Rassegna stampa - Avvenire, Cesare Mirabelli, 12 novembre 2009.
Una 'libertà intollerante'. Questa contraddizione, poco evidente ma reale, è l’idea che appare sullo sfondo della sentenza della Corte di Strasburgo, che ha ritenuto la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche in contrasto con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
La Corte afferma che la presenza di questo simbolo nella scuola statale violerebbe due disposizioni. Secondo la prima «lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche» (articolo 2 del primo protocollo). In base alla seconda, l’articolo 9 della Convenzione, è assicurata la libertà di religione, che garantisce il diritto di credere e di non credere, il rispetto delle convinzioni religiose o filosofiche dei genitori e dei fanciulli; ciò imporrebbe la neutralità e imparzialità dello Stato, il quale non può valutare la legittimità delle convinzioni religiose e le modalità della loro espressione. Inoltre, nel contesto dell’insegnamento scolastico, è da garantire il pluralismo, per il quale le informazioni e le conoscenze che figurano nei programmi devono essere diffuse in maniera obiettiva, critica e, appunto, pluralista.
C’è da chiedersi, se enunciati questi principi, la Corte sia rimasta fedele a se stessa e ne abbia fatto una corretta applicazione, o se invece non ne ha distorto il significato e alterato il contenuto, giungendo a conclusioni paradossali, che negano l’equilibrio di garanzie che quelle disposizioni richiedono.
Il diritto dei genitori ad assicurare ai propri figli una educazione conforme alle proprie convinzioni è affermato non solo dalla Convenzione europea, ma da tutte le carte dei diritti fondamentali. È un diritto riconosciuto tanto a chi ha una fede religiosa quanto a chi è agnostico o ateo. Da questo segue che i simboli religiosi debbano sparire dall’ambiente scolastico? Non si direbbe. Di fronte all’eguale diritto dei genitori che ne vogliono la presenza, in coerenza con il proprio indirizzo educativo, e dei genitori che ne rifiutano la presenza per eguale e contraria ragione, affermare la eliminazione del crocifisso significa attribuire la prevalenza al diritto di questi ultimi rispetto al diritto dei primi, privilegiando una scelta negativa nei confronti della religione.
L’ispirazione di fondo di questa scelta è la esclusione di quella dimensione religiosa dal contesto educativo scolastico. Ma in tal modo si offende la libertà di chi, per convinzione religiosa o anche solo per condivisione culturale, ritiene che il cristianesimo ha un valore educativo, e segna la storia e la cultura della nostra comunità nazionale, e che quindi è positiva la presenza di un simbolo che rappresenti questa realtà che, in un contesto di libertà, non impone una fede religiosa e non può essere considerata offensiva per alcuno.
Difatti sulle pareti scolastiche il crocifisso è una presenza silenziosa, testimonia un avvenimento che ha mutato il corso della storia e che ha profondamente plasmato l’identità e la cultura italiana ed europea. Su questo è difficile per chiunque non convenire, quali che siano le personali convinzioni religiose, ateistiche o agnostiche. La sua presenza nelle aule scolastiche non richiede una adesione di fede, non sollecita il compimento di atti di devozione o di culto, che muovono nella sfera della libertà religiosa individuale, da preservare e garantire. È un simbolo che parla della dimensione divina solo in dialogo con chi gli riconosce la rappresentazione di questo valore.
È proprio vero che la presenza di questo simbolo può turbare la coscienza del non credente, fatta valere da chi ha ricorso alla Corte di Strasburgo, o invece la pretesa di rimuoverlo non manifesta intolleranza verso la dimensione religiosa che il crocifisso esprime? La rimozione imposta apre al dialogo e alla reciproca comprensione, o invece li esclude? Il pluralismo rifiuta segni che manifestino una identità religiosa, cui pure non si aderisce, o non presuppone la coesistenza di diversità non occultate, che non si ignorano, ma si riconoscono e cooperano alla ricerca di valori comuni?
L’idea di neutralità dello Stato anziché essere espressione del pluralismo che caratterizza una società democratica, come pure la sentenza vorrebbe, rischia di tradursi nella sua negazione, se impone l’assenza di simboli religiosi nei luoghi pubblici nei quali si manifesta la presenza dello Stato, se questi simboli non sono più la rappresentazione di una religione di Stato e dell’antica unione tra trono e altare, in un contesto di legislazione restrittiva della libertà religiosa, ma sono espressione della comunità, in un diverso contesto che assicura pienamente la libera espressione di ogni religione ed il pluralismo confessionale.
La sentenza della Corte di Strasburgo, anche per il dibattito e le critiche che ha suscitato, e che ne dimostrano il distacco dal sentire comune, è tuttavia una occasione per approfondire le riflessioni sulla libertà religiosa e ricostruire e proporre una idea di laicità non antagonista della dimensione religiosa. Ad evitare che, con l’affermazione di una 'libertà intollerante', la stessa libertà finisca con il negare se stessa.
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