I poveri del Paese più ricco salvati dalla carità.
Rassegna stampa - Avvenire, Elena Molinari, 19 novembre 2009.
Per qualcuno si è trattato di una cena saltata qua e là per poter pagare la bolletta della luce. Per altri di una cronica carenza di cibo che si è tradotta in un pasto al giorno per settimane, spesso consumato a una mensa dei poveri. In tutto sono quasi cinquanta milioni gli americani che l’anno scorso hanno conosciuto l’ansia di non poter mettere due pasti al giorno a tavola. Poco meno della popolazione italiana, per dare un’idea.
I dati, resi noti dal ministero all’Agricoltura Usa dopo anni di silenzio da parte dell’Amministrazione Bush, rivelano il vero costo della recessione. Non si parla di percentuali di disoccupati, né di punti persi dal Dow Jones, ma di fame, a vari livelli, per quasi il 15% della popolazione degli Stati Uniti d’America, il Paese più ricco della Terra.
A dimostrare che i numeri sono figli della crisi economica, il governo Usa ha spiegato che è il peggiore dato dal 1995. E ad aumentare è stato soprattutto il numero dei bambini che vivono senza «sicurezza alimentare», come viene definita ufficialmente. Nel 2008 sono stati ben 17 milioni. L’anno prima erano 12 milioni. Ma questi bambini possono ancora considerarsi fortunati. A differenza dei loro coetanei in molte altre parti del mondo, Africa in testa, nati da ragazze madri (uno dei fattori principali dell’insicurezza alimentare), in famiglie in cui scarseggia l’istruzione, o in quartieri senza opportunità di lavoro, loro sono venuti al mondo negli Stati Uniti. Dove la filantropia ha da sempre un ruolo chiave nella vita dei cittadini, che per questo sono più disposti a donare denaro a un’associazione caritatevole che a pagare la stessa cifra in tasse.
È grazie a questa realtà che le strade d’America non assomigliano a un villaggio africano in preda a una carestia. Due terzi dei 49 milioni di persone che nel 2008 non sono riuscite a fare la spesa con regolarità, si sono infatti potute sfamare in centri di supporto per i meno abbienti: mense della carità, chiese, scuole, centri per la distribuzione di cibo in scatola. Strutture per lo più private – ma spesso sovvenzionate da fondi o incentivi pubblici – che anche in tempi difficili forniscono una rete di supporto per chi è in caduta libera. Ma poiché, a differenza delle tasse, le donazioni caritatevoli sono volontarie, la rete ha dei buchi che si allargano proprio nei momenti più duri, quando il numero delle persone che vi cercano rifugio aumenta. I maggiori gruppi benefici americani quest’anno hanno visto le loro entrare ridursi del 9%. E un sondaggio ha rivelato che solo il 38% dei cittadini Usa intende fare la tradizionale donazione di fine anno. Di solito è più del 50 per cento. È per questo che nei numeri diffusi dall’Amministrazione Usa occorre andare a cercare, più dei 49 milioni che hanno temuto o sfiorato la fame, le centinaia di migliaia di famiglie che l’hanno effettivamente provata, e non solo una volta. Quelle che non hanno trovato posto nemmeno alla tavole dei poveri. Non sono poche.
Solo le famiglie con bambini (le più vulnerabili) in un anno sono salite a 506mila, dalle 323mila del 2007. E i bambini in evidente stato di denutrizione sono passati dai 700mila a più di un milione. Quest’anno la situazione può solo peggiorare.
Una realtà spaventosa per l’America, che richiede un intervento immediato e non lasciato solo alla generosità dei cittadini.
Obama in campagna elettorale ha promesso di eliminare dagli Usa la piaga della fame tra i più piccoli (che colpisce soprattutto la minoranza nera e latina) entro il 2015. Come faceva notare ieri il New York Times in un editoriale, per arrivarci occorre che sia lo Stato a entrare in gioco, con un piano di programmi nutrizionali destinati ai bambini, soprattutto attraverso le scuole.
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