Parole non vere.
Un’ampia convergenza sul dovere di soccorso.
Rassegna stampa.
Che i migranti debbano godere di un diritto al soccorso e all’accoglienza costituisce uno dei presupposti perché una società possa dirsi pienamente civile. Si tratta di un portato della cultura cristiana della piena e paritaria dignità di ogni essere umano, una convinzione diffusa e condivisa anche da chi, oggi, non fa professione di fede. E – pensiamo – non messa in discussione, almeno in questi termini generali, neppure da chi nel governo di centro-destra propugna una linea di legalità e fermezza nei confronti degli sbarchi sulle nostre coste.
Perché allora l’animosità gratuita di alcuni rappresentanti della Lega verso prelati vaticani che, dopo la tragedia dei 73 eritrei orrendamente periti durante la traversata verso l’Europa, hanno richiamato l’elementare obbligo di soccorrere i naufraghi quando li si incontri in mare aperto?
Se si rileggono con obiettività le parole pronunciate da monsignor Antonio Maria Vegliò a poche ore dalla notizia della terribile sciagura non si può non notare per primo il rimando all’analisi del Papa sul fenomeno delle migrazioni contenuto nell’enciclica Caritas in veritate. E il successivo riconoscimento che «è legittimo il diritto degli Stati a gestire e regolare le migrazioni». Il presidente del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti e degli itineranti esprimeva il dolore per il continuo ripetersi di queste tragedie (si stimano in 15mila le vittime dei tentativi di raggiungere le coste del Vecchio Continente negli ultimi vent’anni) e non puntava il dito contro alcuno. Che il ministro Calderoli abbia reagito con grotteschi attacchi personali può forse segnalare che una frase di monsignor Vegliò, pur non riferita direttamente all’Italia, abbia colpito nel segno. «Le nostre società cosiddette civili, in realtà hanno sviluppato sentimenti di rifiuto dello straniero – aveva detto sabato scorso – originati non solo da una non conoscenza dell’altro, ma anche da un senso di egoismo per cui non si vuole condividere con lo straniero ciò che si ha. Poi si raggiungono estremi, ove la condivisione dei beni viene fatta provvedendo piuttosto al benessere degli animali domestici». Di qui i tentativi di far passare come un estremismo eterodosso, magari venato di simpatie per l’opposizione, la doverosa difesa dei più deboli e dei più poveri, difesa sovversiva soltanto per i cuori aridi. Ma la strategia di far risaltare presunte divergenze o contraddizioni nel campo culturalmente avverso, di provare a gettare discredito prendendo di mira qualche esponente cui si imputano posizioni sopra le righe o incoerenti può funzionare in ambito politico-partitico. Sembra invece controproducente come un boomerang avvelenato quando usata contro un’istituzione compatta e millenaria come la Chiesa.
Perché da Benedetto XVI al cardinale Bagnasco, dai responsabili dei dicasteri vaticani ai giovani del Meeting di Rimini (che hanno applaudito Calderoli per le argomentazioni ragionevoli che ha usato in quella sede) non ci può essere divisione o esitazione nel sostenere «il valore incomprimibile di ogni vita umana», come ha sottolineato nella sua ultima prolusione il presidente della Conferenza episcopale italiana, ribadendo che «l’immigrazione è una realtà magmatica: se non la si governa, si finisce per subirla. E la risposta non può essere solamente di ordine pubblico ». Ecco allora che un ripensamento sul reato di clandestinità, per le conseguenze negative e paradossali che pone in essere per tanti stranieri e le loro famiglie, e una maggiore attenzione al destino di chi è respinto in Libia (se abbia cioè diritto a chiedere asilo e che non sia imprigionato o maltrattato) sarebbero una prima risposta, sensata e concreta, alle sollecitazioni che vengono da molte parti e anche dalla Chiesa tutta, all’impegno umanitario della quale gli improvvisati critici dell’ultima ora – dopo aver distinto a proprio genio 'buoni' e 'cattivi' all’interno di essa – dichiarano infine di inchinarsi.
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