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mercoledì 28 ottobre 2009

Giovani, Grande Fratello e energie alternative




Riprendiamo tre contributi, un articolo e tre lettere, da Avvenire di ieri, 27 ottobre 2009.
Nei cinema «Amore 14».
I quattordicenni bocciano Moccia: «Non siamo come ci racconta lui».
Rassegna stampa - Avvenire, Tiziana Lupi, 27 ottobre 2009.

Forse ha ragione chi, parlando dei giovani protagonisti dei suoi libri e dei suoi film, li de­finisce «Moccia generation». Perché, almeno stando ai commenti sentiti ieri mattina all’anteprima del suo nuovo film Amore 14 (nelle sale da venerdì 30 ottobre, distribuisce Me­dusa), la generazione raccontata da Federico Moccia sembrerebbe più costruita a tavolino che reale. Non si spiega altrimenti la reazione degli studenti del complesso scolastico Seraphicum di Roma (invitati alla proiezione per la stampa) che, do­po avere visto il film, hanno com­mentato praticamente all’unani­mità di non riconoscersi nei prota­gonisti del film, nei loro modi di pen­sare e di vivere. Sia i ragazzi delle me­die (fra gli undici e i tredici anni) sia quelli del primo liceo classico (sedi­ci anni) hanno trovato poco realisti­che Caro (Veronica Olivier), Alis (Beatrice Flammini) e Clod (Flavia Roberto), le tre amiche quattordi­cenni che trascorrono praticamen­te tutto il film a parlare di quando, come e dove sarà la loro «prima vol­ta», con tanto di meeting prepara­torio per capirne un po’ di più dal punto di vista strettamente anato­mico.
La storia di Amore 14, infatti, pren­de il via proprio da lì: dalla mattina del giorno in cui Caro (diminutivo di Carolina) ha deciso di compiere quello che ritiene il grande passo. È allegra e trepidante e l’attesa del lui prescelto (Massi, interpretato da Giuseppe Maggio) diventa l’espe­diente narrativo per spiegare agli spettatori chi è Caro: quattordici an­ni, una famiglia in cui va d’accordo con la madre (Pamela Villoresi) e con il fratello (Raniero Monaco di Lapio) ma non con il padre e la sorella, due amiche con le quali condividere gioie, segreti e dolori e una classe scolastica un po’ turbolenta in cer­ca del «modo migliore per finire su Internet».
Un mondo, tutto sommato, 'abba­stanza 'normale', segnato anche dall’ottimo rapporto con i nonni materni, nel quale, in netto anticipo rispetto al buon senso, fa irruzione il sesso. Parlato più che agito, ma so­lo per un contrattempo che si svela nel finale. Moccia difende il suo film: «Io credo che a quattordici anni, se incontri la persona giusta, inizi a fa­re una riflessione su certi temi. Con questo non voglio incitare i ragazzi a bruciare le tappe, anzi. Amore 14 li invita proprio a riflettere, la stessa Caro alla fine del film dice: «In fon­do, ho solo 14 anni». Un invito alla riflessione un po’ curioso se, subito dopo, è lo stesso Moccia ad aggiun­gere: «È bello che accada per amo­re, io non me la sento di dare l’indi­cazione per l’età migliore. D’altra parte, mettiamoci d’accordo: mi hanno accusato di parlare sempre di ragazzi troppo bravi, ora non mi si può accusare del contrario». Del resto, aggiunge lo scrittore-regista, anche l’invito a fare un film sui quat­tordicenni è arrivato da sollecita­zioni esterne: «Me lo chiedevano sui blog. Effettivamente devo dire che era tempo che qualcuno non butta­va uno sguardo sulle emozioni dei ragazzi di questa età». Una lacuna, almeno a sentire gli studenti, non certo colmata da Amore 14.

Grande Fratello: 10 anni di brutti esempi.
Avvenire risponde.

Caro Direttore, bisogna avere il coraggio di guardare bene in faccia – e anche dentro – una famosa trasmissione televisiva, trasformatasi di fatto in una scuola di maleducazione. Per «Grande Fratello» s’intende qualcuno o qualcosa a cui nulla sfugge. Il programma presenta infatti una grande casa, che in realtà è una grande gabbia, che contiene una dozzina di persone; uomini e donne messi insieme dal caso. Il divertimento consiste nel vedere che cosa capita: se nascono simpatie o antipatie, amori o avversioni. È tutto uno spuntare di rapporti provvisori e fasulli, che prendono possesso di questi volontari reclusi, eroicamente distesi su letti, divani o poltrone, campioni del tempo perso. Alla faccia della privacy! I «reclusi» non possono avere collegamenti col mondo esterno per non essere distratti dalla realtà, dalle cose serie (guerre, fame, terremoti, crisi, terrorismo). Devono essere concentrati a macinare le ore della loro finta vita. L’oscar del cattivo gusto va assegnato al «confessionale»: una sedia su cui ogni eroe confessa i peccati altrui invece che i propri. Ma il sentimento sotterraneo che avvelena tutto è il pensiero, la speranza, il tentativo di ognuno di sopravvivere alla selezione, di non essere espulso, di restare l’ultimo del branco per ottenere il premio. Con più o meno intelligenza, ogni ospite della gabbia mira a salvare se stesso e far fuori tutti gli altri. Un vero capolavoro di psicologia sociale. Mentre ogni uomo deve lavorare per imparare a vivere e convivere in pace col prossimo, nel «Grande Fratello» l’unico ideale è di restare solo, usando ogni mezzo, ogni finzione, ogni sotterfugio pur di guadagnare la borsa. Questa trasmissione bisognerebbe proibirla più seriamente della pornografia, perché distrugge il cemento che tiene insieme i membri di una società.
Corrado Camandone
Sul «Grande Fratello» sono stati versati, in questo decennio di programmazione, fiumi d’inchiostro.
Anche da parte dei lettori che, come lei, lamentano non solo lo scarsissimo «bon ton» della trasmissione ma, più estesamente, la negatività del modello umano da essa proposto. Facile affermare che il «GF» rispecchia i sentimenti e i modi di tanti che lo seguono. Appena domenica abbiamo ospitato un commento preciso e severo di Umberto Folena, la cui conclusione è stata che la trasmissione «costituisce un modello intrinsecamente sbagliato non tanto né solo per le volgarità, le sciocchezze, l’ignoranza, l’impalpabile nulla di cui è fatta; ma innanzitutto per la sua struttura, per la sua – ma sì, diciamolo – ideologia», il suo essere «metafora perfetta della consumerist society , la 'comunità' fasulla dove ogni rito collettivo è compiuto da individui in concorrenza tra loro, condannati alla solitudine, legati da legami friabili e fuggevoli». Per decenni, la televisione italiana è stata un fattore non solo di coesione, ma, almeno in una certa misura, di progresso, di miglioramento sociale, stimolando – con palinsesti culturali di qualità – il desiderio di crescere e di conoscere di tanti spettatori. Questa volontà di evolvere (in meglio) era considerata, giustamente, «normale». Oggi invece appare spesso «normale» l’inverso: esibire il peggio di sé per avere successo, mettendo alla berlina tutto ciò che è serio e problematico e premiando le performance delle volgarità. Lunga è la collana di «perle» volgari e sconvenienti messa insieme in questi anni dal «Gf», eppure le proteste dei telespettatori non sono valse a correggere il tono o a far ravvedere autori e protagonisti, convinti che tutto o quasi sia giustificato dall’audience. Così, è tristemente vero quanto la sociologa Chiara Giaccardi il 21 ottobre notava sulle nostre pagine: «... Oggi i ragazzi si formano certamente più alla scuola di Amici o del Grande Fratello che sui banchi di scuola. Da accompagnatrice discreta la televisione si è fatta grancassa grossolana, specchio che pretende di mostrare la realtà com’è, senza ipocrisie moraliste; specchio in cui la stessa realtà si consola, guardandosi riflessa proprio in quelle parti di sé di cui un tempo sentiva di doversi almeno un po’ vergognare, in un gioco di rifrazioni che produce le rappresentazioni tristemente grottesche del 90% della programmazione quotidiana odierna, servizio pubblico compreso».
Constatarlo, per noi come per lei, non significa accettarlo, ma continuare a battersi per ribaltare questo rischioso e desolante andazzo.

Dibattito.
«Energie alternative, un affare per pochi».

Caro Direttore, i recenti articoli e lettere pubblicati da Avvenire in materia di energia sono esemplari per correttezza e obiettività scientifica. Per troppo tempo in Italia in materia di energia e delle conseguenze derivanti dalla sua produzione ci si è lasciati andare a facili illusioni e anche alla demagogia. Nessuno ha, per esempio, il coraggio di informare dell’ammontare del balzello che il consumatore italiano allacciato alla rete elettrica paga per retribuire l’energia prodotta con il fotovoltaico, con l’eolico e per gestire lo «smantellamento» del mostro nucleare realizzato e che non ha prodotto un solo kWh. Se si voleva uscire dal nucleare, si poteva agire come la Germania, fissando la data di uscita a distanza di anni. In questo modo i tedeschi, migliorate le tecnologie, constatato che non si sono verificati incidenti, cambiata la maggioranza, constatato che nel frattempo il prezzo del petrolio è lievitato, potranno, magari, cambiare la vecchia decisione.
Se fossimo stati previdenti, anche noi avremmo potuto soprassedere all’uscita traumatica dal nucleare, portando a termine le centrali nucleari in costruzione e prevedendo di uscirne al termine del ciclo tecnologico delle centrali. Noi, invece, siamo usciti di punto in bianco e ne stiamo pagando le conseguenze.
I fondi sovrani dei Paesi produttori di petrolio e di gas sono ormai in grado di acquistare buona parte delle nostre imprese. Ora c’è un altro fantasma, rappresentato dai contributi erogati per la produzione di energia elettrica dalle cosiddette fonti rinnovabili. La polemica ospitata nella pagina di Forum del 21 ottobre scorso tra il segretario generale dell’Associazione nazionale energia del vento e Francesco Grianti ne ha dato conferma. Tutti ambiscono a dividersi la torta dei contributi.
Bisogna però avere il coraggio di dire che i contributi che si danno ai produttori di energia elettrica generata con il fotovoltaico e con l’eolico possono essere anche un incentivo ad attività illecite. La terza pagina di Avvenire del 22 ottobre riferisce delle possibili conseguenze sul mercato delle materie prime necessarie, non solo per produrre gli accumulatori dell’auto elettrica, ma anche per l’eolico, le lampade a risparmio energetico e altri manufatti di recentissima introduzione.
Inoltre, in Italia si «premia» in modo esagerato la produzione di energia elettrica con il vento: si danno cento euro ogni mille kWh per un sito eolico medio, mentre in Germania se ne danno dieci e in Spagna meno di venti.
Con questi incentivi non è da meravigliarsi se, accanto a imprenditori onesti, si introduca nel settore anche la criminalità organizzata. In misura minore questo può avvenire anche nel fotovoltaico. In conclusione si potrebbe forse affermare che stiamo impoverendo molti per arricchire pochi e, tra i pochi, non tutti sono onesti. Chi è veramente vicino ai poveri e li vuol tutelare deve alzare le antenne e vigilare.
Francesco Zanatta - Brescia
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