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martedì 10 novembre 2009

Rimosso il virus letale del nuovismo veltroniano

Democratici al lavoro.
Rassegna stampa - il manifesto, Michele Prospero, 8 novembre 2009.

Dove va il Pd? È stato chiaro Bersani nel ridefinire alcuni momenti della cultura politica di un partito che ha, quale suo atto genetico insuperabile, una carenza profonda di identità. Sul nodo gordiano dell'identità è impossibile, per chiunque si trovi alla guida di un partito coalizionale plurale, spingersi oltre. Una identità comune non potrà mai esserci e questo nella sostanza fa del Pd un non-partito, una sorta di confederazione con sovranità limitata a proposito dei confini ideologici (ma anche della lettura della storia d'Italia).
Questa carenza strutturale di identità rispetto ai grandi partiti del Novecento impedisce di rimuovere le ambiguità che per il Pd sono per l'appunto costitutive e, nel medio periodo, non rinegoziabili. Non potendo dirimere i nodi incerti dell'appartenenza (e parlare con voce univoca sul tema della laicità e dei diritti civili), il nuovo segretario ha puntato a invertire la rotta almeno sul piano della cultura politica e istituzionale. E qui, con vari spunti critici, ha estratto dal corpo malato del suo partito il virus letale del nuovismo veltroniano, inteso come una informe cultura che ha condotto il leggero Pd sull'orlo del precipizio etico-politico con striscianti «fenomeni di anarchismo e di feudalizzazione».
Nella denuncia di questa congenita deriva del partito elettorale mediatico, Bersani è stato esplicito: è deleterio ogni partito di un leader e occorre, dice con parole antiche, un gruppo dirigente con militanti, circoli, strutture. Le insostenibili scempiaggini sulla contendibilità della leadership, sul popolo delle primarie, sulla liquidità hanno portato il sistema democratico alla deriva. Occorre una inversione di rotta. Su questo crinale scivoloso, Bersani ha cercato di ricollocare la cultura politica del Pd entro il solco del costituzionalismo che «parla di partiti e non parla di popoli». Ha per questo respinto l'idea malsana secondo cui la partecipazione coincide con l'eleggere un capo e ha rivendicato il ruolo di un partito di massa come antidoto alla «deformazione leaderistica e plebiscitaria».
È un bene che, dopo le catastrofiche fascinazioni per la democrazia immediata, anche il Pd abbia rilanciato il sistema parlamentare, insieme ad una nuova legge elettorale per la ricucitura di una coalizione ampia.
Il neoparlamentarismo è apparso come la risposta (da sola certo non sufficiente) alla crisi valoriale della democrazia. Anche Bersani ha riconosciuto la avanzata putrefazione della politica quando ha individuato «un muro molto pericoloso tra realtà sociale e realtà istituzionale» e ha avvertito che «senza dialettica politica e parlamentare non c'è dialettica sociale».
E qui, la descrizione della repentina caduta di ogni nesso tra politica e bisogni della società, avrebbe dovuto (ma il Pd è poi attrezzato a questa riscoperta dell'autonomia politica del lavoro?) indicare come aggirare lo scoglio della totale solitudine del lavoro.
Quando il neo segretario ha affermato che proprio il lavoro è «il problema numero uno», e che quindi una agenda di governo deve prospettare un orientamento del fisco «dal lavoro alla rendita», si è reso conto dei guasti provocati delle illusioni modernizzatrici sorte per la conquista di fantomatici nuovi centri. Resta dinanzi al Pd (ma non solo al Pd) la carenza abissale di rappresentanza sociale e politica sperimentata nel loro vissuto dai soggetti che lavorano.
Appannato sul piano dell'identità ideale, un po' di colore rosso torna, in una qualche modica misura, quando il Pd si autodefinisce come il partito del lavoro. Basterà per curare l'anemia di un partito incolore?
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