Rassegna stampa - Avvenire, Italo Cucci, 13 novembre 2009.
Ho letto giorni fa la bella intervista a Ricky Albertosi e quel titolo - “La solitudine del numero 1” - che richiama alla memoria i bellissimi versi di Saba, classico della poesia “sportiva”: «Il portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela / la faccia, a non veder l’amara luce. / Il compagno in ginocchio che l’induce / con parole e con mano, a rilevarsi, / scopre pieni di lacrime i suoi occhi».
Ed è tornato, quel pensiero, incalzante, amaro, con la notizia della tragica fine di Robert Enke, portiere della nazionale tedesca e dell’Hannover. La moglie Theresa e lo psicoterapeuta Valentin Markser, che aveva in cura Enke fin dal 2003, hanno confermato i sospetti: Robert ha scelto di morire perchè afflitto da una grave forma di depressione.
E l’ha fatto sapere anche lui in una straziante lettera d’addio lasciata ai famigliari. I dettagli, tanti e tali da sorprendere chi pensa che un grande calciatore, baciato dal successo, amato dalla gente, osannato dalla critica, debba per forza esser felice, o almeno sereno, come l’ha definito con bellissime parole Mourinho, ricordando i giorni in cui hanno lavorato insieme.
Il campione - come vuole l’etimologia - è un modello esemplare per tanti giovani, addirittura per i ragazzini che nella prima fase del loro impegno calcistico lo seguono in nome dello sport, e più tardi - cresciuti palla al piede - per il successo, il denaro, la vita dolce e, spesso, la dolce vita. E quando d’improvviso s’affaccia la morte, si finge stupore, ci si dice sorpresi e s’indaga sul filo di una facile se non banale psico-sociologia chiedendosi: «Perchè?». Bè, se la morte agguanta giovani ciclisti, si fa presto, li si archivia nel cospicuo faldone del doping. Ma i calciatori, ah, i calciatori... Non serve che Gigi Buffon, reduce da una crisi, parli - magari con imprecisione - di depressione, il male più diffuso e misconosciuto del mondo: s’è salvato rapidamente, ma certo l’insidiosa nemica l’ha sfiorato e ha lasciato il segno. E non serve che Leonardo racconti, con una profondità da meditare, il suo incontro con la depressione rivelatasi come crisi esistenziale da successo; perchè magari si ignora - o si finge di non sapere - che proprio grandi personaggi popolari, protagonisti del teatro, del cinema, della cultura siano stati e siano vittime di quello che Giuseppe Berto chiamò “il male oscuro” che oscuro non è più ma solo malcelato da un frainteso rispetto umano, da una vergognosa vergogna che finisce per ferire non i congiunti sani e piangenti ma i malati spesso senza speranza. Una sera, in tivu, ho detto che fra le tante “parate” domenicali dei calciatori che si improvvisano testimonial di questa o quella malattia, invitando il loro popolo a combatterla con generosità, mi ha stupito e amareggiato l’assenza di ogni riferimento alla depressione che fa milioni di vittime.
Avrei voluto aggiungere che vivo da anni vicino a qualcuno che ne soffre e che combattiamo insieme con forza e passione la battaglia contro l’indifferenza dei più. Contro la feroce solitudine che s’annida in quel punto che sta fra il cuore e la mente e che forse si chiama anima.
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