Rassegna stampa - Avvenire, 24 novembre 2009.
Per ventitré anni è stato considerato in coma, in realtà era vigile: ma Ron Houben, rimasto paralizzato in un incidente stradale quando aveva 23 anni, non riusciva a dire che capiva ogni cosa di quel che gli accadeva attorno. «Sognavo di alzarmi», ha raccontato Houben, oggi 46enne e che secondo i medici era in persistente stato vegetativo. «Urlavo ma non sentivo la mia voce».
Dopo l’incidente, i medici di Zolder, in Belgio, utilizzarono i test in uso nella comunità scientifica prima di concludere che la sua coscienza era «estinta». Ma tre anni fa, nuovi scanner ultra-sofisticati hanno dimostrato che il suo cervello ancora funziona pressocché normalmente. Decisivo è stato quando Houben ha potuto schiacciare con il piede un tasto per rispondere si o no agli impulsi. Houben, la cui inquietante vicenda è stata raccontata dalla stampa britannica, ha descritto quel momento come la sua «seconda nascita ». Il suo caso è venuto alla luce perché il neurologo che lo ha «salvato», Steven Laureys, l’ha raccontato in un articolo di una rivista scientifica. «Per tutto quel tempo ho letteralmente sognato una vita migliore. “Frustrazione” è limitativo per descrivere quel che sentivo».
Secondo Laureys, potrebbero esserci altri casi simili nel mondo; e la vicenda è destinata a risollevare il dibattito sul diritto a morire di chi è in coma. I medici a Zolder utilizzarono la Scala di Glascow, la stessa utilizzata internazionalmente, che valuta vista, parola e risposte motorie. Ma solo quando il caso fu riesaminato dai medici dell’Università di Liegi si scoprì che l’uomo aveva perso il controllo del corpo, ma era ancora perfettamente consapevole di quel che accadesse. Houben probabilmente non potrà mai lasciare l’ospedale, ma adesso ha un computer sopra il letto che gli consente di leggere i libri mentre rimane sdraiato.
«Voglio leggere, dialogare con gli amici, godermi la vita ora che si sa che non sono morto». Secondo gli studi di Laureys, i pazienti in stato vegetativo spesso sono vittime di diagnosi sbagliate.
Cosa insegna alla scienza il caso del risvegliato dal coma. L’umiltà di tornare al capezzale di malati etichettati come persi.
Ventitré anni fa, dopo un incidente, i medici gli avevano diagnosticato uno stato vegetativo persistente. Tre anni fa Rom Houben, belga, è stato esaminato da un neurologo di fama internazionale. Con le tecniche di risonanza magnetica funzionale il professor Laureys dell’Università di Liegi ha accertato che l’uomo aveva attività cerebrale: un caso particolare di 'sindrome lockedin ', è la diagnosi, lo stato di chi dopo un trauma è paralizzato e 'chiuso dentro' di sé. Oggi Houben riesce a comunicare indicando le lettere su una tastiera, e può leggere. Racconta come un incubo i ventitré anni di silenzio. Quando per i medici la sua attività cerebrale era 'estinta'.
La storia non è un miracolo, né il caso di un uomo straordinariamente risvegliato dal limbo della incoscienza. È la storia di una diagnosi sbagliata.
Ventitré anni fa non c’erano gli strumenti di oggi. Simili errori non erano impossibili. Secondo quanto afferma Laureys nel suo più recente lavoro scientifico, tuttora «il tasso di diagnosi errate di stato vegetativo rimane alto: i segnali che distinguono gli stati vegetativi dagli stati di minima coscienza non sono così netti».
Non così netti, come dal bianco al nero. Non così semplici, che non ci sia ancora da studiare. La vicenda del ragazzo invecchiato in un silenzio da monade, e il suo esserne tornato, insegna qualcosa. Intanto, che ciò che vent’anni fa sembrava certezza scientifica oggi potrebbe essere superato da nuove tecniche, che leggono ciò che non si vedeva.
Forse, tra cinquant’anni, si saprà ancora di più sul cervello umano. Che è macchina straordinariamente complessa; troppo, per definirla irreversibilmente con diagnosi che rapidamente invecchiano.
Il sommo della ragionevolezza di fronte a tanta complessità sarebbe forse l’ammettere di conoscere ancora poco. Non pretendere di sapere 'tutto', né dare per scontato che ogni uomo immobile da anni in un letto sia perduto. Sapere almeno che occorre cercare ancora.
In fondo, questa storia prima che di scienza sofisticata è una storia di umiltà: l’umiltà di un medico di tornare al capezzale di un paziente assente da vent’anni, dato per spacciato. E di tentare ancora. Per venti giorni Laureys e i suoi assistenti hanno verificato semplicemente i riflessi oculari di Houben, ne hanno preso nota su un diario.
Prima ancora delle macchine più sofisticate, la pazienza dei medici.
Ed è la storia questa, anche, della tenacia di una donna. La madre, che per ventitré anni è rimasta accanto a quel letto. Un tempo lunghissimo. Quanti avrebbero ceduto, quanti si sarebbero umanamente rassegnati. Magari invocando una fine. Quella donna no.
Capace, davvero, di sperare contro ogni speranza. E quel figlio intanto, carcerato nel suo personale abisso. Lavato, imboccato, immobile. Eppure cosciente. Di una coscienza invisibile ai medici. Che crollavano il capo, certi del loro sapere: «È un vegetale».
Un errore di diagnosi, una sentenza incollata come un’etichetta, e mai più verificata. Possibile, quando dei medici sono troppo sicuri di aver capito tutto. Fosse un insegnamento per quanti hanno a che fare con i limbi di pazienti assenti. Se, di fronte al mistero della coscienza e dell’indecifrato ' hardware' che ne è sede, si alzasse un dubbio: occorre essere umili, di fronte alla vita di un uomo. Di fronte a ciò che è molto grande, somma ragionevolezza l’ammettere di non sapere abbastanza.
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