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domenica 20 settembre 2009

Il patriottismo guerrafondaio odia la dissidenza

Diabolica (e ipocrita) perseveranza.
Rassegna stampa - Liberazione, Dino Greco, 20 settembre 2009.

Un coro ipocrita - che in qualche caso diventa minaccioso e violento - intima il silenzio a chi sostiene che la missione militare in Afghanistan debba finire e il contingente italiano debba essere riportato a casa. Subito. Gli strali di un risorto patriottismo guerrafondaio si abbattono senza requie persino contro chi prova a sollevare dei sommessi dubbi sull'utilità di una presenza militare palesemente destinata a scivolare in una compartecipazione diretta del nostro Paese al conflitto - giova ricordarlo - scatenato unilateralmente da Bush dopo l'attentato dell'11 settembre. Tutto l'armamentario retorico possibile e immaginabile viene in queste ore scatenato per inibire sul nascere qualsiasi osservazione critica, o semplicemente razionale, sul senso dell'occupazione dell'Afghanistan. Persino il dolore dei familiari dei militari caduti è stato evocato per accusare di tradimento chi oggi suggerisce che quelle morti sono state - come sono state - tragicamente inutili. Mallevadore (ohinoi!) il Presidente della Repubblica, uno schieramento che unisce i due principali partiti del governo e dell'opposizione ha chiuso ogni spazio di discussione. Labili voci dentro il Pd, di cui si ode appena il fruscio, lasciano intendere che si potrebbe tornare a discutere di come trasformare l'intera missione - oggi divisa fra la guerra angloamericana e l'intervento di peace-keeping a guida Nato - in una presenza diversa, capace di mettere al bando i bombardamenti che mietono sistematicamente vite umane fra la popolazione civile. Non vi è nulla di più velleitario di questo straparlare di immaginifici scenari. La situazione in Afghanistan è gravemente peggiorata. Quando un tronfio De Michelis spiega che l'accentuarsi degli attentati non è altro che la conferma del successo dell'azione militare, pronuncia un'enormità senza pari. I talebani oggi controllano quattro quinti del territoio afghano. La loro capacità di penetrazione sin nel cuore di Kabul, la facilità con cui vengono portati a termine gli attentati raccontano, indirettamente, dell'ostilità sempre più diffusa nella popolazione per un'occupazione militare che - nella logica belligerante - non può fare altro che aumentare il proprio potenziale offensivo. Gli Stati Uniti hanno appena annunciato che entro l'anno il loro contingente sarà implementato di ventunmila uomini. E agli alleati essi chiedono uno sforzo analogo. Se c'è un'evoluzione evidente nel processo in corso, questa è proprio l'intensificazione del conflitto, destinata a togliere di mezzo l'esile foglia di fico che separa l'azione militare propriamente detta dalla missione Isaf.
Non c'è che una soluzione per imporre un diverso modo di guardare alla questione afghana, di interrompere la coazione ripetitiva che avvita il conflitto su se stesso, senza via di uscita. Ed è quello di pervenire ad una conferenza internazionale di pace. Ma perché questo avvenga, perché una simile svolta si inveri, la guerra deve essere fermata.
Il contributo che il nostro Paese può dare a questo obiettivo è guardare lucidamente al piano inclinato su cui rotola il conflitto e fare un passo indietro. Riportare a casa i soldati. Costringere gli alleati a cambiare strategia. Contribuire a creare una situazione nuova, dove alle armi si sostituisca la diplomazia. Questo suggerirebbe una rediviva saggezza politica e imporrebbe la nostra bistrattata Costituzione.
Se questa resipiscenza si facesse strada, anche i nostri soldati non sarebbero morti senza ragione.
Il fatto è che da troppo tempo il movimento della pace è silente, perché sfiancato dalle sconfitte subite e perché privo di un'interlocuzione politica ricettiva. Eppure è quella la tela da ritessere. Occorre crederci, rammendando l'ordito sconnesso del popolo della pace, riunendo le tante voci dal basso, non assuefatte, non renitenti, non rifluite in una autodistruttiva passività. Riproviamoci. Siamo in diversi, in questi giorni, a rimandarci questo messaggio, attraverso la modesta ma non rassegnata voce della stampa di sinistra, quella non addomesticata, o attraverso i tanti segnali di vita che percorrono la rete telematica. Proviamo a dare un corpo, una visibilità, ad un pensiero e ad un protagonismo tramortiti da tante battute d'arresto, ma non estinti.
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