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sabato 21 novembre 2009

Un paese quasi come l'Italia ridotto alla fame

Stati Uniti. Sono 49 milioni gli americani che non possono mettere due pasti al giorno a tavola: il 15% della popolazione. Possono sfamarsi solo nei centri di supporto. Che però, per la crisi, vedono ridursi le donazioni.
I poveri del Paese più ricco salvati dalla carità.
Rassegna stampa - Avvenire, Elena Molinari, 19 novembre 2009.

Per qualcuno si è trat­tato di una cena sal­tata qua e là per poter pagare la bolletta della luce. Per altri di una cronica ca­renza di cibo che si è tradot­ta in un pasto al giorno per settimane, spesso consuma­to a una mensa dei poveri. In tutto sono quasi cin­quanta milioni gli america­ni che l’anno scorso hanno conosciuto l’ansia di non poter mettere due pasti al giorno a tavola. Poco meno della popolazione italiana, per dare un’idea.
I dati, resi noti dal ministero all’Agricoltura Usa dopo anni di silenzio da parte del­l’Amministrazione Bush, ri­velano il vero costo della re­cessione. Non si parla di per­centuali di disoccupati, né di punti persi dal Dow Jones, ma di fame, a vari livelli, per quasi il 15% della popola­zione degli Stati Uniti d’A­merica, il Paese più ricco della Terra.
A dimostrare che i numeri sono figli della crisi econo­mica, il governo Usa ha spie­gato che è il peggiore dato dal 1995. E ad aumentare è stato soprattutto il numero dei bambini che vivono sen­za «sicurezza alimentare», come viene definita ufficial­mente. Nel 2008 sono stati ben 17 milioni. L’anno pri­ma erano 12 milioni. Ma questi bambini possono an­cora considerarsi fortunati. A differenza dei loro coeta­nei in molte altre parti del mondo, Africa in testa, nati da ragazze madri (uno dei fattori principali dell’insicu­rezza alimentare), in fami­glie in cui scarseggia l’istru­zione, o in quartieri senza opportunità di lavoro, loro sono venuti al mondo negli Stati Uniti. Dove la filantro­pia ha da sempre un ruolo chiave nella vita dei cittadi­ni, che per questo sono più disposti a donare denaro a un’associazione caritatevo­le che a pagare la stessa cifra in tasse.
È grazie a questa realtà che le strade d’America non as­somigliano a un villaggio a­fricano in preda a una care­stia. Due terzi dei 49 milioni di persone che nel 2008 non sono riuscite a fare la spesa con regolarità, si sono infat­ti potute sfamare in centri di supporto per i meno ab­bienti: mense della carità, chiese, scuole, centri per la distribuzione di cibo in sca­tola. Strutture per lo più pri­vate – ma spesso sovvenzio­nate da fondi o incentivi pubblici – che anche in tem­pi difficili forniscono una re­te di supporto per chi è in ca­duta libera. Ma poiché, a differenza del­le tasse, le donazioni carita­tevoli sono volontarie, la re­te ha dei buchi che si allar­gano proprio nei momenti più duri, quando il numero delle persone che vi cercano rifugio aumenta. I maggiori gruppi benefici americani quest’anno hanno visto le loro entrare ridursi del 9%. E un sondaggio ha rivelato che solo il 38% dei cittadini Usa intende fare la tradizionale donazione di fine anno. Di solito è più del 50 per cento. È per questo che nei nume­ri diffusi dall’Amministra­zione Usa occorre andare a cercare, più dei 49 milioni che hanno temuto o sfiora­to la fame, le centinaia di mi­gliaia di famiglie che l’han­no effettivamente provata, e non solo una volta. Quelle che non hanno trovato posto nemmeno alla tavole dei po­veri. Non sono poche.
Solo le famiglie con bambi­ni (le più vulnerabili) in un anno sono salite a 506mila, dalle 323mila del 2007. E i bambini in evidente stato di denutrizione sono passati dai 700mila a più di un mi­lione. Quest’anno la situa­zione può solo peggiorare.
Una realtà spaventosa per l’America, che richiede un intervento immediato e non lasciato solo alla generosità dei cittadini.
Obama in campagna eletto­rale ha promesso di elimi­nare dagli Usa la piaga della fame tra i più piccoli (che colpisce soprattutto la mi­noranza nera e latina) entro il 2015. Come faceva notare ieri il New York Times in un editoriale, per arrivarci oc­corre che sia lo Stato a en­trare in gioco, con un piano di programmi nutrizionali destinati ai bambini, soprat­tutto attraverso le scuole.
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