Nicotri: nel 2006 chiamai Boffo e lui chiarì.
Riportiamo qui di seguito parte di un testo pubblicato ieri dall’ex giornalista de L’Espresso Pino Nicotri nel sito www.giornalettismo.com. Un documento interessante al fine di una ricostruzione della verità dei fatti.
Rassegna stampa - Avvenire.it di oggi, Pino Nicotri.
Ho sempre ritenuto professionalmente doveroso, prima di sferrare una eventuale bastonata sulla testa di qualcuno, verificare le notizie con il diretto interessato, cioè con il destinatario della possibile bastonata. Così feci con Boffo. Che, raggiunto al telefono e sentito di cosa volessi parlare con lui, mi disse che era occupato e che mi avrebbe richiamato. Ovviamente pensai che si trattasse di una scusa e che non mi avrebbe richiamato, anche perché gli avevo specificato che le voci parlavano di una sua condanna, al tribunale di Terni, a sfondo pedofilo. Invece, con mia sorpresa, dopo una ventina di minuti Boffo mi richiamò come promesso.
E mi spiegò tutto per filo e per segno, rispondendo anche a domande imbarazzanti che gli ponevo non senza anche un mio imbarazzo. C’erano anche altre voci, da quelle su sberle sferrategli sul sagrato di una chiesa da una madre infuriata fino a quelle sull’impossibilità di consultare la sentenza pur essendo questa un atto pubblico. Però il nome della signora delle asserite sberle nessuno fu in grado di farmelo. E se un documento giudiziario non si riesce a leggerlo non si può certo scriverne. Ovviamente avrei apprezzato da parte di Boffo e del legale che lo difese l’invio di copia della sentenza, ma il diritto alla privacy esiste e non è un optional. Certo, la spiegazione fornitami può apparire un po’ strana, ma se l’editore - vale a dire la Conferenza episcopale italiana (Cei) - si è preso la briga di difendere Boffo, e oggi lo difende di nuovo, ancora e a spada tratta, non potevo certo essere io a saltare a conclusioni non dimostrabili. A me infatti era successo anche di peggio.
Nel ’79 sono stato arrestato con accuse pazzesche, dal sequestro e uccisione dell’onorevole Aldo Moro fino alla direzione strategica delle Brigate Rosse, Prima Linea e Autonomia, insomma l’intero terrorismo italiano come fosse uno e trino e io, ad appena 36 anni, il Grande Vecchio. Nonostante le accuse mega galattiche e manicomiali l’editore de L’Espresso, cioè all’epoca Carlo Caracciolo, mi assegnò il migliore avvocato penalista d’Italia, il compianto e inarrivabile Adolfo Gatti, e non mi depennò neppure dal tamburino della gerenza, vale a dire dalla pagina che allinea tutti i nomi dei giornalisti che lavorano in redazione o collaborano dall’esterno a un giornale. Venne fuori rapidamente che non c’entravo un fico secco con nulla di nulla e ripresi la mia vita di sempre. Perché la stessa cosa non può essere successa a Boffo, visto che anche lui - a quanto mi disse - era stato difeso dal suo editore?
Da dove viene la «velina», nel senso di imbeccata e non di Velina con chiappe al vento, a Feltri? Repubblica dice la sua, con D’Avanzo. Non farò mai il nome di chi mi passò quella «notizia», ma qualche giretto su Internet basta e avanza per capire che non è affatto necessario che la soffiata arrivi dal tribunale di Terni. Se Vittorio Feltri, il neo ri-direttore de Il Giornale, avesse verificato con il diretto interessato come ho fatto io nel 2006 avrebbe evitato la figura bestiale che ha fatto. Non sarebbe scivolato sulla buccia di banana che legittima eventuali «leggere impressioni» che lui sia davvero un amante del killeraggio giornalistico pro domo padronale, in questo caso berlusconiana...
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