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sabato 19 settembre 2009

Nel nulla afgano

Afghanistan amaro.
Rassegna stampa - La Stampa, Guido Ceronetti, 19 settembre 2009.

Dopo l'esperienza di ambasciatore in Russia, Ottone di Bismarck si era fatto incidere in un anello: «La Russia è il Nulla». Proviamoci a dibattere appassionatamente: Afghanistan dice qualcosa? Muove emozioni collettive condivise? Volendone parlare ne stringo tanto poco da non poter premettere che questo: Afghanistan è il Nulla. Ci sono altri Nulla, nel mondo, ma isoliamo questo.
Tutti lo nominano o ne hanno sentito dire, ma l'intrepido giornalista che ancora va e viene tra Kabul e Pakistan, o il militare che conosce il terreno e quel che ci sta sopra, richiesti di definirlo, immagino risponderebbero Caos, per significare Nulla - perché il caos non è, in logica, qualcosa. Bello è geopolitizzare da Milano, da Roma, da qualche Saxa Rubra, ma l'Informazione non è Conoscenza.
Qualche sensibilità di un pericolo vago, di un'America che non trova una via d'uscita, di una Nato nella gabbia di vetro celebre di Marcel Marceau... la materia del commento non ne sconfina. Si può con giustizia dire, soltanto, come il vecchio canto toscano della Maremma, che è un Afghanistan amaro, dove nessuno di noi andrebbe ad abitare. E neppure a cercarvi il combattimento perché il combattere classico è morto da un pezzo. Resta aperta la possibilità di morirci senza aver sparato un colpo.
Così i militari, nel nulla afghano, si perdono nell'indistinto delle vittime civili. Mi fisso dunque un tema di cui non so dire, certo che la verità sia questa, per tutti, quando si affrontano i guazzabugli insolubili.
La situazione: cosa ci dicono le Agenzie? Oggi trenta, cento morti in attentati suicidi (ormai fuori da ogni connotazione morale). Donne che smettono il burqa o tentano di imparare a scrivere, ripudiate, torturate, massacrate «per religione». La grande America e un campionario di quelli che furono i più temuti eserciti del mondo tenuti in scacco dai fanatici che credevano di avere battuto in una rapida gesta di guerra elettronica: otto anni così. Otto, finora - e poi? Soldati che muoiono miserabilmente, senza poter combattere, su mine, per colpi di mano, cecchinaggio. L'unica offensiva di cui sono capaci «i nostri» sono le bombe dal cielo: un modo certo per andare in perdizione, il nemico sfugge acquattandosi, i civili fuggono terrorizzati e tornano per contare i loro morti, creazione dell'abbominevole Fuoco Amico.
Le scuse diplomatiche e addirittura alle famiglie degli uccisi da parte dei Fuochi Amici quando la strage maldestra è grossa sono un intollerabile obbrobrio ma su queste sponde sicure l'effetto, generalmente, è di un delizioso farmaco contro l'insonnia.
Afghanistan amaro. Anche come porto d'imbarco della Morte, che punta a Occidente. Sono le sterminate e invincibili coltivazioni del papavero dei cui derivati si vedono gli effetti sulle panchine dei giardini e nei posti di Pronto Soccorso, dentro le famiglie e nelle celle. Da parte dei coltivatori locali, è innocenza criminale, concorso inconsapevole a un abbrutimento di indifferenti. Loro ci càmpano; a noi la paura.
Obama ha capito che Afgha viene prima del resto, ma credeva di persuadere a un Iran senza finestre di rinunciare ai suoi ossessivi pruriti nucleari di potenza islamica antisraele. Obama, fortunatamente, lo può tacitamente aiutare una Russia non simpatizzante per i Talebanski, dai quali ha già ricevuto una famosa batosta. Tutto poco gradevole da rimestare.
La storia intera, forse, è il Nulla. Ma per noi che ci riteniamo missionari dovunque e, imprudenti ma umani, seguiamo lo yes, we can obamico, il Nulla è ben lontano dalle nostre ferie di massa: per esempio, il Nulla è a Kabul e dintorni, nei passi pakistani, nei nidi qaedisti, nelle supreme sovranità tribali. Là si abita in modi incompresi, si mangia e si prega secondo riti che non amiamo, la vita è troppo dura e la ferocia negli odi è illimitata. Questo si può immaginarlo, ma non avvicina.
Mi domando... se al posto di questo Karzai su cui non arrischio giudizi, ci fosse il molto più simpatico e consistente Massud, uomo di vera guerra, di giusto combattimento, probabilmente anche vera guida per quei popoli, l'Afghanistan diventerebbe forse Qualcosa? Sarebbe, per tutti, meno, molto meno, un Afgha amaro? Un'idea geniale, tempo fa, delle Poste francesi: hanno ricordato il comandante Massud con un francobollo bellissimo.
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Capire il problema ampliando l'ottica

L'analisi.
L'elefante e le formiche.

Rassegna stampa - La Repubblica, Bernardo Valli, 19 settembre 2009.

Non basta guardare a quel che accade in Afghanistan per afferrare tutti i risvolti del conflitto. Quest'ultimo deve essere osservato da almeno due punti di vista. Si deve ovviamente studiare, anzitutto, la situazione sul terreno, entro i confini del Paese. Un paese indomito, o incontrollabile, nel senso che tante potenze straniere vi hanno lasciato le penne, negli ultimi secoli, nel vano tentativo di sottometterlo, o di imporvi, come adesso, le regole di un ordine internazionale. Al tempo stesso va tenuta d'occhio la simultanea, ampia azione politico-diplomatica destinata a rendere possibile quel che sul solo piano militare è di difficile soluzione. I due punti di osservazione finiscono col sovrapporsi; e comunque, nell'attesa di esiti non ancora immaginabili, già da adesso non possono essere disgiunti.
È significativo l'atteggiamento di Barak Obama per capire i dubbi, le perplessità della superpotenza che guida il conflitto. Il presidente non è venuto meno al principio di una «war of necessity», ossia di una guerra irrinunciabile per gli interessi americani, e occidentali in generale, tenuto conto della indispensabile stabilità della regione, infestata di terroristi e jihadisti, tra i quali i responsabili dell'11 settembre. Una regione in cui vi sono due grandi Paesi, in permanente tensione e dotati di armi atomiche, quali sono l'Unione Indiana e il Pakistan. Quest'ultimo contagiato dai taliban e ospitante i residui di Al Qaeda. Si dirà che allargando, con le speculazioni, un'area di crisi si sconfina spesso nella fantapolitica. È vero, ma la storia dell'Asia centrale non è un'opinione.
Senza venir meno al principio della «war of necessity», Barak Obama esita adesso a soddisfare le esigenze dei militari, espresse dall'ammiraglio Mike Mullen, capo di stato maggiore generale delle forze armate americane. Mullen ha fatto capire con chiarezza che il generale Stanley A. McChrystal, comandante delle truppe Nato in Afghanistan, non sarà nelle condizioni dí promuovere una efficace azione contro i taliban, sempre più aggressivi, se non sarà confortato da un cospicuo rinforzo di uomini e di mezzi, prima o al più tardi entro l'inverno. Obama ha preso tempo. Ha detto di non voler affrettare la decisione. Vuol conoscere prima la nuova strategia che i responsabili militari e civili vogliono applicare.
Nessun precipitoso invio di altre truppe. A frenarlo, prima di ampliare il coinvolgimento americano, contribuiscono le perplessità sempre più evidenti tra gli stessi democratici, e quelle altrettanto evidenti nell'opinione pubblica, sempre meno favorevole a un conflitto che si dilunga troppo, e che ha perduto di vista l'obiettivo originale. Nel 2001 gli americani sbarcarono in Afghanistan all'inseguimento di Al Qaeda, alla caccia dei mandanti, dei complici dell'11 settembre. Ma adesso Al Qaeda, secondo gli uomini dell'intelligence disposti a parlare, non sarebbe più in Afghanistan. Quel che resta dell'organizzazione di Bin Laden si troverebbe in Pakistan. Il crampo di Obama è di tipo vietnamita.
Senza stabilire un nesso tra i due conflitti egli ha nella memoria la drammatica scalata dei suoi predecessori, in particolare di Lyndon Johnson, che negli anni Sessanta riversarono via via mezzo milione di uomini nella penisola del Sud Est asiatico (dove all'inizio c'erano soltanto esperti e consiglieri), cadendo nella trappola delle guerre asimmetriche. Guerre in cui gli insorti mal armati ma con radici nella popolazione possono tenere in scacco eserciti stranieri, dotati di mezzi sofisticati. Non li sconfiggono militarmente ma li riducono al ruolo di elefanti che non riescono a schiacciare le formiche annidate nelle pieghe del terreno, vale a dire, appunto, della popolazione.
Un'intelligente capace di spiare guerriglieri e terroristi, ma anche di studiare la società, in tutti i suoi risvolti, piscologici, religiosi, economici, conta più degli squadroni corazzati. O dei reparti che vivono come nel «deserto dei tartari».
Siamo comunque ben lontani dal numero di GI che componevano l'armata americana, ritiratasi dal Vietnam nei primi giorni del '73, lasciandosi alle spalle esperti poi evacuati, nell'aprile del '75, da Saigon, con drammatici voli di elicotteri. Su uno degli ultimi decollati dal tetto dell'ambasciata c`era il capo missione Graham, con la bandiera a stelle e a striscie sotto il braccio.
Entro la fine di questo mese ci saranno in Afghanistan circa 68 mila americani e 39 mila altri soldati della Nato (tra i quali gli italiani). Appena entrato alla Casa Bianca, dopo avere deplorato l'iniziativa di Bush jr che aveva dirottato in Iraq non pochi reparti operanti in Afghanistan, Obama ha deciso un'operazione in senso inverso, mandando 17 mila 500 uomini da Baghdad a Kabul. E con loro quattromila militari incaricati di addestrare esercito e polizia afgani. Un rinforzo che non ha dato, per ora, gli effetti sperati. Da qui la cautela del presidente.
E adesso un'occhiata all'avvenimento politico diplomatico in programma il 1° ottobre, lontano dall'Afghanistan, ma con possibili conseguenze dirette su quel conflitto. Tra neppure un paio di settimane cominciano i colloqui tra l'Iran e il P5 + 1, vale a dire i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e in più la Germania. Di fatto, senza tenere conto dell'opposizione dei neo-conservatori di Washington e del governo di Gerusalemme, ostili al dialogo e favorevoli alle sanzioni contro Teheran, gli americani si siedono allo stesso tavolo degli iraniani. Quest'ultimi hanno posto come condizione che la questione nucleare non debba essere trattata. Ma lo sarà. È inevitabile. Mohammed El Baradei, responsabile dell'Agenzia atomica (IAEA) di Vienna, e veterano della vicenda, lo sa benissimo. Per questo ha accolto con entusiasmo la decisione americana di avviare un dialogo «senza precondizioni e sulla base del reciproco rispetto».
L'offensiva diplomatica di Obama verso il mondo musulmano passa obbligatoriamente per l'Iran. La rielezione contestata, forzata di Ahmedinejad è stato un contrattempo. È stata giustamente condannata, e resta come una macchia, una delle tante sul regime teocratico, ma Teheran è un interlocutore indispensabile per disinnescare la situazione mediorientale. Ed anche per l'Asia centrale. In Afghanistan l'Iran esercita un'influenza crescente, sul piano militare, economico, politico e religioso.
Pur avendo costanti, intensi rapporti con il presidente Karzai (che è stato in visita ufficiale a Teheran) gli iraniani forniscono armi agli insorti: armi leggere, mine, esplosivi vari, lancia granate ed anche missili SA-14, capaci di colpire gli elicotteri. E si prodigano presso gli afgani nel condannare la presenza straniera nel loro paese, in particolare quella americana.
L'influenza iraniana è visibile soprattutto nella provincia occidentale di Herat, dove imprenditori di Teheran hanno contribuito alla creazione dei servizi pubblici e dove si propongono di costruire una fabbrica di automobili. Lungo l'interminabile confine (600 miglia) il passaggio di uomini e droghe è intenso. L'Iran è il principale consumatore dell'oppio afgano ed è una zona di transito verso l'Asia e l'Europa. L'esercito e la polizia antinarcotici cercano di fermare quel traffico, con variabile successo e con tutte le inevitabili ambiguità che accompagnano un commercio tanto redditizio. Le autorità religiose temono gli effetti della droga nella loro società e sono severi nel proibirne la diffusione. Ma è come tentare di fermare un fiume in piena.
Nel conflitto afgano la teocrazia di Teheran ha spesso fatto un doppio gioco. Non ha amato Al Qaeda, pur avendo ospitato alcuni suoi affiliati (perché con la nazionalità saudita), né aveva una particolare simpatia per il regime dei taliban, tanto che autorizzò gli aerei americani a sorvolare il territorio iraniano nel 2001. Adesso sorride a Karzai ma arma gruppi di insorti. Se i colloqui che cominciano il 1° ottobre conducessero a un'intesa sull'Afghanistan, l'offensiva diplomatica di Obama darebbe i suoi primi importanti frutti.
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L'Italia può dare molto per l'Afghanistan

L'intervento.
Siamo a Kabul per la pace.

Rassegna stampa - Il Tempo, Franco Frattini ministro degli Affari Esteri, 19 settembre 2009.

Il sacrificio dei nostri ragazzi a Kabul provoca anche una svolta importante sulla strada di quell'unità nazionale e di quello spirito bi-partisan che ancora fatichiamo a celebrare e a crescere in tempo di pace. Le lente ore che hanno ieri accompagnato la giornata delle istituzioni e della politica hanno infatti registrato una consonanza di accenti e di propositi che abbiamo ora la responsabilità di coltivare come un bene prezioso per il nostro futuro. L'Italia può dare molto alla nuova politica per l'Afghanistan perché ha conquistato sul campo, e anche nella formazione della Polizia nazionale Afghana, un prestigio unanimemente riconosciuto, bilanciato da una importante presenza civile che conosce molto bene parole come umanità, dedizione e simpatia. Il sapiente dosaggio di sicurezza e impegno civile può rappresentare la via italiana ad un Afghanistan liberato dalla schiavitù talebana.
È quanto illustrerò ai miei colleghi del G8 a New York per contribuire a definire la prospettiva dì un nuovo Piano della comunità internazionale per la ricostruzione dell'Afghanistan. Un Piano che ruoterà attorno a tre grandi capitoli: l'azione politica, quella della ricostruzione istituzionale, civile ed economica; la sicurezza.
L'impegno in Afghanistan è qualcosa di più e di diverso dell'impegno in una guerra lontana dalla nostra geografia. Il terrorismo si rivela ancora letale e globale, la sua minaccia pesante e sofisticata, forte dei soldati di un esercito asimmetrico e di messaggi penetranti lungo la rete dei media, vecchi e nuovi.
Per questo motivo noi siamo in Afghanistan, parte importante di una missione composta da una forza internazionale che impiega 100 mila militari provenienti da circa 40 nazioni: inizialmente per sorvegliare Kabul dai talebani e proteggere il governo di Hamid Karzai, successivamente per presidiare l'intero territorio nazionale.
Sono 3000 le unità italiane ed il nostro Paese rappresenta il quarto contingente in termini di truppe impegnate a presidiare la sicurezza dell'Afghanistan, diventata progressivamente il nr. 1 dell'agenda della politica, non soltanto degli Stati Uniti.
Ma accanto al binario della sicurezza corre quello degli aiuti per le riforme - la giustizia, le istituzioni e il buon governo; ma anche infrastrutture, ospedali ed aiuti umanitari per rifugiati e sfollati - un binario che vede il contributo civile dell'Italia situarsi a quota 356 milioni di Euro a maggio 2009. La potenza mediatica delle notizie del terrore e della guerra oscura purtroppo questa parte della politica del fare e l'eroismo della vita quotidiana di cui danno prova tanti nostri connazionali, interpreti di quello "spirito italiano" che ci lega in molte parti del mondo alla simpatia ed all'amicizia di popolazioni martoriate.
Se il sacrificio dei nostri ragazzi ripropone con forza il tema di un codice per le missioni internazionali - che non è soltanto problema italiano - sul versante della società civile si gioca la partita di una rinnovata politica che sappia conquistare i cuori della gente.
Franco Frattini
Ministro degli Esteri
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Ma dove sta la democrazia?

Exit strategy.
L'analisi. Uscire adesso un favore ai talebani.
Rassegna stampa - Il Messaggero, Ennio Di Nolfo, 19 settembre 2009.

Il trauma provocato dall'eccidio di Kabul suscita - non senza ragione molte tese discussioni. È ben vero che quandosi partecipa a un conflitto certe conseguenze, anche le più infauste, sono inevitabili. Lo mostrano le centinaia di vittime appartenenti alle Forze armate degli altri Paesi dell'Isaf in primo luogo quelle americane e quelle britanniche. Lo mostrano ora le vittime italiane, la cui amara fine non può, in Patria, essere liquidata come un evento bellico fatale ma deve essere considerata come un'occasione per ripensare a ciò che gli italiani e gli altri alleati dell'Isaf stanno cercando di fare in un'area così remota e impervia.
Infatti è troppo facile liquidare ciò che è avvenuto dietro la facciata delle solenni celebrazioni funebri, in attesa di dimenticare tutto come un frutto della fatalità. È invece necessario ritornare a riflettere sul senso di un impegno italiano e internazionale proprio in Afghanistan e non in altri Paesi, dove pure l'importazione della democrazia sarebbe necessaria ma che motivi di opportunità spingono lontano dal proscenio. Perché, basta chiedersi, imporre la democrazia agli afghani e non ai birmani, che stanno all'altro estremo della stessa area geografica? L'idea che le forze internazionali siano in Afghanistan, su mandato dell'Onu, per sottrarre questo Paese alla teocrazia dei Talebani e per instaurare un regime democratico si allontana nel tempo come un'immagine in dissolvenza. È sufficiente, per capirlo, pensare che l'attacco agli italiani è stato contemporaneo all'affermazione di Karzai di essere il vincitore delle elezioni presidenziali, un'affermazione che gli osservatori internazionali si rifiutano di condividere, enumerando le centinaia di migliaia di schede elettorali falsificate o contestate. Oggi è chiaro che Karzaí non rappresenta più in Afghanistan la democrazia che l'Isaf avrebbe dovuto portare a quel Paese.
Benché la recrudescenza degli attentati possa forse essere considerata, ottimisticamente, come una risposta ai successi delle forze internazionali, è ben chiaro che Karzai appartiene solo al non ristretto numero dei capi locali che, specialmente nell'ambito dell'etnia pashtum, della quale egli è un autorevole esponente, si contendono l'esercizio del potere. Così la speranza che le forze dell'Isaf e i loro progetti politici abbiano la meglio, proprio nel momento in cui sono le stesse potenze occidentali a spingere Karzai verso un compromesso con i capi talebani moderati, si trasforma in una prospettiva controproducente rispetto al tema della democrazia afghana.
Nella ricerca delle spiegazioni di fondo appare allora più convincente quanto afferma Fareed Zakaria, il direttore dell'edizione internazionale di Newsweek, il quale spiega la scelta dell'obiettivo come frutto diretto dell'alleanza tra i talebani e al-Qaeda. La lotta non avrebbe come proprio scopo la democratizzazione dell'Afghanistan bensì il controllo e la sconfitta del terrorismo globale. Non a caso, la presenza dell'Isaf in Afghanistan avrebbe impedito un successivo dilagare incontrollato delle azioni terroristiche nel mondo.
Può dunque, in questa cornice, l'Italia decidere da sola? In linea di principio nulla lo impedisce. Invece, di fatto, una decisione unilaterale, che il senso di responsabilità pare del resto escludere, distruggerebbe la credibilità internazionale del nostro Paese. Esso invece, proprio anche per il prezzo umano appena pagato, può dare un contributo più rilevante partecipando alla ripresa o, meglio, all'intensificarsi del dibattito, già avviato da tempo anche negli Stati Uniti, sul senso, gli obiettivi e i tempi di ciò che si vuole fare. Può ragionevolmente contribuire alla ricerca di formule di compromesso che non segnino una vìttoria sempre più difficile ma rendano efficace sul piano pratico il controllo di una situazione potenzialmente esplosiva.
Zakaria suggerisce che questo obiettivo possa essere sintetizzato dalla seguente formula: rendere l'Afghanistan «un Paese inospitale per al-Qaeda e i gruppi dì terroristi... Ovviamente con la cooperazione dell'esercito e dell'Intelligence pakistani». Si tratta, come appare in piena evidenza, di un ripensamento minimalista ma anche di un ripensamento che darebbe un senso nuovo a una missione che, in caso diverso, potrebbe durare molto a lungo, senza raggiungere i risultati che essa si prefiggeva. Su questo piano, il contributo dell'Italia può essere assai più utile che non con le decisioni unilaterali.
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Una legge truffa per vincere le regionali

Regionali. Proposta di legge per la soglia dei 4 per cento.
Rassegna stampa - Il Giornale, 19 settembre 2009.

Arriva la soglia di sbarramento al 4 per cento anche per le elezioni Regionali. Dopo averla introdotta per le recenti Europee, in vista del voto che si terrà a marzo 2010, la maggioranza si prepara ad approvare una legge che esclude dall'assegnazione dei seggi le liste che ottengono meno del 4 per cento del totale dei voti validi in sede regionale.
La proposta di legge di quattro articoli porta la prima firma del «tecnico» esperto in sistemi elettorali Giuseppe Calderisi, deputato de1 Pdl, e inizierà l'esame martedì in commissione Affari Costituzionali alla Camera. «È ragionevole e plausibile - scrive Calderisi nella relazione - che la legge statale imponga una soglia minima di accesso come principio fondamentale del sistema di elezione dei consigli regionali. Quel principio è coerente con quelli intesi ad agevolare la formazione di stabili maggioranze nel consiglio regionale.Il 4% si allinea al valore stabilito nella legislazione per la Camera dei deputati e i membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia».
Se la proposta del Pdl diventasse legge, la soglia sarà introdotta già dalle prossime elezioni: il testo prevede, infatti, una disposizione transitoria che la rende operativa, anche se le Regioni non interverranno con una propria norma di recepimento. Anche se la Costituzione prevede che il sistema di elezione regionale sia disciplinato con legge della Regione, Calderisi fa notare che «la legge dello Stato può intervenire sul sistema elettorale regionale».
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L'inappuntabile posizione di Bossi

La strage di Kabul. Reagire o rientrare. La missione finisca.
Ecco perché la Lega vuole i soldati a casa.
Il partito di Bossi chiede il disimpegno da tempo: conflitto costoso, impiegare le risorse per la sicurezza.

Rassegna stampa - Il Giornale, Gilberto Oneto, 19 settembre 2009.

Le affermazioni di Bossi vanno sempre interpretate in relazione al clima politico e nell'ottica dei problemi interni al suo partito. Spesso sono infatti seguite da smentite, retromarce, puntualizzazioni, ritrattazioni, precisazioni...
Oltre al solito «parlare a nuora perché suocera intenda», questa volta, a proposito del ritiro dall'Afghanistan, Bossi sembra però voler interpretare il pensiero profondo del suo popolo, ma anche degli autonomisti che leghisti non sono o non sono più, e di molti altri. Questo spiega la continuità di atteggiamento sulla spedizione in Irak del 1993, sulla Serbia, e su ogni altra occasione in cui la Repubblica italiana ha partecipato a spedizioni militari internazionali. Gli autonomisti hanno queste posizioni da sempre, che sono identiche per tutti i movimenti e partiti del mondo, con qualche motivazione in più tutta italiana, anzi padana. Vediamole.
In generale fra gli autonomisti prevale l'idea che ognuno dovrebbe avere il diritto di farsi i fatti propri, anche le peggiori nefandezze se queste non danneggiano qualcun altro. È insito nell'autonomismo il principio della totale podestà a casa propria e il conseguente sospetto (peraltro spesso motivato) che dietro alle operazioni umanitarie si nascondano interessi o volontà di prevaricazione. A questo si aggiunge una certa simpatia emotiva per i piccoli, anche per quelli che difendono le proprie specificità e identità in forma non sempre commendevole ma contro avversari potenti o grandi coalizioni. È un atteggiamento che si è mostrato con chiarezza nella guerra di tanti prepotenti uniti contro la Serbia e nel prevederne le disastrose conseguenze.
Le spedizioni militari sono operazioni che gravano sulle tasche dei contribuenti e per le quali non si vedono vantaggi concreti, anzi se ne vedono solo per altri. E gli autonomisti, soprattutto quelli padani, sono molto sensibili al destino dei propri soldi. Nel caso specifico dell'Afghanistan, pur mostrando i leghisti (ma non solo) un diffuso fastidio nei confronti del mondo islamico, aggravato dai comportamenti degli immigrati musulmani, non capiscono perché si debbano spendere risorse per cercare dì sistemare a casa altrui cose insistemabili, invece che impiegarle per difenderci a casa nostra: fa più paura uno sgozzatore di figli vicino che un talebano lontano.
Infine si teme che le spedizioni militari siano solo un altro tentativo di affermazione del nazionalismo italiano: la storia recente della penisola è piena di invenzioni di nemici esterni e lontani per risolvere o mettere in sordina problemi interni, o per riaffermare una traballante unità. Si tratta di operazioni fatte con notevoli dosi di cinismo: si pensi alle migliaia di poveracci mandati a morire in Crimea in una guerra che non li riguardava e solo per permettere a un geniale politicante, il Cavour, di sedersi fra i potenti del mondo. Oppure alle avventure coloniali, o al grande e inutile macello della Grande guerra che avrebbe dovuto forgiare gli italiani nelle trincee. La sindrome di Crimea e del Carso è forte fra gli autonomisti ed è giustificata. Puntualmente infatti anche oggi la giusta commozione per i soldati morti viene strumentalizzata in senso patriottico in un parafernale di vessilli, inni, retorica, labari, corone e di tutto il funereo apparato di cui l'italianità da sempre si circonda.
Può anche darsi che la richiesta di Bossi possa essere letta come la solita fuga italiana dagli impegni internazionali. È un problema che riguarda gli incrollabili sostenitori di ruoli e destini maschi e imperiali: a lui si deve riconoscere di avere chiesto il ritiro da molto tempo prima che i morti gli dessero ragione.
Oggi la posizione di Bossi è inappuntabile: liscia il pelo ai suoi, si riavvicina agli autonomisti fuori dalla Lega e cerca facile consenso nel partito del mammismo, il più grande partito italiano.
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Senza guinzaglio

Quanti talebani in Italia.
Quelli che sputano sui nostri morti.
Striscioni disgustosi, slogan rivoltanti, messaggi via Internet da delirio: così la parte peggiore del Paese festeggia la morte dei sei paracadutisti a Kabul. E tra chi fa lo sciacallo sulle loro spoglie c'è persino un prete. Di sinistra.
Rassegna stampa - Il Giornale, Vittorio Feltri, 19 settembre 2009.




Pensavamo che stavolta, e lo abbiamo scritto ieri, non avremmo assistito allo sciacallaggio che seguì la strage di carabinieri a Nassirya, quando una folla di cosiddetti pacifisti, in realtà fanatici di sinistra, esultò alla notizia dell'ecatombe, gridando in vari modi anche volgari la propria soddisfazione per la morte di uomini in missione nell`Irak del dopoguerra. Ma ci eravamo clamorosamente sbagliati, dimentichi che la madre dei cretini è sempre incinta.
Infatti ieri, fra tante manifestazioni di solidarietà e di cordoglio, si sono fatte vive numerose iene da combattimento che non hanno saputo trattenere moti di gioia per le vittime dell'attentato in Afghanistan, sei giovani militari colpevoli di aver sacrificato l'esistenza per compiere il loro dovere. Ci vergogniamo anche solo a scriverne, ma lo facciamo perché tutti sappiano che l'estremismo si era sopito, non estinto, e continua a coltivare sentimenti antinazionali e propositi violenti mascherati di pacifismo. Ci limitiamo a fornire alcuni esempi odiosi.
Sui muri dell'Università di Genova è comparsa una scritta agghiacciante nella sua semplicità aritmetica: -6. Il sei si riferisce ai parà saltati per aria e defunti a causa dell'esplosione programmata dai talebani. Sei soldati in meno nell'Afghanistan sconvolto dalla guerra, per certa gente senza cervello e senza cuore sono motivo di godimento. Gente che fa il tifo per i terroristi islamici, la stessa che molti anni fa scese in piazza a Roma per sostenere Saddam Hussein e demonizzare il presidente americano dell'epoca, Bush, definito guerrafondaio nonostante gli Usa avessero da poco subito l'attacco alle Torri Gemelle.
Non è finita. A Livorno, dove il comunismo non ha mai cessato di accendere passioni insane, un'altra scritta del medesimo tenore di quella genovese: la città non piange i sei parà. E a Lecco, un noto prete antiberlusconiano, e naturalmente pacifista, si è lasciato andare a considerazioni offensive della memoria dei militari italiani dilaniati giovedì.



Il tutto ha un contorno macabro che rivela quanto sia diffuso il rancore in ambienti dell'extrasinistra e del finto buonismo cattolicheggiante. Su molti siti internet si leggono frasi da brivido tastierizzate da uomini e donne dalla mentalità simile a quella dei brigatisti; un florilegio di oltraggi verso l'Occidente, il nostro governo, le Forze Armate. Non c'è fondo nel pozzo dell'astio che alimenta l'estremismo.
L'augurio è che queste idee folli non siano contagiose, soprattutto che non servano da collante per aggregare e compattare movimenti eversivi mai completamente estirpati. Un invito agli apparati di sicurezza a tenere ben aperti occhi e orecchie non è fuori luogo.
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L'uscita del sei sulla ruota di Kabul

Da Kabul a Pordenone: quando l'integralismo uccide.
Terrorismo, la partita doppia tra l'Islam e l'Occidente.

Rassegna stampa - Qn, Bruno Vespa, 19 settembre 2009.

Per capire le ragioni che ci trattengono a Kabul a otto o anni dall'abbattimento delle Torri Gemelle proviamo ad affiancare i corpi dei sei parà della Folgore a quello di Sanaa, la ragazza marocchina uccisa a Pordenone dal padre perché conviveva con il fidanzato italiano. La madre di Sanaa, come sappiamo, ha trovato legittimo il delitto. Non importa se l'abbia fatto per convinzione o per paura di rappresaglia e d'isolamento nella propria comunità. L'ha fatto e questo ci fa tornare alla mente il passo di un saggio di Bernard Lewis, il maggiore islamista vivente: «Dal punto di vista musulmano la conversione all'Islam è un beneficio per il convertito e un merito per chi lo converte. Secondo la legge islamica, la conversione dall'Islam a un'altra religione è apostasia: passibile di pena capitale per chi si è fatto traviare quanto per chi ha traviato».
La vicenda che si gioca tra Kabul e Pordenone è soltanto l'ultima, piccola, tragica mossa di una partita mortale tra l'Occidente e l'area più estrema dell'Islam. La strage dell'11 settembre era, per Osama Bin Laden, la tappa di un cammino di vendetta per lo sfregio che l'Islam ritiene di aver subito negli ottanta anni precedenti, cioè da quando Francia e Inghilterra negli anni Venti si sono spartite le aree d'influenza nel Medio Oriente e da quando negli anni Trenta l'Arabia Saudita ha consentito agli occidentali di partecipare allo sfruttamento delle proprie immense risorse petrolifere.
Dopo la strage alla stazione di Madrid dell'11 marzo 2004 (duecento pendolari uccisi), Al Qaeda annunciò che nei propri programmi c'era il rovesciamento degli equilibri mondiali stabiliti con la pace di Vestfalia. Qui nel 1648 si mise fine alla guerra dei Trent'anni tra Francia e Impero tedesco stabilendo l'accordo tra le potenze cattoliche e quelle protestanti e consacrando il principio della libertà religiosa. Con quali mezzi Al Qaeda intendeva sovvertire un ordine in piedi da 450 anni? La risposta è in un documento del 1993: «Con gli ideali dell'assassinio, delle bombe, della distruzione, la diplomazia della mitragliatrice e del cannone». Lewis ricordò che se per i musulmani è legittimo governare gli occidentali (come è accaduto più volte nei secoli), il contrario è proibito.
La guerra per la riconquista dell'Occidente perduto non è mai cessata. Il ricordo delle Torri Gemelle è ancora vivo, ma abbiamo dimenticato le terribili stragi del 2003 e del 2004 alla metropolitana di Londra e alla stazione di Madrid in cui furono coinvolti musulmani di seconda generazione: tra chi ha messo le bombe c'erano cittadini britannici e spagnoli. Noi finora ci siamo salvati da rappresaglie del genere, ma la formidabile pressione migratoria che esploderà nei prossimi decenni ci metterà in condizioni molto difficili.
L'Italia e l'Occidente devono dunque giocare la partita su due piani, quello internazionale e quello interno. Ma vincere sul primo è indispensabile per affrontare il secondo. Prima dell'arrivo delle forze multinazionali, l'Afghanistan era la base operativa di Al Qaeda. Quel regime terrorizzava gli abitanti con una repressione disumana. Fatti loro, dice qualcuno. Non si esporta la democrazia dove non è gradita. Giusto, se il vecchio regime afghano non avesse avuto come ragione sociale di far saltare in aria l'Occidente. Naturalmente le campagne militari possono farsi in tanti modi e in 8 anni gli americani hanno commesso molti errori.
Oggi Obama vuole chiudere presto la partita uscendo dalla vicenda con la faccia pulita. E noi con lui. Non illudiamoci che la exit strategy sia dietro l'angolo. Prima di trovare una strategia d'uscita, occorre trovare una strategia. Forse la via italiana è la migliore. Potenziare insieme con gli sforzi militari l'azione umanitaria che tanta riconoscenza ci sta procurando presso la gente di Herat, l'area ovest dell'Afghanistan grande quanto l'Italia settentrionale. Ma guai a considerare quella una guerra inutile. Guai, come fanno certi avvoltoi, a festeggiare l'uscita del sei sulla ruota di Kabul nella speranza di una nostra Caporetto afghana. Lì non stiamo facendo gli imperialisti d'attacco. Lì stiamo difendendo il futuro dei nostri figli.
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Provinciali guerrafondai

«A casa duemila soldati ma non dall`Afghanistan»
Mediazione pro Lega. E Bossi frena. Berlusconi: ora transition strategy.
Rassegna stampa - Corriere della Sera, Paola Di Caro, 19 settembre 2009.

Nessun «ritiro unilaterale» dall'Afghanistan, è una cosa «alla quale non abbiamo mai pensato». Piuttosto, serve una «transition strategy», da elaborare in sede internazionale e in special modo sul piano europeo, perché «va aumentata la capacità del governo Karzai di prendere in mano la situazione della sicurezza del Paese e contestualmente consentire alle truppe alleate di diminuire gli organici».
Senza entrare in diretta polemica con Umberto Bossi, che ieri era assente in Consiglio dei ministri e che d'altronde in serata è tornato sui suoi passi spiegando di non essere più «convinto che si debba andare via subito», così ieri Silvio Berlusconi ha spiegato ai suoi colleghi di governo la strategia dell'esecutivo per lasciare - quando ce ne saranno le condizioni - quello che è ormai diventato a tutti gli effetti un fronte di guerra. Dopo di lui l'ha ribadito il ministro della Difesa Ignazio La Russa che «parlar di exit strategy ora sarebbe un segnale di debolezza verso il terrorismo», e Franco Frattini, ministro degli Esteri, non è stato meno chiaro: «Discutere di ritiro il giorno dopo un attentato di questa gravità, significa far partecipare al dibattito anche i talebani...».
Ma tanta nettezza non significa che il governo non abbia intenzione di far tornare davvero molti soldati, forse oltre duemila, dalle missioni internazionali sparse per il mondo. E di farlo molto presto. Anzi, è forse questa la novità che è emersa nel Consiglio dei ministri di ieri, e sulla quale si lavorava da tempo. L'approfondimento nasce dalla sollecitazione della Lega, avvenuta da parte del ministro Calderoli (mentre Maroni sul tema ha taciuto), di operare almeno un «risparmio» sugli altissimi costi delle missioni «che sono di oltre un miliardo e seicento milioni di euro», ritirando i nostri contingenti da operazioni di peace-keeping che «si sono ormai esaurite, penso al Kosovo e al Libano».
Raccontano che tutti i ministri presenti abbiano «annuito», senza porre obiezioni. E in effetti del tema si era già parlato in un Consiglio a luglio, quando vennero rifinanziate le missioni e La Russa, a Tremonti che si lamentava dei costi, aveva proposto di aumentare i fondi per quelle nei due fronti, Kosovo e Libano appunto, ma di farlo «per quattro mesi, non per sei come si fa in genere, perché la nostra intenzione è di farli tornare prima i nostri soldati». E questo potrebbe in effetti avvenire, se è vero che - come confermano fonti autorevolissime - si sta lavorando per «riportare a casa mille soldati dal Kosovo, almeno cinquecento dal Libano e i cinquecento aggiuntivi che sono stati inviati in Afghanistan in occasione delle elezioni».
I tempi potrebbero essere molto vicini, visto che il rifinanziamento alle missioni copre le spese fino a fine novembre, e politicamente l'operazione è in corso anche dopo i contatti diplomatici con il governo spagnolo, che vorrebbe prendere il comando delle operazioni in Libano e, in questo caso, potrebbe aumentare il proprio contingente chiedendo magari un aiuto «ad altri Paesi europei».
Insomma, «a casa entro Natale» potrebbero tornare tanti soldati, il che metterebbe d'accordo una Lega che non molla la presa sull'Afghanistan, perché «non è giusto che un Paese che non è la quarta potenza economica del mondo - dice Calderoli - debba rappresentare il quarto contingente nel Paese», ma anche chi non vuole strappi con gli alleati della Nato, ovvero tutte le componenti del governo, in prima linea quella dell'ex An. Ieri Gianfranco Fini non ha voluto aprire alcun fronte con Bossi, perché «l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento è di una polemica su questo», e semmai «ci sarà modo più avanti di ragionare nella coalizione di come certe questioni vengono poste». Ma un suo fedelissimo come Italo Bocchino ci va giù duro: «Parlare di ritiro delle truppe ora è un favore agli assassini dei nostri soldati, è un'umiliazione dell'Italia di fronte alla comunità internazionale ed è un assist involontario al terrorismo internazionale».
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L'ambiguità offende il Paese e i suoi morti

Il costo dell'ambiguità.
Rassegna stampa - Corriere della Sera, Sergio Romano, 19 settembre 2009.

La caccia ai responsabili, in una vicenda come quella di Kabul, è un esercizio che non rende omaggio ai morti e diventa spesso occasione di interessati bisticci politici. Non è inutile, invece, chiedersi se la presenza italiana in Afghanistan risponda a una ragionevole politica nazionale. È giusto inviare «truppe di pace» in un Paese dove si combatte? È giusto esporre i propri soldati alle insidie del nemico, ma evitare al tempo stesso che si comportino, in tutto e per tutto, come forze combattenti? L'invio di truppe in un Paese straniero per creare o mantenere condizioni di pace appartiene alla logica dell'Onu e ai principi della comunità internazionale. È stata questa la ragione per cui abbiamo inviato militari in Congo, Libano, Somalia, Bosnia e Kosovo. Atten- zione. Nessuna di queste operazioni è stata totalmente disinteressata. Siamo andati in Iraq, dopo l'occupazione americana, perché il governo Berlusconi riteneva utile, in quelle circostanze, essere al fianco degli Stati Uniti. Siamo andati in Libano perché il governo Prodi riteneva che la nostra presenza militare, dopo la guerra israeliana, avrebbe conferito maggiore credibilità alla nostra politica medio-orientale.
Siamo in Afghanistan perché gli Stati Uniti hanno chiesto alla Nato di essere aiutati a sbrogliare una matassa che la frettolosa guerra di Bush aveva reso particolarmente imbrogliata. Viviamo tempi tumultuosi in cui il prestigio internazionale di un Paese si misura dalla sua capacità di partecipare a un'operazione militare. Un contingente di truppe è stato molto spesso, in questi anni, il prezzo che il Paese doveva pagare per avere un rango internazionale corrispondente alle sue ambizioni. Ciò che ha fatto l'Italia non è sostanzialmente diverso da ciò che hanno fatto, tra gli altri, la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, la Polonia, l'Ucraina e da ultimo, con maggiori difficoltà, la Germania. Ma nel caso dell'Italia, come per certi aspetti in quello della Germania, esistono peculiarità che hanno condizionato la politica dei governi.
Il Paese è stato malamente sconfitto durante la Seconda guerra mondiale e ha sviluppato da allora una «cultura della pace» in cui si sono confuse componenti diverse: pensiero cattolico, neutralismo, odio per gli Stati Uniti e una concezione dogmatica dell'articolo della Costituzione in cui l'Italia «ripudia la guerra». I governi hanno dovuto venire a patti con questi sentimenti e hanno creduto di risolvere il problema mandando «truppe di pace» in teatri di guerra. E per di più, come se il tasso d'ambiguità non fosse già sufficientemente elevato, hanno ridotto i bilanci delle Forze Armate al limite della sopravvivenza. È questa la ragione per cui la perdita di un soldato, quando accade, appare alla società italiana molto più inattesa, incomprensibile e assurda di quanto non appaia in Paesi dove i governi hanno parlato alla loro opinione pubblica con maggiore chiarezza e hanno fornito ai loro soldati le armi di cui avevano bisogno. Forse è giunta anche per il governo italiano l'ora di dire francamente perché siamo in Afghanistan e quali siano i rischi da correre. L'ambiguità, dopo i fatti di Kabul, offende il Paese e i suoi morti.
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Obiettivo «par condicio» e legge elettorale

Sette Giorni.
Berlusconi-Fini. Un faccia a faccia dopo lo scontro.

Rassegna stampa - Corriere della Sera, Francesco Verderami, 19 settembre 2009.

Sono stati prima alleati e poi cofondatori di un partito. Ma quando Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini si vedranno, sarà un incontro tra poteri che perseguono ormai obiettivi diversi, consapevoli però di dover trovare un'intesa, quantomeno un compromesso. Sarà elettricità pura. Sarà vietato il cortocircuito.
Da un paio di giorni il premier e il presidente della Camera avevano capito che non era più il tempo di farsi la faccia feroce, che era giunta l'ora di vedersi. L'altro ieri Fini ha dato un segnale, dalle colonne del Messaggero si è detto pronto all'incontro, e a tarda sera il Cavaliere l'ha chiamato per concordare l'appuntamento.
Fuori i secondi, sarà un faccia a faccia senza mediatori. L'intesa dovranno trovarla da soli, chiedendo e offrendo garanzie che solo loro possono assicurarsi: sulla struttura del partito, sull'azione di governo, sul ruolo delle istituzioni e su alcune riforme. Nessuno potrà gridare scandalizzato al baratto, è la politica con le sue regole e i suoi rapporti di forza. Se è vero che Berlusconi ha le chiavi d'accesso su tutte le questioni poste da Fini la scorsa settimana, è altrettanto vero che solo «Gianfranco» può aprire a «Silvio» la strada per superare delle difficoltà finora insormontabili per il presidente del Consiglio. Nulla di segreto, è già tutto pubblico. I due ex alleati, che oggi sono due poteri, non hanno mai smesso infatti di lanciarsi dei messaggi.
L'ha fatto Fini a Gubbio, quando dopo aver chiesto una sorta di rifondazione del Pdl, in un inciso ha offerto a Berlusconi una delle contropartite: «...E per quanto riguarda la riforma dei regolamenti parlamentari, sono pronto a metterla all'ordine del giorno dell'attività della Camera...». L'ha fatto Berlusconi a Porta a Porta, quando - dopo aver detto che tra lui e Fini ci sono «due visioni diverse» - ha dato la propria disponibilità a istituzionalizzare gli incontri con un «caminetto».
Chiaro, no? Talmente chiaro che il presidente della Camera non se l'è presa per l'epiteto che il premier gli ha rivolto: «Gianfranco è un professionista della politica». «Silvio l'ha detto per difendersi».
I due poteri hanno bisogno l'uno dell'altro in questa fase. L'ex capo della destra si era sentito tagliare «l'erba sotto i piedi» nel Pdl, perciò chiede la consultazione permanente tra «cofondatori», la codificazione delle riunioni di partito e dei vertici di maggioranza, «che garantirebbero peraltro a Berlusconi di proporsi come il baricentro dell'alleanza con Bossi». Traduzione: c'è da riequilibrare l'assetto interno del Pdl e da ridimensionare il ruolo della Lega, «a cui finora è stato concesso più di quanto il suo peso politico le consentirebbe». Per esempio, offrire il candidato governatore al Carroccio in Veneto, vorrebbe dire «sopravvalutare la forza dell'alleato». Così com'è impensabile non decidere «insieme» il candidato governatore nel Lazio.
Berlusconi potrebbe convenire, anche perché il tema delle Regionali è per lui cruciale. Il Cavaliere deve vincere nel 2010 per evitare che le fibrillazioni mediatiche a cui è sistematicamente sottoposto diventino vere e proprie «scosse» politiche nel governo. E per vincere, oltre alla Lombardia e al Veneto, dovrà conquistare i più grandi bacini elettorali del Centro-Sud: Lazio, Campania e Puglia. Se così fosse, non ce ne sarebbe più per nessuno, almeno fino al 2013.
L'impresa non è semplice. Intanto perché la legge elettorale, il Tatarellum, rischia di far disperdere il voto nei rivoli delle liste locali. Eppoi perché mettere la propria faccia nella campagna elettorale di tante regioni, è più complicato di quando in Sardegna Berlusconi si scelse il candidato e lo portò al successo.
E allora il premier getterà sul tavolo della trattativa la riforma del sistema di voto, con l'introduzione dello sbarramento al 4% e, soprattutto «almeno la modifica» della par condicio, una legge «illiberale», che - fosse per lui - andrebbe abolita. Una settimana fa ha sollevato nuovamente la questione con i dirigenti del Pdl. Tutti conoscevano a memoria il ragionamento di Berlusconi: «Non è possibile che un partitino dell'1 per cento possa avere in tv lo stesso spazio della prima forza politica in Italia». In molti gli hanno fatto notare che «non sarà facile» cambiare le norme in pochi mesi. Nessuno immaginava quale sarebbe stata la controreplica del premier: «E se lo facessimo per decreto?».
Il tema della modifica della par condicio è stato messo in agenda da Berlusconi, che da giorni tiene nella propria cartellina la dichiarazione con cui il leader del Pd, Franceschini, ha rifiutato l'invito di Vespa al Porta a Porta delle polemiche: «La mia presenza sarebbe da intendere come una sorta di par condicio, per coprire l'incredibile scelta della Rai di stravolgere il palinsesto. Ma io non mi renderò complice di questa operazione». Per il Cavaliere è come se il capo dell`opposizione avesse sconfessato la legge, sdoganando di fatto la sua operazione. Se però la pratica non è stata ancora istruita, è perché c'è prima l'incontro con Fini, «e Berlusconi - sosteneva giorni fa il presidente della Camera - deve comprendere che è anche nel suo interesse se si pone termine a una politica barricadera. Deve capire che il dialogo può venirgli utile, che può essere funzionale anche all'attività del governo in Parlamento». Un ragionamento che sembra valere per la riforma dei regolamenti, per la modifica del sistema di voto e magari anche per una nuova par condicio.
Fuori i secondi: sarà un incontro tra poteri. Sarà domani o lunedì?
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«Una vittoria, non una sconfitta»

Bioetica e Politica.
«II Tar non ha bocciato. È valida la nostra linea».
Roccella: eppure la gran parte dei media ha frainteso tutto. Se necessario sì a una legge sul modello del ddl «salva Eluana».
Rassegna stampa - Avvenire, Pier Luigi Fornari, 19 settembre 2009.

All'indomani della divulgazione della sentenza del Tar del Lazio, «clamorosamente e totalmente fraintesa» da gran parte della stampa, non cambia niente per l'iter del fine vita alla Camera. «È stata una vittoria della linea seguita dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi spiega il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella -, non una sconfitta come erroneamente sostenuto da gran parte dei media. Infatti il pronunciamento del Tribunale amministrativo ha respinto il ricorso del Movimento Difesa del Cittadino contro le disposizioni date dal ministro alle strutture pubbliche e private per salvare la vita di Eluana Englaro, assicurando a tutti i malati idratazione ed alimentazione. Sicché non ci sarà nessun ricorso da parte del ministero: il Tar ci ha dato ragione».
E allora l`iter del fine vita alla Camera?
C'è una ragione in più a favore di un proseguimento senza intoppi del dibattito, sul solco delineato dal ddl Calabrò approvato al Senato. Del resto mi sembra che su questo ci sia una volontà ampiamente condivisa dei deputati. Altrimenti...
Altrimenti?
Se il dibattito dovesse dilungarsi, o peggio incagliarsi, penso che si debba mettere in atto l'ipotesi avanzata da Sacconi: approvare subito un legge che ricalchi il ddl "salva Eluana", garantendo appunto a tutti i malati idratazione e alimentazione.
Ma dalla sentenza del Tar non emerge anche qualcosa di preoccupante?
Già. Torna a manifestarsi il protagonismo politico di alcuni magistrati. È anomalo che in una sentenza che dichiara che quel Tribunale non ha competenza sulla questione, l'estensore aggiunga le proprie opinioni in merito ad alimentazione ed idratazione, a profili di costituzionalità e quant'altro. Opinioni rispettabilissime, ma del tutto ininfluenti sul piano giuridico. Questo finisce per mascherare la sostanza del pronunciamento: il ricorso del Mdc contro l'atto di indirizzo di Sacconi è stato respinto. L'atto risulta del tutto legittimo ed efficace.
Eppure secondo qualche politico ne sarebbe stata dichiarata l' incostituzionalità...
Vogliamo scherzare. Non spetta al Tar pronunciarsi in merito. Quello che poteva decidere, l'ha deciso: sul piano amministrativo non si può ricorrere contro gli indirizzi di Sacconi. E un malato o un suo familiare che ritiene leso il suo diritto soggettivo, che semmai può ricorrere presso un giudice ordinario. Ma attenzione: la sentenza sarebbe tutta da scrivere...
In che senso?
Le affermazioni del Tar sono del tutto ininfluenti. Invece nel loro protagonismo politico, alcuni giudici pur dichiarandosi non competenti, vogliono comunque dire la loro. È paradossale che poi giornalisti e politici diano un peso diverso a tali considerazioni rispetto a quelle di un qualsiasi altro cittadino.
Perché si ricorre a questo?
Pur rimandando la questione ad altri giudici, si vuole "dare la linea" interpretativa. È un passa parola da un giudice ad un altro. Continua la tendenza per cui sui temi etici tutte le decisioni devono passare attraverso la magistratura, come se il Parlamento non esistesse. Si ignora dunque la volontà popolare, e si opta per la via giurisprundenziale...
A chi spetta invece pronunciarsi?
Alla volontà popolare espressa dai suoi rappresentanti eletti. È molto difficile trattare questi argomenti sulla base di maggioranze parlamentari, ma perlomeno così ci può essere una verifica da parte degli elettori. Mentre invece un percorso solo giurisprudenziale comporta il rischio grave di autoritarismo. Infatti non può mai avere una verifica da parte della volontà dalla popolare.
C'è da chiedersi anche perché gran parte dei media hanno frainteso la sentenza.
Molti di essi su questi temi hanno un atteggiamento parziale: si legge nella sentenza quello che si vuole leggere. Con il rischio di sbagliarsi di grosso, dando credito solo ai comunicati di una parte. Le sentenze si possono discutere, ma prima di tutto vanno lette. È indicativo che quasi l'unanimità dei media ha raccolto di questo pronunciamento del Tar del Lazio solo considerazioni giuridicamente irrilevanti e favorevoli ad una linea ben precisa.
Un altro aspetto è che l`estensore della sentenza è tornato a parlare di "stato vegetativo permanente".
Un'espressione che la scienza ha abbandonato da vent'anni. Il ministero da tempo sta lavorando anche sullo stesso concetto di "stato vegetativo": gli studi più recenti dimostrano quanto sia difficile una definizione. Le tesi di un'assenza di coscienza in certi stati sono via via contraddette da indagini scientificamente più sofisticate.
Il testo della sentenza: «... Alla luce delle precisazioni svolte non resta al Collegio che dichiarare il proprio difetto di giurisdizione. dichiara inammissibile per difetto di giurisdizione il ricorso proposto dal Movimento difesa del cittadino, meglio specificato in epigrafe.»
Mario Di Giuseppe, presidente
Linda Sandulli, consigliere estensore
Lydia Ada Orsola Spiezia, consigliere.
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Parco giochi. Appena nato già contestato

Nuovo parco giochi. Rifondazione polemica.

Dopo l'inaugurazione avvenuta ieri del nuovo parco giochi di Via Caravaggio, ecco nella bacheca in Piazza Matteotti la risposta polemica di Rifondazione che nello scorso mandato amministrativo faceva parte della maggioranza consiliare ed aveva un assessore in giunta.




"Questo è il progetto licenziato dalla commissione Ambiente e dalla giunta precedente. Non vi sembra che manchi qualcosa?", scrive Rifondazione nel cartello riproducendo il progetto approvato. Ed elenca quanto manca: "Mancano all'appello 34 alberi di specie autoctona, 12 arbusti (rosa canina, sanguinello, ecc.), il percorso vita, la pavimentazione e l'irrigazione".



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Un nuovo parco giochi per i bambini di Brembio

Inaugurato il parco giochi di Via Caravaggio.
FotoPost - Fotografie di Angelo Bergomi.

È stato inaugurato ieri il nuovo parco giochi di Via Caravaggio. Nelle foto alcuni momenti della cerimonia. La struttura, che doveva essere finanziata con un contributo della Provincia, promesso dalla ex giunta Felissari e negato dalla nuova giunta Foroni, è stata realizzata interamente a spese del Comune utilizzando l'avanzo di bilancio 2008.






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In edicola oggi

19 settembre 2009
Le prime pagine dei giornali.








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Un’inaccettabile sarabanda di sentenze ambigue

Fine vita, dal Tar del Lazio una sentenza ambigua.
Rassegna stampa, Avvenire, 18 settembre 2009.

«A nessuno possono essere imposte alimentazione e idratazione forzata, né cosciente né incosciente». È il parere dei giudici del Tar del Lazio, che in una sentenza destinata a far discutere, hanno respinto per difetto di giurisdizione un ricorso all'ordinanza Sacconi emanata lo scorso anno, nei giorni del caso Eluana, ma hanno ugualmente espresso il loro parere sulla questione. Dicendo tutto il contrario rispetto alla legge già approvata alla Camera.

Secondo noi.
Fine vita: il Parlamento sia sovrano.
Avvenire, 18 settembre 2009.

Davvero non c’è più tempo da perdere: il Parlamento non può tollerare oltre di lasciarsi esautorare da ristrette cerchie di magistrati che manipolano a piacimento princìpi giuridici cardine su una materia indisponibile come la vita umana. Assistiamo a un’inaccettabile sarabanda di sentenze ambigue, nelle quali viene esaltata la libertà individuale rendendola a tal punto abnorme da giustificare capziosamente un raggelante "diritto di morire" come e quando si preferisce. Alcuni giudici amministrativi ora arrivano al punto di respingere «per difetto di giurisdizione» il ricorso contro l’atto di indirizzo ministeriale "per Eluana" snocciolando, intanto, ben tredici cartelle di discutibile esercizio retorico e ideologico. L’umanità più fragile è sotto il tiro di questi colpi di mano. Che hanno l’unico merito di chiarire una volta per tutte come il varo di una legge seria sul fine vita non possa più attendere.
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Paladini della cultura locale non ci s'improvvisa

Zaia bacchettato dai Veneti.
Il ministro Zaia dà del "dialetto" alla mia Lingua.


Ricevo dall'amico Gianfranco Cavallin, animatore del gruppo "Amici della Cultura Veneta" questa lettera aperta al ministro Zaia, leghista.

Caro Zaia
cuando el Mattino de Padova te gaveva bocià, te gavevo difezo e gavevo dimostrà che giera el Gazzetìn a sbaliarse, ma se te afermi che el Veneto no xe £èngua, sta volta te sì ti a sbaliarte, cuando po' te afermi che el Veneto no xe £èngua parché «non ha i canoni tradizionali, ad esempio non ha una grammatica» bizogna proprio che te rimanda a setembre ai ezami de riparasiòn. Su sto punto, osia se esiste la £engua veneta, a gò scrito un libro. Te alego na bibliografia parché te vedi che te te sbagli. Ti te sì un ministro amà dai Veneti perché te sì definio "il Ministro che parla come noi" ma te invito anca a stare atento a darme del "dialetto" perché mi me sento ofezo e, come mi, tanti altri Veneti.

Traduzione: Caro Zaia, quando il Mattino di Padova ti aveva bocciato, ti avevo difeso e avevo dimostrato che era il Gazzettino a sbagliarsi, ma se affermi che il Veneto non è lingua, questa volta sei tu a sbagliarti, quando poi affermi che il veneto non è lingua perché «non ha i canoni tradizionali, ad esempio non ha una grammatica» bisogna proprio rimandarti a settembre agli esami di riparazione. Su questo punto, ossia se esiste la lingua veneta, ho scritto un libro. Ti allego una bibliografia perché tu veda che ti stai sbagliando. Sei sì un ministro amato dai Veneti perché sei definito "il Ministro che parla come noi" ma ti invito anche a stare attento a darmi del "dialetto" perché mi sento offeso e, come me, tanti altri Veneti.
Per chi ha l'accesso a Facebook, nel gruppo "Amici della Cultura Veneta, nella discussione "Lingua veneta a scuola" trovate la bibliografia delle grammatiche venete.
Per fare un parallelo, prima che anche da noi qualcuno faccia affermazioni simili, ricordo di andarsi a guardare quantomeno le opere del casalino Aldo Milanesi e del ludesan Alessandro Caretta, disponibili nelle biblioteche del Sistema.
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