È giusto che paghi, è ingiusto che muoia.
Rassegna stampa - Avvenire, Giuseppe Anzani, 3 novembre 2009.
La legge le aveva dato il carcere a vita, lei si è data la morte. All’indomani della sentenza con cui la Cassazione penale ha sigillato la condanna all’ergastolo per l’assassinio di Marco Biagi, Diana Blefari si è uccisa. D’istinto, la memoria cerca il passato, a ritroso dei gradi processuali, rivede la morte dell’innocente ammazzato sull’uscio di casa, e già in quel crimine orrendo ritrova l’immagine totalizzante del dolore. Oggi la cronaca aggiunge la morte di chi diede la morte.
E invece che impossibile bilancia, di nuovo la morte è un veleno di traboccata disperazione. È ancora dolore, è ancora lutto, perché la vita, la vita di chiunque, resta un bene supremo. Ci nascono dunque in cuore domande e inquietudini. Domande a noi stessi, prima ancora che interpelli ad altri designati soggetti.
Riflessioni che possono, che 'devono' convivere con l’esecrazione del delitto Biagi, con il pianto condiviso della sua famiglia, con la doverosa riparazione collettiva, con la repressione di ogni rigurgito terrorista, con la nozione che la condanna per omicidio è l’esito di tre gradi di giudizio, e che l’ergastolo è una pena che la Consulta tien lecita, e che gli Italiani nel referendum del 1981 hanno rifiutato di abrogare.
Non sono dunque smagliature legali, le crepe in cui si è infilata la morte. È piuttosto il profilo soggettivo della storia personale, come sempre accade nelle infinite storie personali, il bandolo ultimo per capire. La dinamica psicologica del suicidio è la disperazione.
È il disfacimento del futuro immaginabile come vita, come progetto, come presenza significativa.
Più che un gesto di resa di chi è fiaccato dalla sconfitta del proprio desiderio, e oppone il suo pianto o la sua supplica, il suicidio è la fuga che impreca il dolore, lo maledice e lo rimpiazza con il fantasma del nulla in cui vuol precipitare. Il problema diventa allora se la pena doverosa, così com’è praticata, possa diventare una pena 'disperante', disperante 'a morte' per chi la subisce. C’è il profilo oggettivo, sulla qualità e il grado di afflizione: si pensi, appunto, all’ergastolo come sintetico destino espulsivo; o si pensi al 41bis, che si propone come 'crudeltà necessitata'. Ce n’è già da far tremare le vene e i polsi agli addetti. Ma poi c’è il profilo soggettivo, determinante: c’è gente che si sente morire, c’è gente che muore, c’è gente che si dà la morte. C’è gente 'malata dentro' che annega in un quotidiano morire, con sofferenze peggiori del morire. Se è giusto che paghi, non è giusto che muoia. Non è in primis un problema di sorveglianza ad impedire il gesto di morte, è il capire il perché della morte. La morte in carcere vuol dire che il sistema penitenziario sta fallendo, che invece di ricostruire la speranza (l’emenda, dice la Costituzione, cioè addirittura il traguardo della speranza compiuta) sigilla la disperazione.
Quello di Diana non è già più l’ultimo suicidio, nel record di quest’anno: a Verona si è ucciso ancora un ragazzo di 29 anni; condannato a cinque anni, ne aveva ormai scontato metà.
Chi è attento ai pensieri, alle emozioni, all’affettività positiva o agli impulsi distruttivi, alle fantasie di salvezza o ai deliri di rovina, alle fragilità psichiche, comuni o peculiari, delle persone incatenate? Sì, c’è un volontariato che lo fa. Ci sono i cappellani. Ma ci vorrebbe forse ancora un clima diverso, interno ed esterno alle carceri, che capisse cosa vuol dire la 'penitenza condivisa': quella che senza mentire sul delitto ripudiato, tiene accesa la fiammella della speranza e della riparazione mentre traversa il dolore. Senza la speranza il dolore che genera morte è soltanto insensato.
Chi è condannato ha il «diritto» di espiare.
Rassegna stampa - Avvenire, Ferdinando Camon, 3 novembre 2009.
Uno è assassino quando ha superato un test complesso, che consiste nel reggere il delitto con la mente e con i nervi, prima, durante e dopo l’esecuzione.
Diana Blefari, la brigatista rossa che s’è impiccata nel carcere di Rebibbia, aveva superato questo test? Purtroppo sì. Aveva programmato, insieme con altri, l’uccisione di Marco Biagi, aveva eseguito personalmente la ricognizione dei luoghi, aveva aspettato la vittima nella sera dell’operazione, l’aveva seguita in bicicletta (la sua vittima era anch’essa in bicicletta), fino al momento dell’esecuzione, sotto casa. E questo è il compimento del delitto. Non tutti quelli che reggono questa fase reggono le fasi successive. Quando il delitto si svela per quello che è: la massima delle colpe che l’uomo possa compiere. Ma Diana passò anche i test successivi: ospitò la cellula di assassini, scrisse e spedì la rivendicazione, e molto più tardi ribadì che l’uccisione era stata giusta, e che se aveva una colpa era di aver mancato di crudeltà: la vittima, prima di ucciderla, bisognava torturarla.
Questo lei non l’aveva fatto. E di questo si pentiva.
I capi delle cellule terroristiche sanno che il momento del crollo è quello che segue all’esecuzione. Perciò loro preparano e addestrano gli assassini. Nell’antica Sparta, i giovani avevano libertà di girare di notte e uccidere gli schiavi, non venivano perseguiti per questo. In Dostoevskij, i capi dei nichilisti, prima della strage rivoluzionaria, provavano con qualche delitto singolo, e osservavano le reazioni dei compagni di cellula (uno crolla, e il capo esclama: «Che porcheria, questa gente!»). Diana non crolla. Molto tempo dopo, si dice pronta a ripetere l’omicidio, alzandolo al quadrato.
Dunque, il test dell’omicidio lo ha passato. L’espiazione e la redenzione sono un contro- test. Chi ha ucciso ed è 'passato di là', nel campo opposto alla nostra morale, deve 'tornare di qua', nella nostra morale. Deve condannare ciò che approvava prima, e lavorare per la nuova morale, affinché prevalga.
Perché tutto questo sia possibile, bisogna (qui sta la prova) che l’assassino senta come giusta la propria condanna. In 'Delitto e castigo' la redenzione comincia non quando l’assassino entra in carcere, ma quando accetta il carcere, accetta di fare tutti gli anni che gli restano da fare, e anzi soffre e piange perché, in confronto alla sua colpa, gli sembrano pochi. Anche il personaggio di Dostoevskij aveva dichiarato, appena scoperto: «Mi uccido, rifiuto la vita» . Ma chi l’aveva scoperto gli ribatteva: «Che cosa sapete voi della vita? Cosa sapete del futuro? Come potete rifiutare ciò che non conoscete?». È questo il principio sul quale si basa l’ergastolo come superamento della condanna a morte: la condanna all’ergastolo invece che a morte non è soltanto l’impedimento allo Stato di uccidere, ma anche al condannato di uccidersi.
Chi è condannato all’ergastolo, è condannato a non rifiutare la vita, ad attendere ciò che la vita può offrire, magari negli ultimi anni o negli ultimi giorni. O l’ultimo in assoluto. In Dostoevskij l’assassino uccide per l’applicazione coerente di un principio folle. Nei nostri terroristi è lo stesso. Chi li ammira (purtroppo ce ne sono, anche su Facebook) ammira la coerenza, dimenticando la follia che sta nel principio. Chi non soffre per il loro suicidio, perché soffre per la morte di Biagi, non sente che le sofferenze sono ambedue possibili, e dimentica che chi ha ucciso 'ha il diritto' di essere condannato e chi è condannato 'ha il diritto' di espiare: se la disorganizzazione delle nostre carceri ha una responsabilità nel suicidio di Diana Blefari, allora le nostre carceri non sanno attuare il diritto all’espiazione, che è la ragione per la quale esistono.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.