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martedì 8 settembre 2009

Feltri ritorni nei ranghi

Qui è Feltri a uscire fuori dai ranghi.
Rassegna stampa - Il Secolo d'Italia di oggi, Flavia Perina.

Lo diciamo subito: abbiamo una certa difficoltà a rispondere all'articolo con cui Vittorio Feltri ieri ha "picconato" Gianfranco Fini. Non per le argomentazioni che presenta, ma per la frase conclusiva «consiglio non richiesto: rientri nei ranghi» che ci pare una gentile metafora dell'antico «tornate nelle fogne» e scuote persino il nostro rinomato aplomb. Ma la civiltà del confronto richiede dialogo comunque, e dialogo sul merito. Allora, ecco qui.
Feltri contesta a Fini di «fare retromarcia su immigrazione, biotestamento e persino sui gay». È la metafora del "compagno Fini" che - peraltro - è stata costruita proprio dal Giornale nel febbraio scorso, quando Stenio Solinas indicò il presidente della Camera come «leader ideale» del Pd riferendosi ai moniti sui diritti degli immigrati, sulla laicità dello Stato e contro il cesarismo.
Si era allora in tutt'altra fase politica, all'antivigilia del congresso di fondazione del Pdl. L'articolo su Fini «leader del Pd» fu derubricato a una provocazione-scherzo, anche perché aveva la leggerezza del corsivo ed era firmato da una persona che proviene dal nostro mondo e che almeno all'epoca della sua giovinezza sullo "sfondamento a sinistra" non avrebbe avuto nulla da obiettare.
Adesso, con la firma del direttore Vittorio Feltri e quel titolo a tutta pagina sbattuto nelle rassegne stampa («Dove vuole arrivare il compagno Fini»), la polemica assume un altro sapore.
Anche perchè chi segue Feltri sa bene che la libertà intellettuale del presidente della Camera è stata sempre apprezzata dal giornalista milanese, persino nelle incandescenti giornate del dicembre 2007, quando Feltri invitava Forza Italia ad ascoltare Fini perché - scriveva allora su Libero - «non ha tutti i torti» e inoltre «è considerato l`uomo politico più stimabile», non lo si può «scaricare con una scrollatina di spalle». Continuava Feltri, entrando nel merito di temi politici: «Anche io come Fini non sono mai stato fascista pur apprezzando le opere di Mussolini (quelle buone). Come lui sono laico e ai referendum di alcuni anni fa (fecondazione assistita) votai una sfilza di sì. Come lui penso che studiare il Corano non conduca all`islam e semmai allontani da esso. Come lui penso che la destra debba evolversi e abbandonare posizioni bigotte, antiquate». Non basta? Andiamo avanti. «La spiritualità, i valori della religione, Dio, la speranza di andare in paradiso e tutte quelle belle cose sono affari strettamente personali, non prerogative di un partito». E ancora: «Fini non è credente? Non lo sono neanche io. E allora? Ci condanni al rogo? Curioso. Non mi fido di chi impone la sua fede e i suoi pregiudizi per statuto. Preferisco la libertà e me la prendo». A corredo del pezzo, un titolo significativo: «Meglio Fini di chi vuole imporre tutto». Questa lunga citazione ci dice che il direttore del Giornale fino a poco tempo fa non solo si sentiva solidale con Fini, ma condivideva la sua visione di un centrodestra di tipo europeo, libero dal ringhio minoritario in materia di etica, immigrazione, diritti, e dove comunque ci fosse libertà di parola per tutti. Ma persino il "nuovo" Feltri, quello che ieri ha messo nero su bianco l`invito a rientrare nei ranghi, deve ammettere che sul tema più caldo del momento (il testamento biologico) «molti sono daccordo con Fini, perfino nel Pdl, me compreso».
E allora? Qual è il problema? Tecnicamente l'invettiva del Giornale è appesa al fatto che Fini a Genova avrebbe criticato il quotidiano per l'affaire Boffo, ma è un appiglio risibile: la frase testuale del presidente della Camera («Fermiamoci, fermatevi, perché se si continua con quello che si è visto negli ultimi due mesi, si imbocca una china pericolosa») non lasciava dubbi sull'intenzione di dare un segnale a tutto campo, certo non limitato alla vicenda di Avvenire. Insomma, ogni dettaglio fa pensare che l'attacco a freddo vada ancorato a un contesto più ampio, dove le ragioni "di merito" sono esili e contano di più altre suggestioni. E quindi che al di là delle risposte giornalistiche - quelle che abbiamo visto - la situazione richieda una risposta politica anche perché Gianfranco Fini non è solo il presidente della Camera, non è solo il cofondatore del Popolo della libertà, ma si è qualificato come punto di riferimento di un'idea di destra maggioritaria, che per la prima volta (come abbiamo cercato di spiegare nel nostro ultimo domenicale) trova una espressione politica forte e trasversalmente apprezzata.
È, come ha scritto Luciano Lanna, «una destra non ideologica, sobria e meritocratica, colta e risorgimentale, elegante e rigorosa, laica e non bacchettona, libertaria e attenta ai diritti e non retorica, diffidente della società di massa e dell'antipolitica». L'esatto contrario - e qui la citazione è di Alessandro Campi - della destra «populista, rabbiosa e urlante che si è praticata in questo Paese», della destra di stampo qualunquista o, peggio, "lepenista" in cui tanti hanno immaginato a lungo di sterilizzare tutto il nostro mondo per renderlo folkloristico e irrilevante, pago di vedersi elargire le briciole del potere gestito da altri.
Se davvero fosse questo il senso dello sgradevole invito di Feltri a «tornare nei ranghi», crediamo che ci sia un problema nel Popolo della libertà. Non lo abbiamo scelto per recitare un ruolo che avremmo tranquillamente potuto esercitare con i nostri simboli storici, chiudendoci nella enclave del dieci-dodici per cento e lucrandone i piccoli-grandi vantaggi personali tipici delle minoranze: seggi, poltrone, finanziamenti da gestire in proprio, padroni in casa nostra. Altre ambizioni avevamo e abbiamo. Le abbiamo dichiarate, arricchendo il dibattito congressuale e post-congressuale del Pdl. Su di esse abbiamo acquisito consensi non marginali, non ultime le aperture di importanti esponenti della ex-Forza Italia (pensiamo alla bella intervista di Franco Frattini al Corriere sul tema della laicità). Tutto ciò è un valore aggiunto per il Pdl, il polmone di un confronto non ideologico sulla realtà che rappresenta a nostro avviso - il vero nocciolo della rivoluzione berlusconiana, quella delle origini, a cui siamo senz'altro più fedeli noi che i teorici dell'ordalia quotidiana e del giochino "a chi è più di destra". Anche perché quel giochino sta quotidianamente snaturando il profilo del Popolo della libertà e tradendo la sua stessa denominazione con l'immagine di un partito becero, nevrastenico, con la bava alla bocca, che abbaia contro gli avversari e adesso anche contro gli alleati con un furore non giustificato dai fatti.
Non sappiamo se abbia ragione Campi, se la partita che così confusamente si è aperta sia davvero quella del dopo-Berlusconi. Ma sicuramente crediamo che, qualunque sia, non tocchi ai giornali e ai loro direttori gestirla a suon di invettive: c'è un partito, c'è un leader, ci sono coordinatori, organi politici, assemblee di dirigenti, comitati centrali. La politica, per come la vediamo noi, si fa in quelle sedi (che non sono "ranghi").
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