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venerdì 13 novembre 2009

Dare respiro ad un pianeta in asfissia

Quando il cibo finisce nel cassonetto dell’immondizia. Libro-denuncia. Tristram Stuart alza il velo su un fenomeno spaventoso che affligge «le società del benessere»: quello dello spreco.
Rassegna stampa - Avvenire, Stefano Gulmanelli, 13 novembre 2009.

I numeri sono impressionanti: Mark & Spencer, la catena inglese di supermercati, getta ogni anno nella spazzatura 20mila tonnellate di cibo non smer­ciato; la conna­zionale Sain­sbury va oltre: le tonnellate an­nue di derrate a­limentari che manda in disca­rica sono 60mi­la. Di là dall’A­tlantico, negli U­sa, il trend è lo stesso, se non peggio: il cibo che entra nei supermercati e nei ristoranti ma che nessuno mangerà è il 30% del totale. Di qua dalla Manica, l’Europa continentale (Italia compre­sa) nel suo insieme butta via ogni an­no 200 milioni di tonnellate di alimenti. E questi non sono che alcuni dei dati sullo spreco alimentare riportati in ab­bondanza da Tristram Stuart nel libro Sprechi. Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potrem­mo utilizzare (Bruno Monda­dori). Nella sua opera, redatta nel corso di 10 anni passati a raccogliere informazioni e viaggiare intorno al mondo per stu­diare il rapporto fra le varie popola­zioni e il cibo, Stuart mette a fuoco u­na realtà – quella del pessimo uso che facciamo del cibo – che nemmeno i più pessimisti ipotizzavano così osce­na nei suoi risvolti etici.
L’indagine a tutto campo di Stuart parte dai cassonetti dell’immondizia dei super­mercati della Gran Bretagna. È da essi che il 32enne Tristram, u­na laurea a pieni voti a Cambridge, estrae or­mai da anni quantità spropositate di cibo perfettamente commestibile. «Non scavo fra i rifiuti dei su­permercati solo per rimediare un pasto più che dignitoso – scherza Stuart – ma per mo­strare a quanta più gente possi­bile che nell’immondizia quel­la roba non dovrebbe andarci per nessun motivo». E invece ci finisce, ogni giorno e a tonnel­late; in parte è «stock in eccesso», in parte sono confezioni danneggiate o, semplicemente, in imminente sca­denza. «Un surplus enorme», sottoli­nea Stuart, il cui approccio alla que­stione non è mai ideologico né pre­giudizialmente ostile a questo o quel soggetto economico. Al contrario, la trattazione rimane il più possibile a­nalitica; tanto che nel caso dei super­mercati il libro descrive in dettaglio i meccanismi commerciali che perver­samente rendono possibile e anzi de­terminano tale situazione. Due su tut­ti: la necessità di offrire scaffali sempre pieni a clienti ormai assuefatti a nego­zi-cornucopia e gli alti margini dei su­permercati che rendono più conve­niente sovrastoccarsi e poi buttare piuttosto che rischiare di “perdere” vendite per mancanza di merce. Il tut­to poi, sottolinea Stuart, finisce per a­vere un effetto di spiazzamento – e di conseguente spinta all’insù dei prezzi – che colpisce quanti sul mercato dei prodotti alimentari ci entrano non per bulimia da benessere ma per garantir­si la mera sussistenza. Ma la descrizione dell’incredibile spre­co occupa solo una parte del libro di Stuart. Nella seconda metà l’autore passa ad argomentare le conseguenze 'ambientali' di un uso così indegno del cibo.
Sono capitoli particolarmente indige­sti, soprattutto per l’occidentale me­dio, poiché – se è vero che lo spreco è presente anche in altre culture e parti del mondo – è l’Occidente a risultare il protagonista quasi assoluto dell’i­gnobile scenario descritto. E questo, alla luce del legame fra spreco ali­mentare e conseguente danno ecolo­gico finisce per fare apparire prete­stuosi i richiami dell’Occi­dente ai Paesi in via di svi­luppo circa la necessità di una loro presa di responsa­bilità ambientale.
«Stiamo trasfor­mando il pianeta in un’enorme fabbrica alimentare – dice Stuart – che produce cibo che il mondo sviluppato utilizza come una commodity qualsiasi, senza ri­guardo per le implicazioni so­ciali e ambientali della sua pro­duzione ». I dati al riguardo so­no chiari: un terzo della super­ficie terrestre è ormai destina­ta ad agricoltura e allevamen­to. Dove ora ci sono campi e pa­scoli, prima c’erano distese di piante e alberi: foreste e giungle che permetterebbero (o avrebbero per­messo) il contenimento delle emissio­ni. «Un terzo dei gas serra europei vie­ne dalla produzione agricola se solo dimezzassimo lo spreco alimentare, le emissioni potrebbero abbattersi del 10%». Una soglia di riduzione spesso considerata “eroica” da governanti ed economisti se perseguita con mecca­nismi complessi quali la carbon tax o “il sistema di scambio di quote di e­missione”. «In teoria – continua Stuart – se pian­tassimo alberi sui terreni oggi sfrut­tati per produrre il cibo che va but­tato potremmo veder ridotte le e­missioni del 50%».
In pratica, è la conclusione di questo giovane rovistatore di cassonetti del­l’immondizia, se solo sapessimo con­cepire un benessere che non necessa­riamente si identifichi con lo spreco potremmo allentare non solo la pres­sione sul mercato delle derrate ali­mentari a beneficio dei più poveri ma persino dare un po’ di respiro a un pia­neta ormai in asfissia.
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