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martedì 1 settembre 2009

Dilettantismo giornalistico

Il caso.
L’«informativa»: paccottiglia venduta per sentenza.

Rassegna stampa - Avvenire.it, Nello Scavo.

Il collettore di paccottiglia non è poi così bene informato. A cominciare dagli incarichi di Dino Boffo. Con vocabolario tutt’altro che poliziesco, prima ricorda «la preposizione al giornale dei vescovi italiani (Avvenire)» e poi segnala il medesimo incarico «alla televisione – riportiamo testualmente – della S. Sede (Sat 2000)». Già questo avrebbe dovuto insospettire chi poi si è dilettato nel copia-incolla degno del miglior automa. Sat 2000 non è infatti la televisione della Santa Sede, che semmai possiede il Centro Televisivo Vaticano. Inoltre l’estensore della «nota informativa» dimentica di aggiungere che il direttore di Avvenire dirige anche InBlu, l’emittente radiofonica che trasmette via satellite e in modulazione di frequenza attraverso 200 radio locali. Ma quella, essendo meno visibile, non è tirata in campo.
È solo lo strafalcione minore. La «nota informativa» non ha intestazione, né provenienza, né riferimenti a uffici giudiziari o di polizia. Le date del procedimento per il reato di molestie (telefoniche) non sono riportate. Non solo. Il Giornale ha fatto entrare nella sentenza motivazioni legate alla sfera sessuale. Ora, anche il meno scafato dei cronisti giudiziari sa che il reato contestato non ha attinenza con questi dati (che si tratti di eterosessuali, omosessuali, bisessuali non importa), informazioni sensibili che non entreranno mai a far parte di un dispositivo giudiziario, dato che (escluso per esempio il caso dei pedofili e dei violentatori) la vita affettiva non può essere un’aggravante o un’attenuante.
Non a caso ieri a metà giornata l’agenzia Ansa informava che «nel fascicolo riguardante il procedimento per molestie a carico di Dino Boffo "non c’è assolutamente alcuna nota che riguardi le sue inclinazioni sessuali": a confermarlo ai giornalisti è stato oggi (ieri, ndr) il gip di Terni Pierluigi Panariello».
Per la verità i fatti raccontati dal giornale milanese contengono altri svarioni riguardanti la procedura penale. I giornalisti, si sa, non sono docenti di diritto. Questo però non li esime dall’uso di un minimo di senso critico, specie quando le “notizie” arrivano da fonti che a tutti i costi vogliono restare anonime.
Ancora ieri sul sito del quotidiano che fu di Montanelli si apriva una finestra che aveva un titolo promettente: «Ecco la sentenza».
Ma poi cliccando sul riquadro si scopriva che quel documento era solo una copia del casellario giudiziario. E questo è un giallo nel giallo. Perché trattandosi di una pena assai lieve non avrebbe dovuto essere menzionata nel casellario pubblico, che dunque sarebbe dovuto risultare “pulito”. L’accesso all’archivio completo è invece consentito solo a figure istituzionali: polizia giudiziaria, magistratura, servizi segreti. Chiunque vi accede deve usare una password e lasciare traccia del proprio passaggio nell’archivio, dati su cui ora si sta guardando con attenzione.
La tecnica dunque è semplice. Elevare il vaneggiamento al rango di «informativa di polizia» e metterci accanto un documento ufficiale arrivato da mani abili e niente affatto disinteressate. E il gioco è fatto. L’articolo del Giornale che accusava il direttore di Avvenire cominciava con un virgolettato. Esattamente così: «Articolo 660 del Codice penale, molestia alle persone. Condanna originata da più comportamenti posti in essere dal dottor Dino Boffo dall’ottobre del 2001 al gennaio 2002, mese quest’ultimo nel quale, a seguito di intercettazioni telefoniche disposte dall’autorità giudiziaria, si è constatato il reato». Questa frase – peraltro mal riportata – esiste solo nella fantomatica «nota informativa» ma non in quella che viene erroneamente diffusa come copia di una sentenza. Ma se anche quelle righe fossero state presenti in atti ufficiali, avrebbero dovuto indurre ancor più in sospetto. Perché nessun tribunale riporterebbe solo a metà un articolo del Codice penale. Il 660 vale la pena rileggerlo da cima a fondo. Siamo nel «Libro Terzo. Delle contravvenzioni in particolare. Titolo I – Delle contravvenzioni di polizia». Eccolo: «Art.660 Molestia o disturbo alle persone». Testo: «Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516».
Quale sia il tenore medio delle condanne in base all’articolo 660 lo spiega una recente sentenza della Corte di Cassazione. È la numero 19206. Sentite a che proposito: «Le emissioni di gas, vapori o fumo idonei a imbrattare o cagionare molestie alle persone non sono solo quelli provenienti da attività produttive nei casi non consentiti dalla legge, ma anche tutte quelle esalazioni maleodoranti comunque imputabili all’attività umana», e via dicendo. Niente a che vedere con il rilievo di quanto riportato dal Giornale.
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