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venerdì 2 ottobre 2009

La saggezza d'un vecchio proverbio istriano

Economist? Cortei? "Xe meio riderse che pisarse indoso".
Cari giornalisti che sfilate sabato, ora basta raccontare un paese che non c'è.

Rassegna stampa - Il Foglio - Toni Capuozzo, 2 ottobre 2009.

Sono uno che sorride alle liste di adesioni, figurarsi se mi iscrivo alle liste di non adesioni. Però vorrei dire la mia sulla manifestazione di sabato per la libertà di stampa, nata da un appello di Franco Cordero, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky promossa, dal sindacato dei giornalisti, dopo la citazione in giudizio di Repubblica da parte dei presidente del Consiglio e in un certo senso sponsorizzata anche dall'editoriale dell'Economist di oggi (che sostiene come sia dai tempi di Mussolini che non si aveva un governo italiano che interferisse con i media in maniera così lampante e allarmante e che "i giornalisti, e gli altri italiani, hanno ogni motivo per protestare"). Ho una certa età - eufemismo che il mio amico Mauro Corona tradurrebbe in età incerta - e ricordo cos'era l'informazione quando ero giovane, diciamo negli anni Sessanta e Settanta. I giornali di partito erano la rigorosa espressione dei comitati centrali, un giornale nazionale era la voce della borghesia conservatrice, un altro la voce della Fiat, e i giornali di provincia erano, senza eccezione, gli organi del potere locale, della Confindustria locale, della Curia locale. La televisione pubblica era equamente suddivisa per appartenenze politiche. La fine della Prima Repubblica, la nascita di nuovi soggetti politici - da Forza Italia alla Lega, a una destra sdoganata - l'emancipazione della magistratura ad attore in proprio nello scontro politico, la fine del Pci - e lo sdoganamento di tanto massimalismo e no globalismo - la fine di una destra moraleggiante e montanelliana, che ha lasciato al suo posto il giustizialismo, la nascita di una televisione commerciale e la crescita di gruppi editoriali meno puri, se mai ve n'erano stati, il sorgere di un'informazione via Internet in cui ognuno è editore di se stesso. Ha cambiato tutto. E lo scenario che sta davanti a noi è quello di un casino che non s'era mai visto, nel quale la qualità del giornalismo è piuttosto bassa, ma la libertà è una libertà che non s'era mai vista. Si sa tutto di tutti, si scrive di tutto e di tutti. Per questo la manifestazione di domani è, più che una farsa, una stralunata presa in giro di noi stessi, oppure qualcosa di peggio. Di peggio perché è una sfilata del male peggiore del giornalismo italiano, e una contemporanea dimenticanza del vero nemico della libertà d'informazione oggi. Il male peggiore del giornalismo italiano oggi è un conformistico adeguamento all'appartenenza politica, che in qualche caso raggiunge l'apice di un protagonismo a sé, emancipato dal ruolo di consigliere del principe, e incline piuttosto a dettare così esplicitamente la linea, da essere principe a sé stante. Vale a sìnistra, soprattutto, ma anche a destra, ovviamente.
Vale per la carta stampata e vale per la televisione. Vale per le cronache politiche, ma anche per la cronaca vera e propria, e il terremoto abruzzese è un buon esempio di come il giornalismo ormai sia a tesi: sì va per distruggere il nemico, per dimostrare la propria verità, a prescindere dalle zone d'ombra, dalla curiosità innocente, dal rovistare disincantato tra le storie. Si sa già che il giorno della consegna delle prime case sarà dedicato al centro storico dimenticato - anche dalle televisioni, sostiene l'interlocutore di Jenner Meletti, che non ha l'obbligo di seguire Terra!, ovviamente - che sarà dimenticato di nuovo il giorno dopo, quando il cronista non dovrà combattere l'effetto della consegna delle case. E la libertà di stampa, bellezza.
E la qualità? La qualità è bassa, anche perché questo giornalismo sentenzioso, tutto carte di procure e opinioni, tutto storie che maramaldeggiano per due giorni e poi spariscono, non costa niente, è giornalismo da redazioni e bar davanti al tribunale, non di inchieste, non di viaggi: la realtà è virtuale. Da ultimo vorrei dire che, avendo una qualche esperienza di ostacoli posti alla libertà di informazione, dai Balcani al medio oriente, vedo sgretolarsi anche questa espressione marmorea di "libertà di stampa", come già si è svuotata la parola "regime" e tante altre, banalizzate nell'urlarsi addosso. Allora se il giornalismo conformista e schierato e appartenente è il peggior nemico di se stesso, qual è il nemico esterno? La commercializzazione dell'informazione, la trasformazione della notizia in una merce, e l'industrializzazione della filiera informativa. Se contano solo i profitti, e con essi gli ascolti, notizie non affascinanti restano nei banconi più in penombra del supermercato. Se conta una logica solo industriale dell'informazione, è ovvio che è meglio produrre con due persone invece che con venti, ed è meglio che l'inviato resti sul posto due giorni invece che dieci, e se può, che scriva da casa. Ho vissuto per intero questa trasformazione nel mondo della televisione, ho visto scomparire tante figure professionali, e il melanconico tramonto della figura dell'inviato (ma l'abolizione della qualifica non l'aveva controfirmata, in un contratto, questa stessa Fnsi?), e assisto alla colossale presa in giro per cui si formano oggi centinaia di giornalisti - suppongo con qualche gettone tra i manifestanti più veterani dì domani - per vederne occupati poche decine, e tutti a scrivere curriculum, a firmare contratti a termine, a mendicare una piccola opportunità. E non è questo un pericolo per la libertà d'informazione, se l'operatore è fragile, debole, senza mercato? E infatti, le sento, le nuove leve, in lettere, interviste, incontri: tutte a ripetere la giaculatoria delle afflizioni del giornalismo: gli embedded, le intercettazioni telefoniche, il conflitto di interessi. Hanno capito, bisogna sopravvivere, che occorre allinearsi, che il giornalismo o appartiene a qualcun altro o non è, diventa solitario e marginale e ininfluente, altro che schiene diritte di quirinalizia retorica. E così eccoli in piazza, a raccontare un paese che non c'è e a tacere sul paese che c'è. La vittoria del luogo comune, della pigrizia mentale, del coro ubbidiente. Non ho più l'età per ispirarmi a qualche modello di giornalismo, a qualche maestro. Ma quando me lo chiedono biascico le Jene, Striscia e, più sicuro di me, il nome di Vincino. Stralunato e disincantato, sfotte tutti senza cinismo, con amara passione civile. Che sia tutta satira, non importa. Dice un vecchio proverbio istriano: "Xe meio riderse che pisarse indoso" (meglio ridersi addosso, che pisciarsi addosso).
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