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martedì 10 novembre 2009

BlogNotte - Gente che si commenta da sola

Blog Notte
Gente che si commenta da sola

10 novembre 2009

Da subito un video che immortala per i posteri l'esternazione di un personaggio da sempre controverso ed ora un tantino squallido, o se volete, per dirla banalmente con le parole della sorella di Stefano Cucchi, uno che "si commenta da solo". Scioccante: "Cucchi è morto perché drogato e anoressico", già, proprio così ha detto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri a Radio 24, intervenuto alla trasmissione "24 Mattino" sull'argomento droga. "Era in carcere perché era uno spacciatore abituale. Poveretto è morto - e la verità verrà fuori - soprattutto perché era 42 chili".



Reso questo "tributo" al personaggio, parliamo di Cosentino.
Nicola Cosentino "contribuiva, sin dagli anni '90 a rafforzare vertici e attività del gruppo camorrista facente capo alle famiglie di Bidognetti e Schiavone" in cambio del sostegno elettorale che riceveva dai Casalesi. Si compone di 351 pagine l'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del tribunale di Napoli Raffaele Piccirillo nei confronti del sottosegretario all'Economia e coordinatore regionale del Pdl Nicola Cosentino accusato di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso e per il quale il tribunale di Napoli chiede alla Camera l'autorizzazione procedere.
Nicola Cosentino "contribuiva, sin dagli anni '90 a rafforzare vertici e attività del gruppo camorrista facente capo alle famiglie di Bidognetti e Schiavone". È quanto si afferma, tra l'altro, nel capo di imputazione per concorso esterno in associazione mafiosa. Da tale sodalizio il sottosegretario "riceveva puntuale sostegno elettorale in occasione alle elezioni a cui Cosentino partecipava quale candidato diventando consigliere provinciale di Caserta nel 1990, consigliere regionale della Campania nel 1995, deputato per la lista Forza Italia nel 1996 e, quindi, assumendo gli incarichi politici prima di vice coordinatore e poi di coordinatore del partito di Forza Italia in Campania, anche dopo aver terminato il mandato parlamentare del 2001". Cosentino avrebbe in particolare "garantito il permanere dei rapporti tra imprenditoria mafiosa, amministrazioni pubbliche e comunali".
Nel capo di imputazione si fa riferimento, inoltre, a "indebite pressioni nei confronti di enti prefettizi per incidere, come nel caso della Eco4 spa (società che operava nel settore dei rifiuti) nelle procedure dirette al rilascio delle certificazioni antimafia".
Cosentino è anche accusato di aver curato e cogestito "monopoli d'impresa, quali l'Eco4 spa e nella quale Cosentino esercitava, in posizioni sovraordinata a Giuseppe Vitiello, Michele Orsi (ucciso poi in un agguato di camorra, ndr), e Sergio Orsi, il reale potere direttivo e di gestione, così consentendo lo stabile reimpiego dei proventi illeciti, sfruttando delle attività di impresa per scopi elettorali, anche mediante l'assunzione di personale e per diverse utilità".



A poche ore dalla richiesta di arresto del sottosegretario all'Economia Nicola Cosentino (e dalla diffusione dell’ordinanza di custodia cautelare del gip di Napoli), il mondo politico si spacca. C’è chi lo incoraggia ad “andare avanti”, chi gli chiede di "resistere", chi lo invita a “dimettersi da sottosegretario”.
Fino a poche ore fa, il nome del parlamentare era nella rosa dei candidati del centrodestra a presiedere la regione campana. Un’ipotesi che è stata scartata dal presidente della Camera Gianfranco Fini nell’intervista ad Emilio Carelli.
All’interno del Pdl, le reazioni alla richiesta di arresto non sono però concordi. Il paralmentare Niccolò Ghedini ha criticato l’ordinanza, parlando di accuse "incredibili ed inconsistenti solo ad osservare che da moltissimo tempo sono annunciati, a mezzo stampa, indagini e provvedimenti nei suoi confronti, al solo evidente fine di screditarlo ed impedire una fisiologica ed ottima candidatura alla guida della regione Campania”.
Solidarietà anche dal premier, che questa mattina avrebbe chiamato il sottosegretario (che riveste anche l’incarico di coordinatore campano del Pdl) per invitarlo a tenere duro e ad andare avanti.
Stessa reazione arriva da due dei coordinatori del Pdl, Sandro Bondi e Denis Verdini: “con la richiesta di custodia cautelare inviata alla Camera dalla Procura di Napoli – ha commentato Verdini- siamo in presenza di un'iniziativa giudiziaria 'a comando'. Mai come in questo momento assistiamo a una pericolosa e vergognosa commistione fra politica e magistratura".
Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha invece perferito trincerarsi dietro un secco no comment: "A Bruxelles parlo solo di quello che è successo qui".
Più netta, la posizione del presidente della commissione nazionale Antimafia, Beppe Pisanu, del Pdl: "Non candiderei nessuno se sospettato anche infondatamente finché quel sospetto non fosse stato fugato”.
Dall’opposizione, il segretario del Pd Pierluigi Bersani parla di “una questione piuttosto seria” e invita sia il governo sia Cosentino a “valutare cosa fare”. Il capogruppo alla Camera dell'Italia dei valori, Massimo Donadi, chiede invece le immediate dimissioni del sottosegretario: “Che Paese è diventato questo – si chiede - dove ad un politico indagato per i suoi rapporti con la camorra è impedito di candidarsi alla presidenza della regione, ma è consentito rimanere al suo posto di sottosegretario? La credibilità della politica italiana, dopo episodi come questo, è prossima allo zero". E Claudio Fava, del coordinamento nazionale di Sinistra e Libertà, aggiunge: un eventuale candidatura alla presidenza della regione Campania "sarebbe oltre che inopportuna, fortemente offensiva per le istituzioni e per i cittadini di quella regione che in tanti hanno fatto della battaglia alla camorra una ragione di impegno civile e morale".



Il presidente della Camera Gianfranco Fini, come ricordato in precedenza, ha escluso la possibilità che Nicola Cosentino possa concorrere alla presidenza della regione Campania. "Non è nel novero delle soluzioni possibili".



Ed ora l'unico problema che ha l'Italia secondo Berlusconi.
Dopo il lungo faccia a faccia tra il premier e Gianfranco Fini il centrodestra sembra mettere un punto fermo sulle prossime mosse in tema di giustizia. Esclusa la prescrizione breve, si punta a misure per ridurre i tempi dei processi. Ma davanti all'intesa annunciata nel centrodestra il Partito democratico si mostra cauto. Durissima l'Italia dei Valori che bolla le nuove misure come un atto criminale.



E chiudo come Santoro con qualche vignetta di Vauro.





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Per una politica meno prona al razzismo

Italiani clandestini e contribuenti stranieri.
Stranieri e conti pubblici: una ricerca Isae conferma che il rapporto dare/avere è ancora molto sbilanciato a sfavore degli immigrati.
Dai Blog - Sbilanciamoci.info, Kaldor, 9 novembre 2009.

1. Qualche tempo fa, una mia amica, restauratrice, mi raccontava di un collega di simpatie leghiste che, durante il lavoro, si lamentava di come gli immigrati rubassero il lavoro a noi italiani, di come a loro andassero tutti i servizi pubblici finanziati con le sue tasse, insomma, il solito campionario di luoghi comuni. Il bello è che questo restauratore lavora in completa clandestinità: il suo laboratorio non è sulla strada e lui non esiste né per l’Inps, né per l’Inail, né, tantomeno, per il fisco. La mia amica, d’altra parte, che tasse e contributi li pagava, dovette, poco dopo la conversazione, chiudere l’attività perché non era in grado di reggere la concorrenza di quelli che lavorano in nero.
Di storie analoghe oggi se ne leggono parecchie sui giornali. Ma con una piccola differenza: l’artigiano leghista clandestino viene regolarmente sostituito dall’immigrato, nordafricano se lavora nei campi, cinese se nell’industria, romeno in edilizia. Durante una lunga nottata in treno giuro di aver ascoltato un “artigiano” delle false griffe nei bassi napoletani scagliarsi, invocando legalità e repressione, contro i cinesi che stanno rilevando i laboratori partenopei e vi producono le stesse borse e cinture a prezzi ancora più bassi dei locali.
Insomma, la causa delle difficoltà economiche degli italiani, tutti a parole lavoratori indefessi e ligi a leggi e norme fiscali, sarebbe da ritrovare negli immigrati, generalmente clandestini e privi di senso civico, che creerebbero economia sommersa, così sottraendo lavoro e gettando sul lastrico imprese e lavoratori locali, costretti ad adeguarsi per sopravvivere.
Basterebbe richiamare il carattere endemico del sommerso nell’economia italiana per dimostrare quanto strumentale sia questa tesi. D’altra parte, il fatto che siano spesso i segmenti del mondo del lavoro e delle imprese che già operavano nell’illegalità a lamentarsi di più dell’aumentata competizione segnala un disagio sociale al quale la destra è finora riuscita a dare rappresentanza, indicando appunto nell’immigrato la causa dei problemi, mentre la sinistra balbetta spesso risposte di scarso momento, quando non, ahimè, scimmiottanti le tesi del campo avverso.

2. Eppure, gli elementi per un’analisi e per una politica meno prona al razzismo nostrano si moltiplicano. Da ultimo, la recente ricerca ISAE Effetti dell’immigrazione sulla finanza pubblica e privata in Italia, della quale si può trovare sintesi nel nuovo rapporto Politiche pubbliche e redistribuzione, presentato qualche giorno fa nella sede dell’Istituto a Roma. Si tratta di un lavoro che cerca da un lato di ricostruire su dati di bilancio i rapporti economici di dare e avere degli immigrati con l’amministrazione italiana; dall’altro di studiare sul campo l’utilizzo dei servizi sociali pubblici e dei servizi finanziari privati, attraverso un’indagine basata su interviste a 800 stranieri che vivono nella capitale.
Per quanto riguarda i rapporti fra immigrati e bilancio pubblico, i ricercatori ISAE confermano quanto già emerso da altre indagini (cfr. ad esempio il capitolo di Grazia Naletto nel Rapporto sullo stato sociale 2008 o i rapporti INPS 2008 e 2009 su Rapporti fra immigrati e previdenza): a oggi, il saldo del dare e dell’avere è largamente positivo per lo Stato italiano. Di fatto, i 3,5 milioni di stranieri regolarmente presenti in Italia nel 2008 pagano annualmente 4,6 miliardi di contributi previdenziali e ricevono pensioni per 1,8 miliardi (peraltro erogate in massima parte a cittadini italiani nati all’estero); quasi non godono di ammortizzatori sociali (400 milioni la spesa); essendo generalmente giovani e sani, incidono relativamente poco anche sul sistema sanitario (600 milioni per ricoveri ospedalieri, comprese le maternità), senza contare che l’Istat ha segnalato che, quando si ammalano, tendono a tornare al loro paese. Solo nell’ambito dell’istruzione si segnala una spesa di un qualche rilievo (2,4 miliardi annui), a fronte di una presenza di studenti stranieri in forte crescita (0,5 milioni, pari al 5,6% del totale). D’altra parte, se l’INPS ha evidenziato come i redditi degli immigrati siano bassi (5.000 euro annui i domestici, 11.500 i dipendenti, 13.000 gli autonomi), sia perché operano nei settori più deboli del mercato del lavoro che perché molti dichiarano il minimo possibile, vero è anche che, complessivamente, le entrate fiscale generate da cittadini stranieri sono di rilevante ammontare: 4,5 miliardi di euro, il che porta il totale delle entrate fiscali e contributive ad oltre 9 miliardi, assicurando al bilancio pubblico incassi ben superiori alle spese.
A fronte di un significativo contributo economico da parte degli immigrati, le interviste evidenziano invece un quadro di notevole precarietà di vita e scarsissima integrazione, tanto nei rapporti col pubblico che col sistema finanziario. La mediana dei redditi mensili dei nuclei familiari intervistati non raggiunge mille euro, quasi il 50% non vive né in casa di proprietà né in affitto, bensì presso altri nuclei familiari o presso il datore di lavoro, più del 50% vorrebbe tornare nel paese di origine. Si conferma che i servizi pubblici più utilizzati sono quelli scolastici, mentre un terzo degli intervistati non ha avuto contatti col sistema sanitario neanche a livello di scelta del medico di famiglia. Praticamente nessuno riceve trasferimenti pubblici, mentre solo il 10%-15% ha seguito corsi di lingue o si è rivolto ai servizi informativi degli enti locali. Solo poco più della metà degli stranieri intervistati ha rapporti col sistema bancario (incluse le Poste) e, anche quando bancarizzato, lo straniero fruisce solo dei servizi di base: l’utilizzo di carte bancomat o di credito è raro, anche all’interno della minoranza che ne possiede una, mentre pochi chiedono o ottengono finanziamenti, molto più diffuso essendo la richiesta di prestiti a parenti e amici. Il sistema bancario e postale non è utilizzato neanche per trasferire le rimesse alle famiglie nei paesi di origine, essendo preferiti altri strumenti di più facile accesso, anche se più costosi e rischiosi.
Complessivamente, se varie sono le tipologie di immigrati e delle loro famiglie, emerge però una presenza molto significativa di soggetti quasi del tutto esclusi, con rapporti con l’Amministrazione e col sistema creditizio nulli o ridotti al minimo (quanto serve ad assicurarsi il permesso di soggiorno, l’occasionale corso di italiano), verosimilmente poco coscienti dei propri diritti e dei servizi di cui potrebbero beneficiare. Da questo punto, la maternità e la scuola per i figli sono forse le uniche vere occasioni di contatto con una realtà istituzionale che altrimenti tende a respingere.

3. Se questa è la realtà che va emergendo, vale allora la pena di segnalare tre capisaldi di quella che potrebbe essere una politica di sinistra sul tema.
In primo luogo, la legalità, non dell’immigrato, quanto del lavoro e dell’impresa. Il fatto che l’impresa sommersa o il lavoratore in nero siano italiani o stranieri non è in alcun modo rilevante nel determinare la natura sleale della competizione cui sottopongono coloro che operano nella legalità. Da questo punto di vista, la lotta all’immigrazione clandestina andrebbe semplicemente e in toto sostituita dalla lotta al lavoro nero e all’economia sommersa. Tanto più che non ha senso combattere gli immigrati clandestini quando sono le stesse imprese e famiglie italiane a cercarli. Meglio allora rafforzare, anziché smantellare (come si sta facendo), i controlli fiscali e degli ispettori del lavoro, e chiedere alle imprese un impegno concreto. Invero, quando si parla, gli amici di Confindustria sono veementi nel rivendicare che le imprese sarebbero le prime ad essere penalizzate dal nero; ma, all’atto pratico, essi fanno poco, perché, con l’affermarsi dei meccanismi di subfornitura, anche le imprese di maggiori dimensioni hanno trovato il modo di approfittare delle riduzioni di costo originate dall’economia sommersa. Degli stessi benefici, peraltro, usufruiscono le stesse amministrazioni pubbliche, sia direttamente (riduzione del costo degli appalti pubblici, in totale assenza di controlli), sia indirettamente (possibilità di non erogare servizi pubblici costosi – si pensi alla non autosufficienza – delegandoli alle famiglie che assumono badanti per buona parte in nero).
In secondo luogo, preso atto che l’utilizzo da parte degli stranieri dei servizi sociali e del welfare italiano è ancora limitato, se non altro per motivi anagrafici e di scarsa integrazione, è opportuno chiedersi se, in quegli ambiti ove una qualche competizione fra italiani e stranieri va manifestandosi, non vada evidenziata più la drammatica insufficienza dell’offerta pubblica che la “voracità” della domanda straniera. Ciò è talmente evidente per quanto riguarda edilizia popolare e asili nido, ambiti nei quali siamo agli ultimi posti fra i cosiddetti paesi sviluppati, da non richiedere ulteriori commenti. Ma anche in un ambito nel quale l’offerta pubblica sembrava adeguata, quale quello dell’istruzione primaria, viene da chiedersi se i tagli introdotti dalla signora Gelmini non finiranno per fomentare una lotta fra i più e i meno poveri di cui proprio non vi sarebbe bisogno. Insomma, è forse il caso di prendere atto che è preferibile una strategia volta a garantire una adeguata offerta di servizi pubblici (su alcuni dei quali l’Italia si trova peraltro a disattendere precisi impegni assunti in sede europea) all’introdurre bonus per pelle chiara e sangue italiano nelle graduatorie.
Infine, dobbiamo essere coscienti che il modo con cui stiamo gestendo l’immigrazione non solo penalizza gli stessi immigrati, ma fa anche perdere all’Italia un’opportunità. È noto che a emigrare sono spesso i più intraprendenti e acculturati. Disporremmo dunque di risorse umane che, se valorizzate e integrate nel nostro sistema, potrebbero dare un fondamentale contributo alla vita economica e culturale del paese. Invece ci siamo fatti regola di vedere nell’immigrato solo lavoro bruto a basso costo, che, anche quando regolare, cerchiamo di taglieggiare in qualche modo, fra bolli, tasse di rinnovo del permesso di soggiorno e contributi pensionistici arretrati nelle regolarizzazioni, che cercheremo in tutti i modi di non restituire mai più, secondo una logica di rapina non dissimile da quella degli scafisti che portano i clandestini. Di fatto, con le dovute eccezioni, siamo un paese che non integra e dal quale molti degli stessi immigrati, soprattutto quelli che più potrebbero dare al paese, scappano, se appena possono, per raggiungere altri paesi, più che contenti di offrire, ai “migliori” e selezionati la prospettiva di una normale vita e integrazione nella società.
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Guai a non prendere sul serio il caudillo

Liberarsi di Berlusconi. Salvare la democrazia.
Rassegna stampa - Liberazione, Dino Greco, 10 novembre 2009.

Ricordate la pirotecnica esternazione di Berlusconi sull'inutilità del Parlamento? E ricordate la sua proposta - guai a non prendere sul serio il caudillo - di fare del voto nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama la prerogativa esclusiva dei capigruppo? In quell'occasione non molti diedero credito a quella che dovette apparire come una grossolana boutade . Nell'area della maggioranza non si udì un solo sussulto, foss'anche soltanto di dignità. Con l'eccezione di Fini che, come presidente della Camera, non poteva apporre il proprio marchio a questa intenzione di manifesta impronta eversiva. Poco dopo, toccò ancora alla terza carica dello Stato disporre la chiusura del Parlamento per ben nove giorni, in ragione della mancanza di materia su cui discutere e votare (considerato il carattere ormai ordinario della decretazione d'urgenza), oltre che a causa della impossibilità tecnica di varare provvedimenti privi di copertura finanziaria. Insomma, una vera e propria sospensione del lavoro parlamentare e il ricorso ad una sorta di cassa integrazione per i rappresentanti del popolo, con la variante che la messa in libertà di deputati e senatori non comporta decurtazione alcuna dei loro non proprio modesti emolumenti. Ora la Repubblica ci rivela che, in realtà, fra il 1° maggio e il 31 ottobre di quest'anno i senatori hanno lavorato, al netto delle ferie, per 8,6 ore la settimana, e i deputati per 18. In questo periodo, le leggi approvate sono state 47, 36 delle quali preconfezionate dal Consiglio dei ministri, mentre per ben 25 volte, negli ultimi diciotto mesi, il governo ha posto la fiducia malgrado la straripante maggioranza di cui dispone in entrambi i rami del Parlamento. La qual cosa è la più lampante dimostrazione che neppure la trasformazione della maggioranza in un'accolita di solerti "signorsì" è ritenuta dal presidente del Consiglio una garanzia sufficiente e che il più piccolo scarto, la più elementare ed innocua dialettica politica è considerata un attentato al regime autocratico che egli personalmente incarna. Del resto, non è stato Federico Confalonieri, in una illuminante intervista a La Stampa di qualche giorno fa, ha rivelarci, candidamente, che Berlusconi considera la democrazia, in quanto tale, un impaccio, una perdita di tempo, quando non un vero e proprio ostacolo alla sua «politica del fare»?
Dunque, per tornare all'origine del ragionamento, la riduzione del potere legislativo ad orpello formale e il Parlamento ad una dépendance dell'esecutivo sono perfettamente consustanziali al processo di smantellamento della Costituzione. Che sta conoscendo una formidabile accelerazione, se è vero che la magistratura (vale a dire il potere giudiziario) è divenuta bersaglio del medesimo assalto frontale. Non è stata la Lega - in perfetta consonanza con i desiderata di quell'uomo perbene che fu Vito Ciancimino - a chiedere l'elezione popolare dei pubblici ministeri? Della libertà di stampa, ormai asservita al caudillo o - nella migliore della ipotesi - annichilita dentro un rigido bipolarismo mediatico, s'è ampiamente parlato. La domanda che allora si pone è se un quadro di regole formali caratterizzato dall'opportunità offerta ai cittadini di eleggere in blocco, una volta ogni cinque anni, un monarca dotato di potere assoluto e la sua corte, possa essere considerata una democrazia. Oppure, se la paventata fuoriuscita dall'architettura della Carta, sia ormai un fatto compiuto che attende soltanto una sanzione formale. Berlusconi sta praticando questo obiettivo attraverso progressive rotture, essendosi potuto avvalere, sino ad oggi, di un contrasto dell'opposizione parlamentare talmente tenue e ondivago da risultare inoffensivo.
Se l'elezione di Bersani alla guida del Pd segna un'effettiva discontinuità, la si misurerà proprio su questo punto essenziale: costruire con tutta l'opposizione parlamentare e con la sinistra politica e sociale nelle sue plurali articolazioni, un patto per il ripristino della democrazia costituzionale.
A Roma, il 5 dicembre c'è un primo appuntamento, popolare, di massa, promosso attraverso il «tam tam»della rete e a cui hanno già aderito la Federazione della Sinistra e l'Italia dei Valori. Sarebbe della massima importanza se quanto vi è di vitale e non rassegnato nella società italiana si unisse a questa mobilitazione e costituisse l'abbrivio di una nuova e più promettente fase della politica italiana.
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Il naufragio del Berliner Traum

1989-2009. Dalle macerie del muro.
Rassegna stampa - il manifesto, Anna Chiarloni, 8 novembre 2009.

Vent'anni dopo, l'eco di scrittori come Christa Wolf, Stefan Heym, Volker Braun, Christoph Hein. Un tempo i loro libri erano oggetti di culto, dopo il crollo del muro furono accusati di avere giustificato il regime di Honecker. E vennero travolti dalle sorti della Ddr, discreditata dalle rivelazioni sull'ampiezza della rete di controllo della Stasi, minata dalla chiusura dell'apparato produttivo imposta da Bonn, e infine bollata come «postilla della storia»
A vent'anni di distanza, le immagini di quegli scrittori della Ddr che nell'Alexanderplatz il 4 novembre 1989 chiedevano un rinnovamento interno appaiono oggi come un tassello dell'archeologia socialista, in quella breve stagione di appelli intellettuali. Volker Braun e Christoph Hein, Stefan Heym e Christa Wolf li avevamo visti nelle intense settimane precedenti tra la folla a discutere un possibile nuovo progetto capace di rinnovare la Ddr integrandola in una confederazione dei due stati tedeschi. Era, questo, il Berliner Traum, il sogno di una rifondazione del corpo sociale una volta libero dalle pastoie del vecchio apparato di marca sovietica. Un'illusione rapidamente naufragata: tra le incertezze di una riforma interna e il miraggio di un immediato benessere economico i giovani scelgono la via occidentale. Nella Ddr si verifica un vero e proprio crollo dei valori di riferimento. Ricordo l'acceso dibattito all'Akademie der Künste, sul podio Christa Wolf, pallida e affranta, che con altri intellettuali si interroga sul fallimento in corso, su quell'esodo di gioventù attraverso l'Ungheria, un flusso continuo fino al 9 novembre quando, con un secco comunicato, il governo abroga il divieto d'espatrio. La sera stessa, tra il tripudio della folla, si apre il primo varco nel muro di Berlino. Un evento epocale, che ha cambiato la storia, anche la nostra.
All'euforia generale nella Ddr segue quello che Stefan Heym chiamò il «mercoledì delle ceneri», ossia il rapido tracollo dello stato socialista, travolto dall'abile retorica politica di Bonn. «Ogni promessa / genera una nausea repentina» scrive Günter Kunert, mentre da ovest il coetaneo Hans Magnus Enzensberger osserva scettico quel muro di cemento che «si sbriciola, fradicio di champagne» lasciando passare i «pellegrini» orientali avviati a frotte verso il consumismo occidentale. L'unificazione monetaria avviata dopo le elezioni del 1990 determina una paralisi delle strutture sociali portanti. Chiusi i battenti a gran parte delle istituzioni culturali, dalle accademie ai conservatori fino alle emittenti televisive, i tedeschi dell'est assistono inermi alla cancellazione della cosiddetta Ddr-Identität, un processo che darà poi origine al fenomeno della Ostalgie. Esclusa ormai dal circuito commerciale sovietico, la produzione ristagna e iniziano i primi massicci licenziamenti. Dalle case editrici, ormai privatizzate, si spazzano via quintali di libri. Martin Wescott, pastore evangelico, passerà alla storia per aver salvato col suo camion centinaia di volumi avviati al macero nei dintorni di Lipsia.
L'invenzione del futuro
Come reagiscono gli intellettuali orientali? A occidente gli umori sono cambiati. La riunificazione comporta nuove tasse e svanito il primo entusiasmo si comincia a fare i conti, anche col passato. Discreditata dalle rivelazioni sull'ampiezza della rete di controllo della Stasi, minata dalla chiusura dell'apparato produttivo imposta da Bonn, la Ddr viene bollata come «postilla della storia». Autori dell'est un tempo glorificati vengono ora accusati di avere giustificato con la loro permanenza al di là del muro il regime di Honecker. Anche in ambito storiografico il segno valutativo si capovolge. In occidente pare quasi che la Ddr non sia stata altro che un sistema di soprusi, censure e repressione poliziesca. Una immagine che sarebbe stata poi ribadita da un film di grande successo, La vita degli altri.
In realtà è la diversità ideologica di fondo che scatena, dopo la caduta del muro, una sorta di crociata contro gli autori più noti come Christa Wolf. Anche Volker Braun è nel mirino: quando un critico occidentale lo bolla come «anima morta del socialismo», accusandolo di essere stato il bardo di un'ideologia fallimentare, il poeta risponde arrotando i suoi giambi. In Das Eigentum (La proprietà, 1990), la difficile situazione che si profila coi licenziamenti nei Länder orientali viene definita ribaltando provocatoriamente il motto di Büchner nel suo contrario: «Guerra alle capanne, pace ai palazzi». Un sonetto a polso teso, questo: dodici versi conchiusi, blocchi semantici sospesi su una domanda irrisolta di uguaglianza, diretta a un «voi» artigliato e lontano: «La mia proprietà ora è nelle vostre grinfie. / Quando tornerò a dire mio e a intendere di tutti?». Resiste insomma in questi intellettuali un progetto portante, ovvero «l'invenzione del futuro», come recita il titolo di un libro in corso di stampa da Scheiwiller, curato da Michele Sisto.
In possesso della verità
È interessante notare come il ricorso al mito, prima del 1989 utilizzato a piene mani per rappresentare, spesso in modo allusivo, le contraddizioni interne alla Ddr, ricorra anche nella letteratura successiva. Con una pièce sperimentale, Iphigenie in Freiheit (Ifigenia in libertà, 1992), Braun mette in scena l'annessione: Ifigenia è la Ddr, oggetto di un baratto tra le grandi potenze, sullo sfondo di uno scenario maleodorante e inaridito. Il processo di privatizzazione della Ddr sconvolge il paesaggio e trasforma il quotidiano. Anche nella letteratura occidentale si vedono tracce consistenti di questa svolta, si pensi a Günter Grass, a Delius o al tempestoso drammaturgo Rolf Hochhuth. In effetti le trattative condotte nel 1990 da Lothar de Maizière conducono a una svendita della Ddr, lasciando i cittadini a mani vuote. Con plastica evidenza Heinz Czechowski, poeta di Lipsia, ci trasmette in Dietro la città le immagini di quella mutazione. Campi lottizzati e resti deserti di una cooperativa agricola chiusa: nella cadenza dei versi questa sorta di inventario dell'anima socialista allinea figure mute, lemuri scompaginati dall'avvento di un tempo diverso che si aggirano in cerca di senso in un territorio divenuto estraneo.
Per gli intellettuali tedeschi sono anche anni, questi, di riflessione sul Novecento. Prendono per primi la parola, redigendo ampie memorie, gli autori orientali che hanno attraversato le diverse fasi storiche, dal nazismo alla guerra fino alla scomparsa della Ddr: Günter De Bruyn, Heiner Müller, Günter Kunert, Stefan Heym e Christa Wolf pubblicano tra il 1992 e il 2002 la loro visione del secolo breve. Salvo «Un giorno all'anno» della Wolf quei testi, essenziali per capire a fondo la Germania, non sono tradotti, ma ne dà conto il recente saggio di Daniela Nelva (Identità e memoria. Lo spazio autobiografico nel periodo della riunificazione tedesca, Mimesis 2009). L'analisi di Heiner Müller la si coglie anche in un breve testo poetico, Fernsehen (Televisione). La domanda di fondo investe, dopo il crollo del sistema, la relazione con ciò che si è scritto nella Ddr, quando ci si credeva «in possesso della verità». Dagli spalti della Germania riunificata il poeta osserva le ceneri del socialismo, i resti del paese macinati dal laborioso meccanismo della Treuhand, ma anche la mercificazione dei nuovi orizzonti, la festa crudele del consumo.
Approdati dove?
Su tutt'altro versante, ancora un raccordo con il mito è quello che Christa Wolf stabilisce nella sua Medea, che esce nel 1996 e conquista una immediata notorietà anche presso il pubblico italiano (è interessante consultare la recente bibliografia pubblicata per i suoi ottanta anni:www.germanistica.it). Tutti ricorderanno come, caduto il muro, questa scrittrice di fama internazionale sia stata bersaglio della stampa occidentale più retriva, capro espiatorio della volontà di liquidare l'intellighentsia orientale, praticando a volte una rozza equazione tra il nazismo e il cosiddetto socialismo reale. La voce di Medea segnala una rivolta contro ogni forma di mistificazione storiografica, anche di quella relativa al recente dopoguerra, e permette a Christa Wolf di riproporsi come figura «forte» di intellettuale, capace di riscrivere la storia alla ricerca di una verità che vuol essere coinvolgimento esistenziale e formazione della coscienza. La scrittrice non perde il suo piglio critico; nel 2002, invitata dall'Accademia delle Scienze di Amburgo, dichiara: «Con il mio ultimo libro, In carne ed ossa, la critica occidentale mi definisce benevolmente "approdata" - ma approdata dove? A ben guardare questa è una critica parente - anche se di segno contrario - di quella che mi rimproverava subito dopo la riunificazione di non aver definito abbastanza "cattiva" la Ddr e "buona" la Brd. Un'allegra continuazione degli equivoci? La mia ipotesi: si temeva e si teme lo sguardo estraneo. Dico si ma dovrei dire noi. L'adesione della Ddr alla Brd è stata uno scontro, le due parti del paese si sono guardate con occhio straniato. Incertezza e disorientamento. E tuttavia l'approdo della Germania a paese normale. Ma è un fattore di normalità che le truppe tedesche partecipino alle operazioni all'estero mentre in casa molti rifiutano gli stranieri e l'antisemitismo monta?».
Certo, tutto si può dire della Ddr ma non che fosse uno stato con ambizioni espansionistiche, e infatti a est non c'è chi non sia solidale con Christa Wolf. Significativo è il titolo di una raccolta poetica di Volker Braun, Tumulus: un termine di altura e vedetta critica che rimanda sia al De bello gallico, sia alla Guerra del Golfo, con il suo funereo riflesso mediatico. Prendendo una posizione contrapposta a quella di Enzensberger, che si pronuncia a favore della guerra in Iraq, il poeta scrive: «Ancora sono tombe le orme della libertà e la democrazia avanza su tappeti di bombe».
Un Simplicio dei nostri tempi
Cadute le barriere, gli intellettuali della Ddr si rimettono in viaggio nel mondo e nella storia. Christa Wolf indaga la società statunitense tra le pagine di un libro di racconti datati 2005 e titolati Con uno sguardo diverso. È il mondo della multiculturale Los Angeles ad apparire diverso sotto lo sguardo della scrittrice, che coglie fotogrammi di un chiassoso party elettorale per Bush, individua nella folla i russi immigrati, applaude lungo le rive oceaniche di Santa Monica al jogging delle innocenti magliette sudate con sopra scritto «Do you like me?». E accanto scorre la riflessione sulla cronaca televisiva a ridosso dell'attentato del 2001, con la sua ossessiva convergenza semantica sull'urgenza militare. Flâneuse della storia, Christa Wolf tende a indagare razionalmente gli eventi e al tempo stesso li riattraversa stabilendo un dialogo con improvvisi e pungenti personaggi del passato: Brecht, ad esempio, o le inquiete figure di donne ebree scampate alla Germania nazista. La rievocazione di un paese ospitale - l'America che accolse gli emigranti in fuga da Hitler - si contrappone al «bacillo» neonazista delle periferie orientali della Berlino riunificata. Segnali di movimento a chiasmo, destinati a spazzare via il sospetto di un antiamericanismo di maniera.
Aperta sul mondo, la prosa di questi autori mette a fuoco gli snodi del secolo nuovo. Braun indaga i problemi connessi con la globalizzazione in tre racconti di umano sconcerto migratorio - Das WirklichgewollteCiò che veramente si vuole», 2000) - ambientati rispettivamente in Italia, Brasile e Russia. Premio Büchner nel 2000, Braun continuerà a incalzare il lettore alternando il registro lirico a quello grottesco, come rivela la storia tragicomica di Flick, l'operaio un tempo specializzato di Machwerk (2008). Sorta di Simplicio dei tempi nostri, Flick è nella Germania riunificata un disoccupato che, accompagnato dal nipote apprendista, invano attraversa mezza Europa in cerca di un lavoro purchessia, ovvero «raffazzonato», come indica il titolo del libro.
E accanto alla figura dell'operaio ormai inutile si profila l'emblema di una nuova generazione, apprendista del nulla in un mondo che le nega spazio e senso.
Con la scomparsa della cortina di ferro si assiste a un fenomeno ben lungi dall'essere esaurito: il flusso migratorio da est verso la Germania. Christoph Hein è tra i meglio attrezzati a cogliere le contraddizioni della nuova realtà: in Willenbrock (2000) affronta il nodo drammatico dell'immigrazione dall'est europeo e mette al centro del romanzo un auto-mercato, luogo emblematico dell'economia tedesco-orientale dopo la caduta del muro, ai cui cancelli la mattina preme «mezza Varsavia», ossia quella spettrale folla in mal arnese che si affaccia sulle vetrine della opulenta Europa occidentale. Ne è proprietario Bernd Willenbrock, onesto cittadino emergente della nuova Germania; ma intorno a lui preme una gioventù allo sbando, pronta a ogni violenza. Col primo furto, cui seguono scasso e colluttazione fisica di marca slava, scatta il meccanismo che condurrà al tragico epilogo.
Hein articola la sua analisi su un doppio binario. C'è il cittadino che chiede protezione ma, di fronte all'inerzia dello stato, cede all'angoscia trasformandosi egli stesso in allucinato giustiziere. E c'è intorno a lui una feccia che tracima dai confini dell'impero sovietico in sfacelo. L'indagine muove sullo sfondo di una Berlino che ormai sente «la Siberia alle porte». Degenerazione politica, criminalità e corruzione, ecco la diagnosi di Hein. Un verdetto così negativo sull'est europeo, e per di più emesso da un autore proveniente da una cultura di fratellanza con l'Urss, è nuovo nella letteratura tedesca. Ma va ascritta a Hein la spregiudicata capacità di registrare quei mutamenti che, lungo il piano inclinato della storia, stanno cambiando il volto dell'Europa.
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Il canone blindato

Il canone Rai che finanzia Mediaset.
Dai Blog - Sbilanciamoci.info, Roberta Carlini, 8 novembre 2009.

"La proposta di non pagare il canone Rai è una sciocchezza. Mediaset non vuole boicottare il canone. Berlusconi sbaglia. Si sta dando delle martellate". (Fedele Confalonieri, La Stampa, 2/11/2009).
Chissà cosa ha spinto il solitamente fido Fidel a contraddire così platealmente il suo capo e a liquidare così nettamente la campagna di stampa che i media del gruppo stanno facendo contro il canone Rai. Motivi politici? Economici? Strategici? Forse Fedele Confalonieri, che è alla testa di Mediaset da una vita, ha fatto semplicemente due conti. Abbiamo provato a farli anche noi. Anticipiamo il risultato: la sparizione del canone Rai costerebbe a Mediaset qualcosa come 5-600 milioni di euro all’anno. Mezzo miliardo e più. Vediamo perché.
La Rai ha incassato dal canone, nel 2008, 1.603 milioni di euro. Molto di più di quanto non abbia ricavato dalle inserzioni pubblicitarie (1.092 milioni). Nello stesso anno, il gruppo Rti-Mediaset ha incassato in pubblicità 2.165 milioni. Se si descrive la faccenda disegnando la torta complessiva del mercato pubblicitario televisivo, si vede che la Rai ne ha preso uno spicchio poco più grande di un quarto (27,9%), mentre Mediaset ne ha mangiato più della metà (55,1%). Il resto si è diviso tra vari operatori “minori” (quanto meno dal punto di vista della raccolta pubblicitaria): Sky, La7, operatori delle tlc (1).
Stando così le cose, uno potrebbe dire: se la Rai perde il canone, chiude, venendo ad essa a mancare quasi la metà dei suoi incassi. Senonché, bisogna ricordare che l’esistenza del canone Rai richiede e giustifica la presenza di un tetto alla raccolta pubblicitaria della stessa azienda: se salta il canone, salta il tetto. E se salta il tetto, le cose cambiano per tutti, perché la Rai può raccogliere più pubblicità sul mercato. A meno che parallelamente il mercato pubblicitario non registri un inaudito boom, questo vuol dire che qualcun altro ci perderà.
Chi ci perderà, e quanto? In questi casi gli economisti fanno un esercizio, che si chiama di “statica comparata” (2). A costo di banalizzare, lo spieghiamo come se fosse il conto del fruttivendolo. Mettiamo che la torta pubblicitaria, nel complesso, non cresca (nel 2008 era sui 4 miliardi, per la precisione 3.927 milioni). Mettiamo che, sparito il tetto, ciascuno si possa muovere in libertà cercando inserzionisti sul mercato. Mettiamo che ciascuna tv riceva pubblicità, più o meno, in base a quanta gente la vede (allo share medio dell’anno in questione). Mettiamo che, nel nostro mondo futuro senza canone, lo share tra le varie tv sia uguale a quello che è stato nel 2008: 42,2% Rai, 39,4% Mediaset. Facciamo i conti: alla Rai spetterebbe il 42,2% della torta pubblicitaria, dunque 1.657 milioni di euro, mentre a Mediaset finirebbe il 39,4%, ossia 1.547 milioni. La Rai guadagnerebbe, in pubblicità, 561 milioni. Mediaset perderebbe, in pubblicità, 617 milioni (3).
Finora le reazioni, i commenti, gli allarmi, si sono concentrati su quel che succederebbe in casa Rai: anche con l’aumento delle entrate della pubblicità, il bilancio si troverebbe in rosso, visto che i maggiori incassi dagli spot compenserebbero a malapena un terzo delle mancate entrate da canone. Però anche in casa Mediaset si aprirebbe un buco, anzi una vera e propria voragine. Morale: l’abolizione del canone non si farà mai. Perché il bollettino che paghiamo ogni anno alla Rai va a finanziare, almeno per 4 euro su 10, Mediaset. E né il composito proprietario della Rai né il mero proprietario di Mediaset possono permetterselo. Per quest’ultimo, sarebbe come darsi delle martellate.
ps. Qualcuno potrebbe ipotizzare che il mero proprietario di Mediaset sia in grado di muovere il mercato pubblicitario a piacimento, e dunque tenere bloccato comunque il flusso di risorse verso la Rai, per non danneggiare l’altro vaso comunicante. Però in questo caso il conflitto di interessi diventerebbe troppo sfacciato persino per lui, e troppo evidenti anche i danni agli inserzionisti. Il meccanismo del canone, tutto sommato, permette di raggiungere lo stesso scopo con minori costi.
Note
1) I dati utilizzati sono tratti dalla Relazione annuale del Garante (Agcom) e da Auditel.
2) Si veda Pier Luigi Parcu, in “La Rai prossima futura, chi la governa e chi la paga”, (Bevivino editore 2008). Sulle sue simulazioni, riferite ai bilanci 2006 e spiegate durante il seminario di studi dal quale è poi nata la pubblicazione citata, abbiamo inserito i dati aggiornati al 2008.
3) Non tutti i 617 milioni “persi” da Mediaset finiscono alla Rai: la differenza si deve al ruolo che giocano gli operatori minori, che oggi rastrellano pubblicità in misura meno che proporzionale rispetto alla propria quota di mercato, mentre nel nostro assetto ipotetico la pubblicità seguirebbe lo share.
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Come cadde il Muro di Berlino

Berlino, Germania 1989.
La falsa notizia che abbatté il muro.

Il 9 novembre del 1989 migliaia di berlinesi si ammassarono ai varchi di frontiera e si diedero da soli il diritto di attraversare la barriera di cemento [come si vede in uno dei filmati proposti in un altro post, quello relativo alla Bornholmer Strasse]. I tg occidentali avevano dato l'annuncio che il muro era aperto, ma la notizia ancora non era vera.
Rassegna stampa - il manifesto, Guido Ambrosino, 8 novembre 2009.

La «caduta» del muro di Berlino, 20 anni fa, non era stata né prevista né voluta dalla direzione della Sed, il partito di unità socialista. Per lo storico Hanns Hermann Hertle (Chronik des Mauerfalls, Ch. Links Verlag) si trattò di una «conseguenza non intenzionale dell'agire sociale», in cui i media ebbero un ruolo decisivo.
Günter Schabowski, portavoce della Sed, prese fischi per fiaschi, annunciando come già operativa una liberalizzazione del regime di concessione dei permessi di viaggio, che invece avrebbe dovuto essere applicata solo il giorno dopo. I telegiornali delle reti occidentali, visti anche da molti berlinesi dell'est, annunciarono - sbagliando - che il muro era «aperto», e tanto bastò per indurre miglia di persone a uscire in strada e a dirigersi verso i varchi. Dove però nulla era cambiato, perché nessun nuovo ordine era stato trasmesso agli agenti.
Al varco della Bornholmer Strasse alle 23.30 si erano raccolte 20.000 persone che gridavano «aprite, aprite». Il comandante di quel posto di frontiera nel quartiere di Prenzlauer Berg, il tenente colonnello della Stasi Gerhard Jäger, esasperato per la mancanza di disposizioni e non sapendo più che altro fare, decise di propria iniziativa di aprire la barriera. Poco dopo mezzanotte anche negli altri 6 varchi della città divisa si andava liberamente avanti e indietro.
I berlinesi il permesso di passare se lo diedero da soli il 9 novembre 1989, senza timbri e formulari. E sebbene la barriera di cemento fosse rimasta fisicamente intatta, il muro, come simbolo del principio d'autorità realsocialista, cadde così davvero.
«La Rdt apre il confine». Il titolo della Tagesschau, il telegiornale della prima rete occidentale Ard, si avverò 4 ore più tardi grazie alle reazioni a catena scatenate dalla sua diffusione. Secondo Hans-Hermann Hertle, «la caduta del muro è il primo evento della storia che si verificò in seguito a un'anticipazione dell'annuncio alla radio e alla televisione». «La realtà - prosegue l'autore della più completa ricostruzione di quella vicenda - superò perfino la finzione dei media. I cittadini della Rdt non avevano più paura del muro. Smisero di rispettare il confine del 'loro' stato e imposero il passaggio incontrollato».
Ultimatum cecoslovacco
L'Ungheria e la Cecoslovacchia avevano già aperto le loro frontiere verso l'Austria e verso la Repubblica federale tedesca ai cittadini della Repubblica democratica che chiedevano di uscire, con la sola carta d'indentità e senza passaporto. Nel fine settimana dal 3 al 5 novembre 23.200 tedeschi dell'est lasciarono la Cecoslovacchia diretti in Baviera. L'8 novembre a Praga l'ambasciatore della Rdt fu convocato al ministero degli esteri. Gli fu posto un ultimatum: se Berlino non avesse messo fine a quel drammatico pellegrinaggio, consentendo gli espatri dal proprio territorio, la Cecoslovacchia avrebbe chiuso la sua frontiera.
Egon Krenz, che aveva preso il posto di Honecker il 18 ottobre alla guida della Sed, si rendeva conto che, per porre fine allo «scandalo» della fuga di massa attraverso i paesi vicini, bisognava promettere il passaporto a chi voleva lasciare il paese. L'ambasciatore russo, consultato, aveva trasmesso l'assenso di Mosca. Solo un cittadino su quattro, i «quadri» più affidabili, aveva allora un passaporto: per concederlo a chi ne avesse fatto richiesta ci sarebbero volute 4 - 6 settimane. Ciò avrebbe consentito di diluire nel tempo l'esodo e canalizzarlo.
Viaggi privati
Il compito di disinnescare il «problema cecoslovacco» fu affidato a quattro funzionari del ministero degli interni e del ministero per la sicurezza dello stato, che si riunirono la mattina del 9 novembre. Gerhard Lauter, che coordinava quella commissione, aveva sul tavolo una bozza titolata «Proposta di regolamento per modificare la situazione dell'espatrio permanente di cittadini della Rdt diretti nella Rft attraverso la Cecoslovacchia». Sebbene il mandato fosse solo quello di togliersi dai piedi gli aspiranti all'emigrazione, Lauter, dirigente del servizio passaporti, pensava che fosse assurdo consentir loro di andarsene mentre si continuava a negare ai berlinesi dell'est di andare a prendere un caffè in un locale dell'ovest. Propose perciò di aggiungere un capoverso sui viaggi privati: «Si potrà fare richiesta di viaggi privati all'estero senza che ricorrano le condizioni finora previste...». Gli altri funzionari furono d'accordo, anche se non erano affatto sicuri che questa innovazione sarebbe stata accettata dal vertice politico.
Il comitato centrale della Sed era riunito per una lunga sessione cominciata l'8 novembre e conclusa il 10. Il primo giorno era stato nominato un nuovo ufficio politico. Si discuteva se convocare una conferenza straordinaria del partito, incombevano riforme radicali. Nella pausa del pranzo si riunì il Politbüro, che approvò senza grandi discussioni il foglio dattiloscritto redatto da Lauter e compagni, recapitato da un messo. Egon Krenz lo lesse poi al comitato centrale, presentandolo come soluzione al «problema cecoslovacco» e senza nemmeno commentare l'estensione della liberalizzazione ai «viaggi privati». Ci fu una sola proposta di modifica, accettata: meglio parlare di «regolamento» e non di «regolamento provvisorio», per non dare l'impressione che, passata la nottata, si potesse tornare alla normativa precedente. Il consiglio dei ministri approvò la bozza.
Embargo per la stampa
Il nuovo regolamento sarebbe entrato in vigore il giorno seguente. Il comunicato stampa già predisposto aveva un embargo fino alle ore 4 del 10 novembre. Quella mattina ne avrebbero parlato radio e televisione, mentre il testo sarebbe apparso sui giornali. Durante la notte le disposizioni applicative sarebbero state mandate alla guardia di frontiera, alla polizia politica (la Stasi) e, alla polizia «normale», la Volkspolizei. Nei commissariati della Volkpolizei i cittadini muniti di passaporto avrebbero potuto mettersi in fila nel corso della giornata per chiedere permessi di espatrio o visti per uno o più viaggi (per un massimo di 30 giorni di permanenza complessiva all'estero, nell'arco di sei mesi). Di regola i permessi sarebbero stati concessi «in tempi brevi», non meglio definiti e quindi suscettibili all'occorrenza di qualsivoglia dilatazione burocratica. Come tutti i «permessi», avrebbero anche potuto essere negati (per motivi relativi alla «sicurezza nazionale», per appartenenti a corpi militari, per persone sottoposte a inchieste o procedimenti penali), senza bisogno di spiegare i motivi e senza possibilità di ricorso. Si poteva insomma sperare di mantenere il controllo sui flussi, e quindi di salvare l'«autorità» del regime, ora più benevolo, ma ugualmente convinto che occorra vigilare sui cittadini.
Regole e eccezioni
Insormontabile il muro non lo era più da tempo. Nel 1988 si erano contati sei milioni di viaggi nella Repubblica federale tedesca e di passaggi a Berlino ovest. I pensionati potevano espatriare a loro piacimento (ammesso che avessero valuta: le banche della Rdt cambiavano solo 15 marchi l'anno e a testa al tasso uno a uno). E si ottenevano abbastanza facilmente permessi per visitare parenti in particolari occasioni (matrimoni, nascite, funerali, compleanni «tondi). Il nuovo regolamento semplificava le procedure abolendo l'obbligo di far esaminare tutte le pratiche dalla Stasi. E sollevava dall'incombenza di aspettare che la nonna dell'ovest compisse i 70 o gli 80 anni. Il governo pensava che i viaggi sarebbero raddoppiati, a 12-13 milioni (su 16 milioni di abitanti). Un grosso salto, ma senza quel pieno riconoscimento del diritto alla libera circolazione ormai rivendicato a gran voce da centinaia di migliaia di dimostranti, che avevano preso l'abitudine di sfilare per le città della Rdt al grido di «noi siamo il popolo». Un modo per ricordare al governo «popolare» quanto fosse privo di legittimazione, senza il consenso del sovrano.
Gli equivoci di Schabowski
Günter Schabowski, membro del Politbüro e da due giorni incaricato di tenere i rapporti con i media, nuova funzione all'insegna della glasnost, era a parlare con dei giornalisti quando i suoi colleghi avevano discusso i regolamenti alla frontiera. Tra le 17 e le 17.30 passò di nuovo al comitato centrale per raccogliere le ultime informazioni. Egon Krenz gli diede il foglio col decreto sui viaggi, dicendogli che si trattava della «notizia mondiale», e dimenticandosi di avvertirlo che, nel comunicato stampa allegato, era previsto di darne notizia solo alle ore 4 del 10 novembre. Alle 18 Schabowski, che in auto aveva potuto solo leggere in fretta quel foglio, si presentò alla conferenza al centro stampa internazionale. La televisione della Rdt, anche questa una novità, trasmetteva in diretta. Il portavoce si soffermò a lungo sulla decisione di convocare una conferenza del partito, sull'impegno a consentire libere elezioni. Aspettò una domanda del corrispondente dell'Ansa, Riccardo Herman, per tirar fuori la «notizia mondiale», alle 18.52. «Abbiamo deciso oggi di adottare un regolamento che consente a ogni cittadino della Rdt di andare all'estero dai varchi di frontiera della Rdt». Un altro giornalista chiede a partire da quando. «Per quanto ne so da subito». Fruga tra le sue carte, cerca il testo, conferma: «Sì, da subito». Non era vero, ma divenne vero.



Cronologia.
Buchi nella Cortina di Ferro.

Il 2 maggio 1989 l'Ungheria cominciò a smantellare la rete al confine con l'Austria. Sebbene quella frontiera restasse sorvegliata, la foto con i militari ungheresi armati di cesoie innescò un esodo di cittadini della Repubblica democratica tedesca attraverso l'Ungheria e la Cecoslovacchia, passando spesso per le ambasciate di Bonn in questi due paesi e in Polonia, e che portò infine all'apertura del confine occidentale della Rdt e del muro di Berlino il 9 novembre.
Luglio. Cittadini della Rpubblica democratica cominciano a rifugiarsi nelle ambasciate della Repubblica federale tedesca a Budapest e Praga e nella rappresentanza permanente della Rft a Berlino est.
Agosto. L'8 agosto viene chiusa al pubblico la rappresentanza di Bonn a Berlino est, dove più di 100 persone chiedono di lasciare la Rdt. Il 13 chiude i battenti l'ambasciata di Budapest, con 181 rifugiati. Il 19 gruppi dell'opposizione ungherese organizzano un «picnic europeo» al confine con l'Austria. Le guardie di frontiera chiudono un occhio e più di 600 tedeschi dell'est passano a ovest. Il 24 i rifugiati all'ambasciata tedesca di Budapest possono partire in aereo per l'Austria, con documenti della croce rossa internazionale.
Settembre. L'8 settembre 117 rifugiati lasciano la rappresentanza di Bonn a Berlino est - che resterà poi chiusa fino a novembre "per lavori di manutenzione" - senza un'esplicita assicurazione sull'espatrio ma con la promessa di assistenza legale da parte dell'avvocato Vogel, fiduciario del governo della Rdt per questioni umanitarie. L'11 l'Ungheria apre definitivamente il confine con l'Austria, dopo aver dichiarato decaduto l'accordo con la Rdt che impegnava reciprocamente i due paesi a non far proseguire per i paesi occidentali i loro cittadini sprovvisti di permessi. Nel giro di tre giorni 15.000 cittadini della Rdt smontano le tende nei campeggi ungheresi e raggiungono la Rft attraverso l'Austria. Nel giardini dell'ambasciata di Bonn a Praga si sono ammassati in condizioni indescrivibili 4500 rifugiati della Rdt. Il 30 settembre il ministro degli esteri Genscher dà loro l'annuncio che il governo di Berlino est acconsente a farli espatriare, con treni che passeranno dalla Rdt.
Ottobre. L'ambasciata di Praga si riempie di nuovo. Il 4 ottobre un secondo contingente di 7600 persone può lasciarla, con treni speciali. Alla stazione di Dresda la polizia carica una folla di 3000 persone che cerca di salire sui convogli. Anche a Varsavia l'ambasciata di Bonn è presa d'assalto. Il 5 ottobre la Rdt acconsente a far partire in treno per Hannover 633 suoi cittadini. Tra il 17 e il 20 ottobre l'esodo da Varsavia continua con voli speciali che portano a Düsseldorf 1500 persone dirette a Düsseldorf.Intanto a Praga si ricomincia da capo. Il 3 novembre la Rdt deve nuovamente autorizzare la partenza di 4500 persone con treni che stavolta andranno direttamente in Baviera. A questo punto la Cecoslovacchia considera "aperta" questa sua frontiera e nei due giorni successivi lascia passare altri 18.700 cittadini della Rdt con la sola carta d'identita. Il muro di Berlino, ormai aggirabile via Budapest e Praga, non serve più a niente.
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Rimosso il virus letale del nuovismo veltroniano

Democratici al lavoro.
Rassegna stampa - il manifesto, Michele Prospero, 8 novembre 2009.

Dove va il Pd? È stato chiaro Bersani nel ridefinire alcuni momenti della cultura politica di un partito che ha, quale suo atto genetico insuperabile, una carenza profonda di identità. Sul nodo gordiano dell'identità è impossibile, per chiunque si trovi alla guida di un partito coalizionale plurale, spingersi oltre. Una identità comune non potrà mai esserci e questo nella sostanza fa del Pd un non-partito, una sorta di confederazione con sovranità limitata a proposito dei confini ideologici (ma anche della lettura della storia d'Italia).
Questa carenza strutturale di identità rispetto ai grandi partiti del Novecento impedisce di rimuovere le ambiguità che per il Pd sono per l'appunto costitutive e, nel medio periodo, non rinegoziabili. Non potendo dirimere i nodi incerti dell'appartenenza (e parlare con voce univoca sul tema della laicità e dei diritti civili), il nuovo segretario ha puntato a invertire la rotta almeno sul piano della cultura politica e istituzionale. E qui, con vari spunti critici, ha estratto dal corpo malato del suo partito il virus letale del nuovismo veltroniano, inteso come una informe cultura che ha condotto il leggero Pd sull'orlo del precipizio etico-politico con striscianti «fenomeni di anarchismo e di feudalizzazione».
Nella denuncia di questa congenita deriva del partito elettorale mediatico, Bersani è stato esplicito: è deleterio ogni partito di un leader e occorre, dice con parole antiche, un gruppo dirigente con militanti, circoli, strutture. Le insostenibili scempiaggini sulla contendibilità della leadership, sul popolo delle primarie, sulla liquidità hanno portato il sistema democratico alla deriva. Occorre una inversione di rotta. Su questo crinale scivoloso, Bersani ha cercato di ricollocare la cultura politica del Pd entro il solco del costituzionalismo che «parla di partiti e non parla di popoli». Ha per questo respinto l'idea malsana secondo cui la partecipazione coincide con l'eleggere un capo e ha rivendicato il ruolo di un partito di massa come antidoto alla «deformazione leaderistica e plebiscitaria».
È un bene che, dopo le catastrofiche fascinazioni per la democrazia immediata, anche il Pd abbia rilanciato il sistema parlamentare, insieme ad una nuova legge elettorale per la ricucitura di una coalizione ampia.
Il neoparlamentarismo è apparso come la risposta (da sola certo non sufficiente) alla crisi valoriale della democrazia. Anche Bersani ha riconosciuto la avanzata putrefazione della politica quando ha individuato «un muro molto pericoloso tra realtà sociale e realtà istituzionale» e ha avvertito che «senza dialettica politica e parlamentare non c'è dialettica sociale».
E qui, la descrizione della repentina caduta di ogni nesso tra politica e bisogni della società, avrebbe dovuto (ma il Pd è poi attrezzato a questa riscoperta dell'autonomia politica del lavoro?) indicare come aggirare lo scoglio della totale solitudine del lavoro.
Quando il neo segretario ha affermato che proprio il lavoro è «il problema numero uno», e che quindi una agenda di governo deve prospettare un orientamento del fisco «dal lavoro alla rendita», si è reso conto dei guasti provocati delle illusioni modernizzatrici sorte per la conquista di fantomatici nuovi centri. Resta dinanzi al Pd (ma non solo al Pd) la carenza abissale di rappresentanza sociale e politica sperimentata nel loro vissuto dai soggetti che lavorano.
Appannato sul piano dell'identità ideale, un po' di colore rosso torna, in una qualche modica misura, quando il Pd si autodefinisce come il partito del lavoro. Basterà per curare l'anemia di un partito incolore?
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Non fermarsi alle promesse elettorali

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
La protezione civile c'è ma bisognerebbe veramente potenziarla.



Ormai è da qualche anno che a Brembio c'è la protezione civile, abbiamo la nostra sede sistemata da noi con l'aiuto un po' di tutti. Oggi mi è venuto per le mani il volantino delle promesse elettorali della lista Giuseppe Sozzi, e leggo chiaramente che uno degli obbiettivi era il potenziamento di questa associazione (la protezione civile), dico era perché è qui che viene il bello. Ripeto ormai è qualche anno che ci siamo e la gente ha imparato a conoscerci, e magari ci tiene anche un po'.
Siamo ancora al punto di partenza, non riusciamo a partecipare alle esercitazioni perché ci mancano le strutture idonee, vedi tenda, che c'era ma non avevamo il mezzo per andare a recuperarla, brande ecc. ecc. Una linea telefonica che ci permetterebbe di comunicare con la provincia e gli altri gruppi, cosa che ora stiamo facendo col pc del coordinatore per la posta, e quello della sottoscritta per la compilazione dei documenti vari. Sì perché il progresso avanza anche in protezione civile ed è necessario compilare un database del volontario dove vengono raccolti tutti i dati dei volontari operativi e non, a cui la provincia può avere accesso in caso d'emergenza. Per fare ciò si necessita di un rappresentante legale e di un operatore, però devono essere delegati dal capo della protezione civile ossia il Sindaco.
In merito a questo particolare si era preso un appuntamento a cui il sindaco non si è presentato, quando è stato lui stesso a fissarlo, 4 novembre ore 20.00. Non importa ci siamo detti incassiamo anche questa e continuiamo a camminare con le nostre gambe; cosi tra telefonate e tentativi vari, si va avanti. Non so per quanto però, il gruppo sta in piedi a fatica tra malumori e delusioni ha perso di mordente e soprattutto di voglia di fare. Eppure si leggeva che ci dovevamo potenziare, abbiamo consegnato una lista delle priorità, in cima una linea telefonica ed un pc non ultramoderno, ma meno obsoleto di quello esistente (tanta manna che c'è). Non chiediamo una sede nuova e nemmeno che vengano spesi i soldi per adeguarla, è piccola ma a noi va bene così per ora. Semplicemente un telefono ed un pc non mi sembra il mondo, anche perchè ripeto stiamo usando del nostro personale e questo è stato più volte ribadito nei vari verbali e nelle varie riunioni. Per ora andiamo avanti ma è tutto un grosso punto interrogativo.
Raise Patrizia
Volontaria Protezione Civile Brembio
P.S. Grazie per l'attenzione.




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Tutto il possibile per liberare Moro

Il caso. L’allora segretario della Dc e il Pontefice erano disposti a fare «tutto il possibile» per il leader sequestrato dalle Br. Senza debolezze. Moro, ecco la verità su Zaccagnini e Paolo VI.
Rassegna stampa - Avvenire, Gianni Gennari, 10 novembre 2009.

Venti anni dalla sua morte… Conobbi Benigno Zaccagnini la sera del 17 o 18 marzo 1978, subito dopo il rapimento di Moro e la strage di via Fani. Elio ed Ettorina Brigante, sorella di sua moglie Anna, che lo ospitavano nella loro casa di via della Camilluccia, mi chiesero per telefono se potevo dare un 'sostegno spirituale' a Benigno.
Da quella sera spessissimo, anche fino a notte tarda, gli sono stato vicino nel tempo di quei 53 giorni di un dolore che per lui durò altri 11 anni, fino alla morte, 5 novembre 1989. L’ho visto pensare, soffrire, piangere e pregare fino alla sera dei funerali di Moro.
Ebbene: ancora oggi, nelle Commemorazioni anche solenni come quella a Montecitorio e nei libri a lui dedicati con belle parole sull’uomo, sul politico e sul testimone di 'laicità' cristiana ­magari un po’ adattata alle circostanze di oggi - c’è sempre un vuoto, e su quei 53 giorni si scivola via tra pudore e timore, come fosse meglio non parlarne. Aleggia come l’ombra di una 'omissione' - ci hanno fatto anche libri! - con sottintesa un’accusa che tocca non solo Zaccagnini, ma con lui anche Paolo VI. Già: nelle Lettere di Moro si leggono cose dure verso Zaccagnini, ma anche verso Paolo VI, che «ha fatto pochino, forse ne avrà scrupolo». E nessuno ricorda che Moro aveva informazioni solo dai carnefici, che forse nulla gli dicevano della realtà in cui proprio Paolo VI le provò tutte, in Italia e all’estero, presso organismi internazionali, Croce Rossa, Amnesty e Onu, e fece raccogliere una grande somma, nel caso servisse.
A metà aprile di quel 1978 Civiltà Cattolica (bozze sempre viste in Segreteria di Stato) scrisse che ­salvo trattare alla pari tra Stato e Br - si doveva fare tutto il possibile per liberare Moro: tutto… In quei giorni e in quelle notti ho visto anche Zaccagnini deciso a fare questo tutto possibile, ma salvo tentativi di sciacallaggio politico non si aprì alcuna via per salvare il suo amico e guida, colui che solo lo aveva convinto ad accettare la Segreteria della Dc. La sua frase drammatica ripetuta tante volte fu questa: «Se ci fosse uno spiraglio!». Lo spiraglio non ci fu mai, e anzi Moro fu ucciso proprio la mattina del 9 maggio, quando uno parve potersi aprire. Lui del resto non aveva concesso nulla: diventato un ingombro, doveva morire. Ebbene: dopo Moro e la sua famiglia, dopo gli uomini della scorta e le loro famiglie, prime vittime di quel dramma furono proprio loro due, Benigno Zaccagnini e Paolo VI.
Seguii da vicino quel dramma anche in altro modo. Ero in quotidiano contatto - e Zac lo sapeva - con monsignor Cesare Curioni, allora storico cappellano a San Vittore e poi ispettore generale dei cappellani di tutte le carceri italiane, che per conto del Papa provò tante altre strade, anche parlando con Renato Curcio e Alberto Franceschini, Br allora processati a Torino, che a lui si dissero del tutto estranei alla vicenda. Fu Curioni, tra l’altro, a scrivere di notte e sotto dettatura del Papa, presente monsignor Macchi, la prima bozza rivolta agli «Uomini delle Brigate Rosse». Per ragioni varie allora ero in contatto anche con Tonino Tatò, segretario di Enrico Berlinguer, e anch’essi sapevano.
La 'strategia della fermezza' ­giudizio informato, e non col senno di poi - non fu scelta feroce imposta a Zac dal ferreo Pci, ma obbligo di una realtà senza alternativa, dolorosissimo per Zaccagnini e per Paolo VI. Falsa quindi la 'vulgata' del Pci che comandava con gelida fermezza, di Zaccagnini che obbediva tremebondo e impotente e del Papa e del Vaticano che si limitarono a preghiere e lamenti opponendosi ad ogni concessione: ingiuria senza fondamento, anche se aleggia nelle commemorazioni e in omissioni di recenti libri.
Uno Zaccagnini passivo e poco energico? Eppure - lo ha scritto anche Enzo Biagi, mai smentito ­egli stesso mi disse che se quel 16 marzo le Br non avessero rapito Aldo Moro, dopo l’approvazione del nuovo governo egli si sarebbe dimesso da segretario: non condivideva alcune nomine di ministri fatte a sua insaputa. Poco energico? La sera dei funerali di Moro nella chiesa di Cristo Re vietata agli uomini della Dc dalla famiglia, in casa Brigante ci fu un’altra messa di requiem, e arrivò una telefonata di Fanfani: chiedeva al segretario il permesso di partecipare, eccezione personale, alle esequie. La risposta di Benigno fu forte e secca: «No! Sei libero, ma se vai ti denuncio ai probiviri e ti faccio espellere dal partito!».
Ultimo: qualche settimana dopo, nei giorni delle votazioni per il nuovo presidente della Repubblica, Benigno mi dice al telefono che è addolorato perché gli uomini della Dc, Piccoli e altri, non vogliono votare Pertini come presidente. Chiedo se a suo parere la scelta di Pertini è giusta e opportuna. Mi risponde che è anziano, talora irruento e imprevedibile, ma galantuomo e pulito. Allora ripenso alla sua confidenza sulle dimissioni: «Chiama i tuoi 'amici' e di’ loro che se domani non votano Pertini tu ti dimetti!». Il giorno dopo Sandro Pertini fu eletto presidente della Repubblica. Il mite Zac aveva fatto la sua parte: come sempre.
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Non si può far finta di niente

Occupazione da iscrivere nell’agenda delle iniziative bipartisan. Seminare speranza nei giovani riformando l’accesso al lavoro.
Rassegna stampa - Avvenire, Gabriele Gabrielli, 10 novembre 2009.

Non si può far finta di niente. I numeri della disoccupazione nell’Unione Europea sono ormai impressionanti; superano i 22 milioni le persone senza lavoro, mentre il tasso di disoccupazione sfiora il 10% secondo le stime di Eurostat. Non consola molto la circostanza che, stando ai dati forniti, in Italia saremmo un paio di punti percentuali sotto. Vorremmo considerare archiviata, dunque, la fase in cui quanti guardavano con preoccupazione crescente al lavoro e alle sue dinamiche venivano considerati allarmisti e additati come pessimisti inguaribili che non aiutavano la ripresa economica del Paese. Ora i dati sono davanti agli occhi di tutti nella loro critica dimensione, mentre va anche accreditandosi l’idea che, almeno su questo punto, non si sarebbe ancora toccato il fondo.
La questione del lavoro, però, non riesce a 'sfondare' l’agenda politica. Stenta a farsi strada e fa proprio fatica, malgrado i numeri forniti da indagini e stime e le molte storie di lavoratori, famiglie e imprenditori in difficoltà documentate dalla stampa, ad occupare il posto centrale che si merita. Cosa altro deve succedere perché la politica, le forze di governo e di opposizione, il Parlamento decidano di avviare seriamente il confronto sul lavoro discutendone a fondo le varie dimensioni ed implicazioni? Alcuni commentatori in questi giorni hanno invitato la nuova leadership del Partito democratico a dire chiaramente quali sono le questioni su cui è disponibile a sedersi a un tavolo di confronto con la maggioranza, cogliendo così l’'interessante segnale' proveniente dal governo in merito a una possibile candidatura di Massimo D’Alema a rappresentare la politica estera europea. Di questioni ne sono state evocate molte, da quelle che riguardano la riforma universitaria a quella della giustizia, fino ad arrivare alle più complessive e sempre presenti riforme istituzionali. Non viene citata, però, quella del lavoro, delle forme e dei percorsi di accesso allo stesso e delle sue tutele. Su questo, però, Pierluigi Bersani è stato chiaro: «Assolutamente dobbiamo occuparci del lavoro», ha detto intervenendo alla trasmissione televisiva 'Che tempo che fa' domenica scorsa. Si può cominciare da qui a discutere, allora? È questo un terreno su cui maggioranza e opposizione possono tornare a confrontarsi con toni e contenuti appropriati, sollecitati dall’urgenza delle questioni da affrontare e su cui dare risposte? Siamo profondamente convinti, come è stato già scritto su queste pagine da Francesco Riccardi, che «il lavoro oggi merita una Costituente che ne ridisegni lo Statuto». Di proposte e materiali, al riguardo, ce ne sono già molti. A cominciare dal Libro Bianco del governo e dalle idee sullo 'Statuto dei lavori', fondato sul riconoscimento di tutele progressive in funzione dell’anzianità e del grado di dipendenza economica del lavoratore. In Parlamento c’è la proposta del senatore Pietro Ichino che immagina un contratto a tempo indeterminato per tutti i nuovi rapporti di lavoro. Ma girano e si discute intorno a molte altre proposte, alle quali si è aggiunta da qualche giorno anche la petizione delle Acli 'Verso uno Statuto dei lavori'. Non si può dunque continuare a prendere tempo. A vantaggio di chi? È ora di costruire seriamente il consenso su una riforma necessaria per superare il dualismo del nostro mercato del lavoro e per non mettere giovani e anziani gli uni contro gli altri. Per non incentivare lo scontro tra quanti hanno un lavoro stabile e quanti vivono nella luce, fioca e intermittente, di contratti 'a scadenza'. Per non ipotecare il futuro di chi si affaccia ora sul mercato del lavoro con la prospettiva di tutele previdenziali inconsistenti.
La questione del lavoro in tutte le sue dimensioni è una reale priorità del Paese, almeno della gente che si incontra tutti i giorni. Ed è una priorità soprattutto, riprendendo le parole del cardinale Angelo Bagnasco, per «seminare speranza» nei giovani e per sostenere la fiducia di quanti lo stanno perdendo.
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I sacerdoti del dio Po a guardia dei crocefissi

Casale. L’amministrazione intende mantenere l’immagine sacra nonostante il pronunciamento della Corte europea. Partite le “ronde” del crocifisso. L’assessore ha dato il via ieri ai controlli nelle scuole.
Rassegna stampa - Il Cittadino, Andrea Bagatta, 10 novembre 2009.

Sono partite ieri le “ronde pro crocifisso” con una prima verifica da parte dell’assessore all’istruzione Giuseppe Passerini nei plessi scolastici delle materne e delle elementari casaline. Le azioni di controllo, ribattezzate “ronde pro crocifisso” dal primo cittadino Flavio Parmesani, sono mirate a garantire la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche dopo che la Corte europea per i diritti dell’uomo aveva emesso una sentenza a favore della rimozione. La sentenza non è ancora operativa, anche per il ricorso portato avanti dal governo italiano, ma in molti ambienti è montata la preoccupazione per una decisione giudicata inconcepibile, lontana e contraria dalle tradizioni italiane ed europee.
Il primo giro di controllo è stato condotto presso la direzione didattica statale di Casale che comprende i plessi delle materne di piazza della Repubblica, con la sezione staccata di Zorlesco, e della Ducatona e i plessi delle elementari Scotti, della primaria del tempo pieno e di quella di Zorlesco.
«Non abbiamo trovato nulla di strano per il momento, e anzi abbiamo avuto ampie rassicurazioni sia sulla presenza del crocifisso nelle aule sia per le altre tradizioni del periodo natalizio, a partire dal presepe - afferma l’assessore Giuseppe Passerini -. È nostra ferma intenzione contrastare la decisione della Commissione europea con tutti i mezzi a nostra disposizione, e anzi di valorizzare le nostre tradizioni e le nostre radici cristiane. Personalmente sono convinto che dal ministero non arriverà mai la comunicazione di togliere i crocifissi, ma noi continueremo a vigilare».
Se l’atto politico dell’amministrazione è molto forte, dal punto di vista pratico la preoccupazione sembra ancora prematura, anche perché nelle scuole sembra regnare la massima serenità su questo punto.
«I crocifissi sono tutti al loro posto, nessuno si è sognato di toglierli - risponde Cristiano Grassi, dirigente scolastico della direzione didattica di Casale che è stata oggetto della visita da parte dell’assessore Passerini -. Come funzionario statale mi devo attenere e mi dovrò attenere in futuro alle indicazioni che ci arriveranno, ma a oggi nulla è cambiato. Anzi, all’interno della scuola, pur con una presenza rilevante di stranieri, c’è un’ottima convivenza. L’anno scorso durante la visita pastorale anche monsignor Giuseppe Merisi è venuto nelle nostre scuole, e nessuno ha avuto nulla da ridire. Anzi, molti bimbi islamici hanno partecipato all’incontro».
A Casale la presenza di alunni stranieri nelle scuole è particolarmente sentita e in costante crescita di anno in anno. Gli ultimi dati indicano in 79 bambini su 286 gli stranieri presenti nelle materne pubbliche, circa il 27 per cento, in 116 su 687 quelli delle elementari, quasi il 17 per cento, e in 69 su 450 quelli della scuola media, il 15 per cento circa.
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Si «scava» nelle bonifiche

La Sadi opera anche a Cerro e Crespiatica. Spunta una società tra l’assessore pavese in cella e Buscemi, che decide sui rifiuti in Regione. Caso Grossi, al setaccio altre bonifiche. La Forestale acquisisce nel Pavese le relazioni finali degli interventi.
Rassegna stampa - Il Cittadino, Carlo Catena, 10 novembre 2009.

Si allarga a macchia d’olio l'inchiesta della procura della Repubblica di Milano sui conti delle bonifiche di Giuseppe Grossi, che con la sua Sadi-Servizi industriali si sta occupando della ex Ra.Bo. di Crespiatica e dei campi della Gazzera di Cerro.
Nei giorni scorsi agenti del corpo forestale dello Stato, su delega dei pm milanesi Laura Pedìo e Gaetano Ruta, hanno fatto visita agli uffici dell’amministrazione provinciale di Pavia per acquisire le relazioni finali della direzione dei lavori di tutte le bonifiche effettuate da società di Grossi nel Pavese, relazioni in molti casi firmate dall'ingegnere lodigiano Claudio Tedesi, estraneo a ogni accusa. L’inchiesta sull’industriale “re delle bonifiche” era iniziata con l’ipotesi di riciclaggio per movimenti di valuta tra Italia e Svizzera e i pm ritengono di aver scoperto due cose: un passaggio di denaro, almeno 500mila euro, tra conti esteri riconducibili all’ex assessore provinciale pavese Rosanna Gariboldi e altri di presunti prestanome di Grossi, e un metodo dell'industriale per pagare meno tasse, sovrafatturando il costo di rifiuti smaltiti in Germania attraverso società di Londra, una delle quali intestata a un professore di inglese che insegna in una scuola superiore di Lodi, e di Madeira. Un meccanismo che avrebbe permesso anche di creare “fondi neri”.
Anche dalla Gazzera di Cerro al Lambro, bonifica da 36 milioni di euro pagati dalla Regione e, per 4 milioni, dallo Stato, sono partiti molti carichi di scorie per la Germania. «Le bonifiche lodigiane non sono oggetto di contestazioni», taglia corto al proposito il difensore di Grossi, avvocato Massimo Pellicciotta, che pure non può escludere acquisizione di documenti nella nostra provincia.«In comune a Cerro nessuno si è presentato in questi giorni per acquisire atti sulla Gazzera - assicura il sindaco Dario Signorini -. Tre anni fa si erano presentati i carabinieri di Alessandria per chiedere i certificati “mud” di smaltimento, ma era un’altra vicenda». Controlli senza alcuna conseguenza, assicura al proposito Tedesi. Ma che ora la procura di Milano cerchi di tirare le somme per contestare fino all'ultimo euro evasione fiscale e fondi neri, è invece probabile. Anche perché uno dei difensori dell'ex assessore pavese Gariboldi, la professoressa Maria Novella Galantini di Milano, assicura che «non ci viene contestato nulla riguardo alle bonifiche, solo l'ipotesi iniziale». Cioè reati finanziari. Che le acquisizioni di documenti siano partite da Pavia, quindi, per la difesa è una mera coincidenza. La Gariboldi (moglie del parlamentare Pdl ed ex assessore regionale alla sanità Giancarlo Abelli, estraneo all’inchiesta), resta in carcere, ormai dal 20 ottobre, e risultano suoi rapporti di socia in affari con gli assessori regionali Massimo Ponzoni, varesino, e Massimo Buscemi, che attualmente ha la delega a reti e servizi.
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Riparte da Lodi la lotta contro tutte le mafie

Ieri al Quirinale l’incontro di Giulio Cavalli con il Capo dello Stato. «Lei ha tanto coraggio»: Napolitano benedice l’attore “anti cosche”.
Rassegna stampa - Il Cittadino, Rossella Mungiello, 10 novembre 2009.

L’ha accolto nel salone delle Feste, davanti al gotha dello spettacolo. Gli ha stretto la mano calorosamente e ha ascoltato con attenzione la sua storia. Elogi per Giulio Cavalli dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. L’attore e autore lodigiano è salito al Quirinale ieri mattina, per la “Giornata dello Spettacolo”. Dopo la consegna dei premi Eti per il teatro e De Sica per il cinema, il presidente della Repubblica ha ricevuto personalmente Cavalli nel salone delle Feste.
È qui che l’attore ha raccontato al Capo dello Stato la sua storia, la genesi del suo primo spettacolo in cui ridicolizza i boss, Do ut des, riti e conviti mafiosi, e l’escalation di intimidazioni dopo la messa in scena. Dalla bara con il suo nome disegnata sulle pareti del Nebiolo alle minacce di morte fino alla tutela fissa ottenuta dal Ministero dell’Interno dopo un anno di paura, lo 27 aprile scorso. Passo dopo passo, l’attore lodigiano ha spiegato a Napolitano la sua condanna a morte da parte delle cosche, arrivata qui, nel Lodigiano. Intimidazioni che sono proseguite anche per il crescente impegno di Cavalli sul tema dell’antimafia, prima con una rubrica radiofonica sul web sulla scorta dell’esperienza di Radio Aut di Peppino Impastato, poi con un secondo spettacolo sull’intreccio mafia-politica in Lombardia, «contro le infiltrazioni locali della ‘ndrangheta negli appalti per la Tav e l’Expo», “A cento passi dal Duomo”, scritto a quattro mani con il giornalista Gianni Barbacetto. Una storia ascoltata con attenzione dal presidente della Repubblica, che si è preoccupato di sapere se l’autore lodigiano «goda di una sufficiente protezione», pregandolo di rivolgersi direttamente al Quirinale per segnalare «eventuali problemi» di tutela. E a Cavalli sono arrivati anche gli elogi del Capo dello Stato «per il coraggio di denunciare» e l’esortazione «a proseguire con il suo lavoro». Nella conversazione con il presidente, Cavalli non si è limitato a parlare del suo lavoro e della vita sotto scorta. È andato oltre toccando il silenzio e l’abbandono della politica e del mondo del teatro e dello spettacolo in genere. «Sia le istituzioni che il mondo teatrale hanno taciuto, a parte la solidarietà personale ricevuta da Paolo Rossi e Dario Fo - ha spiegato Cavalli - . Inoltre, sono praticamente stato escluso dalle circuitazioni teatrali». Non ha taciuto la stampa, secondo l’attore lodigiano, «soprattutto quella locale e “Il Cittadino” in particolare, che ha sempre seguito con attenzione la mia vicenda assumendosi responsabilità e fastidi». «Questo caso resta nell’oscurità alla pari dei tanti episodi di giornalisti che ricevono minacce perché si ostinano a fare il loro dovere e dei quali non ci si fa carico in termini di garanzia per la loro sicurezza - ha detto in merito Alberto Spampinato, direttore di Ossigeno, l’osservatorio della Federazione Nazionale della stampa italiana sui cronisti minacciati -. Siamo davvero lieti dell’interessamento del presidente Napolitano».
Tra le accuse di Giovanna Mezzogiorno alla vanità e al nepotismo, i premi alla carriera alla moglie di Mike Bongiorno, l’annuncio della pace ritrovata tra Massimo Boldi e Christian De Sica, il mondo dello spettacolo si è fermato per un momento per il personalissimo incontro tra il presidente della Repubblica e l’attore lodigiano. «Sapere che la più alta carica dello Stato si è interessata alla mia vicenda è confortante - ha commentato Giulio Cavalli, raggiunto telefonicamente durante il viaggio di ritorno -: sono molto contento perché l’incontro di questa mattina apre un canale diretto, inaugura un rapporto. Durante la nostra conversazione ho notato una sensibilità particolare su questi temi di denuncia civile e gli scriverò come mi ha chiesto». E sul futuro, nonostante l’incontro al Quirinale, assicura: «Continuerò a non prendermi troppo sul serio».

La “carovana” antimafie ritorna a Lodi: due giorni dedicati alla guerra ai boss.
Rassegna stampa - Il Cittadino, 10 novembre 2009.

Riparte da Lodi la lotta contro tutte le mafie. Questa mattina si terrà l’appuntamento con la “carovana” sul tema della legalità. Una due giorni promossa da comune di Lodi, Arci, Libera, Avviso pubblico, Adelante, Coop e altre associazioni del territorio. Interverranno il regista lodigiano Giulio Cavalli, sotto scorta per minacce mafiose, poi l’autore Carlo Barbieri, che ha descritto l’esperienza delle cooperative che gestiscono le terre confiscate alle cosche e Pierpaolo Romani, coordinatore di Avviso pubblico, associazione di enti locali per la formazione civile. Con la “carovana” antimafie si comincia oggi, martedì 10 novembre, con gli studenti del liceo Gandini. Dalla ore 9 si divideranno in gruppi per confrontarsi sulla legalità con alcuni esperti. In contemporanea all’Itis di Lodi sono previsti gli interventi di Giulio Cavalli e Roberto Figazzolo, regista del corto che verrà proiettato “Librino? Una favola”. Sempre in mattinata ci sarà quindi l’incontro in carcere con Carlo Barbieri, autore di “Le mani in pasta”. E per continuare un aperitivo a Lodi Vecchio presso il Circolo Arci (ore 12) e un pranzo della legalità al circolo Arci di Lodi (ore 13). Nel pomeriggio, tavola rotonda in comune a Lodi con il gruppo Avviso pubblico, che incontrerà i sindaci del territorio (ore 16.30). E dalle 18, al centro commerciale My Lodi, aprirà la mostra fotografica sulla Sicilia, intitolata “Il profumo della libertà”. Infine alla sera, ore 21 (aula magna Verri), serata con Cavalli e Paolo Colonnello (giornalista della «Stampa»). Domani dalle ore 9, incontro all’Itis con Francesco Galante di una cooperativa sociale che opera in Sicilia.
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Fumo

L’annuncio dell’assessore al Bilancio Devecchi che aveva già eliminato le mazzette dei giornali: l’ente risparmierà 28mila euro. C’è la crisi, stop agli auguri di Natale. La Provincia “taglia” le spese su biglietti e agendine di fine anno.
Rassegna stampa - Il Cittadino, Matteo Brunello, Alberto Belloni, 10 novembre 2009.

La crisi continua, i bilanci piangono e la provincia taglia... sui biglietti per gli auguri. In attesa di dare corpo all’ambiziosa sfida di ridurre del 20 per cento le spese di tutti i settori, la crociata anti sprechi di palazzo San Cristoforo si accanirà sul capitolo cancelleria, già bersagliato attraverso uno sfoltimento sulle mazzette dei giornali e in procinto, come rivelato dall’assessore Cristiano Devecchi nel corso degli stati generali della Lega, di riflettersi anche sulle tradizionali agende annuali della provincia. L’austerità sotto l’albero di Natale, insomma, o meglio «Equilibrio e serietà - come spiega lo stesso assessore al bilancio -, il che non significa negare l’atmosfera natalizia e i suoi simboli ma darle vita stando ben attenti a ogni singolo euro speso dall’ente». Il proposito, nel concreto, si tradurrà in una riduzione di abbonamenti a riviste on line e cartacee, agende e bigliettini di auguri pari a 24mila euro di risparmio rispetto a un anno fa, e di 28mila nel confronto biennale. Non propriamente la manovra del secolo, come riconosce Devecchi, comunque convinto che il metodo adottato possa replicarsi su varie situazioni e permettere così alla macchina provinciale di recuperare, euro su euro, un “tesoretto” più significativo. «Siamo onesti sino in fondo: 28mila euro l’anno non cambiano il bilancio di una provincia – spiega l’assessore -. Ma devo precisare che questi sono solo alcuni piccoli esempi dell’impostazione che intendiamo dare alla gestione amministrativa, in attesa di spiegare i passi più importanti. E poi, c’è una miriade di occasioni in cui la provincia è chiamata a sborsare piccole cifre. Se in tutte queste situazioni si riuscisse a risparmiare qualche migliaio di euro, parleremmo di cifre davvero corpose». Per adesso, le economie più sensibili si rifletteranno sugli abbonamenti alle riviste, pari a 16mila e 500 euro in un anno e di 21mila tra 2008 e 2010, quasi il 38 per cento in meno. Gli assessori daranno l’esempio anche sulle agende provinciali, sufficientemente apprezzate per scampare all’eliminazione ma ridotte da 3mila a 2mila e 600 unità, con costi più bassi anche per la realizzazione e un risparmio, sul singolo anno, stimato sui 6mila e 700 euro. E i biglietti d’auguri? Qui, a dispetto dei soli 1600 euro risparmiati, il taglio sarà più radicale, dai 2500 dello scorso anno a 1000, mentre pur tentennando Devecchi ha salvato il tradizionale brindisi natalizio, che alcuni dipendenti avevano suggerito di abolire per solidarietà verso i disoccupati. L’unico “regalo di Natale” sarà invece una novità: l’agenda per i maturandi, distribuita in dicembre in circa 1500 copie, dove i giovani potranno trovare i recapiti dei luoghi di interesse sul territorio (quali cinema, musei, biblioteche) e una sezione di “domande” attraverso le quali scoprire il funzionamento della pubblica amministrazione.
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