni, 8 novembre 2009.
Vent'anni dopo, l'eco di scrittori come Christa Wolf, Stefan Heym, Volker Braun, Christoph Hein. Un tempo i loro libri erano oggetti di culto, dopo il crollo del muro furono accusati di avere giustificato il regime di Honecker. E vennero travolti dalle sorti della Ddr, discreditata dalle rivelazioni sull'ampiezza della rete di controllo della Stasi, minata dalla chiusura dell'apparato produttivo imposta da Bonn, e infine bollata come «postilla della storia»
A vent'anni di distanza, le immagini di quegli scrittori della Ddr che nell'Alexanderplatz il 4 novembre 1989 chiedevano un rinnovamento interno appaiono oggi come un tassello dell'archeologia socialista, in quella breve stagione di appelli intellettuali. Volker Braun e Christoph Hein, Stefan Heym e Christa Wolf li avevamo visti nelle intense settimane precedenti tra la folla a discutere un possibile nuovo progetto capace di rinnovare la Ddr integrandola in una confederazione dei due stati tedeschi. Era, questo, il Berliner Traum, il sogno di una rifondazione del corpo sociale una volta libero dalle pastoie del vecchio apparato di marca sovietica. Un'illusione rapidamente naufragata: tra le incertezze di una riforma interna e il miraggio di un immediato benessere economico i giovani scelgono la via occidentale. Nella Ddr si verifica un vero e proprio crollo dei valori di riferimento. Ricordo l'acceso dibattito all'Akademie der Künste, sul podio Christa Wolf, pallida e affranta, che con altri intellettuali si interroga sul fallimento in corso, su quell'esodo di gioventù attraverso l'Ungheria, un flusso continuo fino al 9 novembre quando, con un secco comunicato, il governo abroga il divieto d'espatrio. La sera stessa, tra il tripudio della folla, si apre il primo varco nel muro di Berlino. Un evento epocale, che ha cambiato la storia, anche la nostra.
All'euforia generale nella Ddr segue quello che Stefan Heym chiamò il «mercoledì delle ceneri», ossia il rapido tracollo dello stato socialista, travolto dall'abile retorica politica di Bonn. «Ogni promessa / genera una nausea repentina» scrive Günter Kunert, mentre da ovest il coetaneo Hans Magnus Enzensberger osserva scettico quel muro di cemento che «si sbriciola, fradicio di champagne» lasciando passare i «pellegrini» orientali avviati a frotte verso il consumismo occidentale. L'unificazione monetaria avviata dopo le elezioni del 1990 determina una paralisi delle strutture sociali portanti. Chiusi i battenti a gran parte delle istituzioni culturali, dalle accademie ai conservatori fino alle emittenti televisive, i tedeschi dell'est assistono inermi alla cancellazione della cosiddetta Ddr-Identität, un processo che darà poi origine al fenomeno della Ostalgie. Esclusa ormai dal circuito commerciale sovietico, la produzione ristagna e iniziano i primi massicci licenziamenti. Dalle case editrici, ormai privatizzate, si spazzano via quintali di libri. Martin Wescott, pastore evangelico, passerà alla storia per aver salvato col suo camion centinaia di volumi avviati al macero nei dintorni di Lipsia.
L'invenzione del futuro
Come reagiscono gli intellettuali orientali? A occidente gli umori sono cambiati. La riunificazione comporta nuove tasse e svanito il primo entusiasmo si comincia a fare i conti, anche col passato. Discreditata dalle rivelazioni sull'ampiezza della rete di controllo della Stasi, minata dalla chiusura dell'apparato produttivo imposta da Bonn, la Ddr viene bollata come «postilla della storia». Autori dell'est un tempo glorificati vengono ora accusati di avere giustificato con la loro permanenza al di là del muro il regime di Honecker. Anche in ambito storiografico il segno valutativo si capovolge. In occidente pare quasi che la Ddr non sia stata altro che un sistema di soprusi, censure e repressione poliziesca. Una immagine che sarebbe stata poi ribadita da un film di grande successo, La vita degli altri.
In realtà è la diversità ideologica di fondo che scatena, dopo la caduta del muro, una sorta di crociata contro gli autori più noti come Christa Wolf. Anche Volker Braun è nel mirino: quando un critico occidentale lo bolla come «anima morta del socialismo», accusandolo di essere stato il bardo di un'ideologia fallimentare, il poeta risponde arrotando i suoi giambi. In Das Eigentum (La proprietà, 1990), la difficile situazione che si profila coi licenziamenti nei Länder orientali viene definita ribaltando provocatoriamente il motto di Büchner nel suo contrario: «Guerra alle capanne, pace ai palazzi». Un sonetto a polso teso, questo: dodici versi conchiusi, blocchi semantici sospesi su una domanda irrisolta di uguaglianza, diretta a un «voi» artigliato e lontano: «La mia proprietà ora è nelle vostre grinfie. / Quando tornerò a dire mio e a intendere di tutti?». Resiste insomma in questi intellettuali un progetto portante, ovvero «l'invenzione del futuro», come recita il titolo di un libro in corso di stampa da Scheiwiller, curato da Michele Sisto.
In possesso della verità
È interessante notare come il ricorso al mito, prima del 1989 utilizzato a piene mani per rappresentare, spesso in modo allusivo, le contraddizioni interne alla Ddr, ricorra anche nella letteratura successiva. Con una pièce sperimentale, Iphigenie in Freiheit (Ifigenia in libertà, 1992), Braun mette in scena l'annessione: Ifigenia è la Ddr, oggetto di un baratto tra le grandi potenze, sullo sfondo di uno scenario maleodorante e inaridito. Il processo di privatizzazione della Ddr sconvolge il paesaggio e trasforma il quotidiano. Anche nella letteratura occidentale si vedono tracce consistenti di questa svolta, si pensi a Günter Grass, a Delius o al tempestoso drammaturgo Rolf Hochhuth. In effetti le trattative condotte nel 1990 da Lothar de Maizière conducono a una svendita della Ddr, lasciando i cittadini a mani vuote. Con plastica evidenza Heinz Czechowski, poeta di Lipsia, ci trasmette in Dietro la città le immagini di quella mutazione. Campi lottizzati e resti deserti di una cooperativa agricola chiusa: nella cadenza dei versi questa sorta di inventario dell'anima socialista allinea figure mute, lemuri scompaginati dall'avvento di un tempo diverso che si aggirano in cerca di senso in un territorio divenuto estraneo.
Per gli intellettuali tedeschi sono anche anni, questi, di riflessione sul Novecento. Prendono per primi la parola, redigendo ampie memorie, gli autori orientali che hanno attraversato le diverse fasi storiche, dal nazismo alla guerra fino alla scomparsa della Ddr: Günter De Bruyn, Heiner Müller, Günter Kunert, Stefan Heym e Christa Wolf pubblicano tra il 1992 e il 2002 la loro visione del secolo breve. Salvo «Un giorno all'anno» della Wolf quei testi, essenziali per capire a fondo la Germania, non sono tradotti, ma ne dà conto il recente saggio di Daniela Nelva (Identità e memoria. Lo spazio autobiografico nel periodo della riunificazione tedesca, Mimesis 2009). L'analisi di Heiner Müller la si coglie anche in un breve testo poetico, Fernsehen (Televisione). La domanda di fondo investe, dopo il crollo del sistema, la relazione con ciò che si è scritto nella Ddr, quando ci si credeva «in possesso della verità». Dagli spalti della Germania riunificata il poeta osserva le ceneri del socialismo, i resti del paese macinati dal laborioso meccanismo della Treuhand, ma anche la mercificazione dei nuovi orizzonti, la festa crudele del consumo.
Approdati dove?
Su tutt'altro versante, ancora un raccordo con il mito è quello che Christa Wolf stabilisce nella sua Medea, che esce nel 1996 e conquista una immediata notorietà anche presso il pubblico italiano (è interessante consultare la recente bibliografia pubblicata per i suoi ottanta anni:www.germanistica.it). Tutti ricorderanno come, caduto il muro, questa scrittrice di fama internazionale sia stata bersaglio della stampa occidentale più retriva, capro espiatorio della volontà di liquidare l'intellighentsia orientale, praticando a volte una rozza equazione tra il nazismo e il cosiddetto socialismo reale. La voce di Medea segnala una rivolta contro ogni forma di mistificazione storiografica, anche di quella relativa al recente dopoguerra, e permette a Christa Wolf di riproporsi come figura «forte» di intellettuale, capace di riscrivere la storia alla ricerca di una verità che vuol essere coinvolgimento esistenziale e formazione della coscienza. La scrittrice non perde il suo piglio critico; nel 2002, invitata dall'Accademia delle Scienze di Amburgo, dichiara: «Con il mio ultimo libro, In carne ed ossa, la critica occidentale mi definisce benevolmente "approdata" - ma approdata dove? A ben guardare questa è una critica parente - anche se di segno contrario - di quella che mi rimproverava subito dopo la riunificazione di non aver definito abbastanza "cattiva" la Ddr e "buona" la Brd. Un'allegra continuazione degli equivoci? La mia ipotesi: si temeva e si teme lo sguardo estraneo. Dico si ma dovrei dire noi. L'adesione della Ddr alla Brd è stata uno scontro, le due parti del paese si sono guardate con occhio straniato. Incertezza e disorientamento. E tuttavia l'approdo della Germania a paese normale. Ma è un fattore di normalità che le truppe tedesche partecipino alle operazioni all'estero mentre in casa molti rifiutano gli stranieri e l'antisemitismo monta?».
Certo, tutto si può dire della Ddr ma non che fosse uno stato con ambizioni espansionistiche, e infatti a est non c'è chi non sia solidale con Christa Wolf. Significativo è il titolo di una raccolta poetica di Volker Braun, Tumulus: un termine di altura e vedetta critica che rimanda sia al De bello gallico, sia alla Guerra del Golfo, con il suo funereo riflesso mediatico. Prendendo una posizione contrapposta a quella di Enzensberger, che si pronuncia a favore della guerra in Iraq, il poeta scrive: «Ancora sono tombe le orme della libertà e la democrazia avanza su tappeti di bombe».
Un Simplicio dei nostri tempi
Cadute le barriere, gli intellettuali della Ddr si rimettono in viaggio nel mondo e nella storia. Christa Wolf indaga la società statunitense tra le pagine di un libro di racconti datati 2005 e titolati Con uno sguardo diverso. È il mondo della multiculturale Los Angeles ad apparire diverso sotto lo sguardo della scrittrice, che coglie fotogrammi di un chiassoso party elettorale per Bush, individua nella folla i russi immigrati, applaude lungo le rive oceaniche di Santa Monica al jogging delle innocenti magliette sudate con sopra scritto «Do you like me?». E accanto scorre la riflessione sulla cronaca televisiva a ridosso dell'attentato del 2001, con la sua ossessiva convergenza semantica sull'urgenza militare. Flâneuse della storia, Christa Wolf tende a indagare razionalmente gli eventi e al tempo stesso li riattraversa stabilendo un dialogo con improvvisi e pungenti personaggi del passato: Brecht, ad esempio, o le inquiete figure di donne ebree scampate alla Germania nazista. La rievocazione di un paese ospitale - l'America che accolse gli emigranti in fuga da Hitler - si contrappone al «bacillo» neonazista delle periferie orientali della Berlino riunificata. Segnali di movimento a chiasmo, destinati a spazzare via il sospetto di un antiamericanismo di maniera.
Aperta sul mondo, la prosa di questi autori mette a fuoco gli snodi del secolo nuovo. Braun indaga i problemi connessi con la globalizzazione in tre racconti di umano sconcerto migratorio - Das Wirklichgewollte («Ciò che veramente si vuole», 2000) - ambientati rispettivamente in Italia, Brasile e Russia. Premio Büchner nel 2000, Braun continuerà a incalzare il lettore alternando il registro lirico a quello grottesco, come rivela la storia tragicomica di Flick, l'operaio un tempo specializzato di Machwerk (2008). Sorta di Simplicio dei tempi nostri, Flick è nella Germania riunificata un disoccupato che, accompagnato dal nipote apprendista, invano attraversa mezza Europa in cerca di un lavoro purchessia, ovvero «raffazzonato», come indica il titolo del libro.
E accanto alla figura dell'operaio ormai inutile si profila l'emblema di una nuova generazione, apprendista del nulla in un mondo che le nega spazio e senso.
Con la scomparsa della cortina di ferro si assiste a un fenomeno ben lungi dall'essere esaurito: il flusso migratorio da est verso la Germania. Christoph Hein è tra i meglio attrezzati a cogliere le contraddizioni della nuova realtà: in Willenbrock (2000) affronta il nodo drammatico dell'immigrazione dall'est europeo e mette al centro del romanzo un auto-mercato, luogo emblematico dell'economia tedesco-orientale dopo la caduta del muro, ai cui cancelli la mattina preme «mezza Varsavia», ossia quella spettrale folla in mal arnese che si affaccia sulle vetrine della opulenta Europa occidentale. Ne è proprietario Bernd Willenbrock, onesto cittadino emergente della nuova Germania; ma intorno a lui preme una gioventù allo sbando, pronta a ogni violenza. Col primo furto, cui seguono scasso e colluttazione fisica di marca slava, scatta il meccanismo che condurrà al tragico epilogo.
Hein articola la sua analisi su un doppio binario. C'è il cittadino che chiede protezione ma, di fronte all'inerzia dello stato, cede all'angoscia trasformandosi egli stesso in allucinato giustiziere. E c'è intorno a lui una feccia che tracima dai confini dell'impero sovietico in sfacelo. L'indagine muove sullo sfondo di una Berlino che ormai sente «la Siberia alle porte». Degenerazione politica, criminalità e corruzione, ecco la diagnosi di Hein. Un verdetto così negativo sull'est europeo, e per di più emesso da un autore proveniente da una cultura di fratellanza con l'Urss, è nuovo nella letteratura tedesca. Ma va ascritta a Hein la spregiudicata capacità di registrare quei mutamenti che, lungo il piano inclinato della storia, stanno cambiando il volto dell'Europa.