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sabato 14 novembre 2009

La solitudine del numero 1

La barba al palo. Quel portiere triste e solitario.
Rassegna stampa - Avvenire, Italo Cucci, 13 novembre 2009.

Ho letto giorni fa la bella in­tervista a Ricky Albertosi e quel titolo - “La solitudine del numero 1” - che richiama alla memoria i bellissimi versi di Saba, classico della poesia “sportiva”: «Il portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela / la faccia, a non veder l’amara luce. / Il compa­gno in ginocchio che l’induce / con parole e con mano, a rilevarsi, / sco­pre pieni di lacrime i suoi occhi».
Ed è tornato, quel pensiero, incal­zante, amaro, con la notizia della tragica fine di Robert Enke, portie­re della nazionale tedesca e del­l’Hannover. La moglie Theresa e lo psicoterapeuta Valentin Markser, che aveva in cura Enke fin dal 2003, hanno confermato i sospetti: Ro­bert ha scelto di morire perchè af­flitto da una grave for­ma di depressione.
E l’ha fatto sapere an­che lui in una straziante lettera d’addio lasciata ai famigliari. I det­tagli, tanti e tali da sorprendere chi pensa che un grande calciatore, ba­ciato dal successo, amato dalla gen­te, osannato dalla critica, debba per forza esser felice, o almeno sereno, come l’ha definito con bellissime parole Mourinho, ricordando i gior­ni in cui hanno lavorato insieme.
Il campione - come vuole l’etimo­logia - è un modello esemplare per tanti giovani, addirittura per i ra­gazzini che nella prima fase del lo­ro impegno calcistico lo seguono in nome dello sport, e più tardi - cre­sciuti palla al piede - per il succes­so, il denaro, la vita dolce e, spesso, la dolce vita. E quando d’improvvi­so s’affaccia la morte, si finge stu­pore, ci si dice sorpresi e s’indaga sul filo di una facile se non banale psico-sociologia chiedendosi: «Per­chè?». Bè, se la morte agguanta giovani ci­clisti, si fa presto, li si archivia nel co­spicuo faldone del doping. Ma i cal­ciatori, ah, i calciatori... Non serve che Gigi Buffon, reduce da una cri­si, parli - magari con imprecisione - di depressione, il male più diffu­so e misconosciuto del mondo: s’è salvato rapidamente, ma certo l’in­sidiosa nemica l’ha sfiorato e ha lasciato il segno. E non serve che Leonardo racconti, con una profondità da meditare, il suo in­contro con la depressione rivela­tasi come crisi esistenziale da suc­cesso; perchè magari si ignora - o si finge di non sapere - che proprio grandi personaggi popolari, pro­tagonisti del teatro, del cinema, della cultura siano stati e siano vit­time di quello che Giuseppe Berto chiamò “il male oscuro” che oscu­ro non è più ma solo malcelato da un frainteso rispetto umano, da u­na vergognosa vergogna che fini­sce per ferire non i congiunti sani e piangenti ma i malati spesso sen­za speranza. Una sera, in tivu, ho detto che fra le tante “parate” domenicali dei calciatori che si improvvisano te­stimonial di questa o quella ma­­lattia, invitando il loro popolo a combatterla con generosità, mi ha stupito e amareggiato l’assenza di ogni riferimento alla depressione che fa milioni di vittime.
Avrei voluto aggiungere che vivo da anni vicino a qualcuno che ne sof­fre e che combattiamo insieme con forza e passione la battaglia contro l’indifferenza dei più. Contro la fe­roce solitudine che s’annida in quel punto che sta fra il cuore e la men­te e che forse si chiama anima.
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