27 ottobre 2009
Scriveva ieri il Corriere della Sera dandone notizia: «Era lo sceriffo di Treviso, ora non potra più parlare a comizi politici. Giancarlo Gentilini, vicesindaco di Treviso, leghista della prima ora, è stato condannato dal Tribunale di Venezia per aver usato parole troppo forti contro gli immigrati e contro la possibilità di aprire moschee in Italia. Gentilini aveva detto la sua dal palco del raduno della Lega di Venezia nel 2008. Parole forti, come è nel costume dello sceriffo, già noto alle cronache per le sue esternazioni colorite. Ne era seguita una denuncia con l'accusa di istigazione al razzismo. Il Tribunale di Venezia, in rito abbreviato, ha accolto la tesi dell'accusa condannando Gentilini a 4 mila euro di multa e sospensione per tre anni dai pubblici comizi. L'accusatore era il procuratore Vittorio Borraccetti che aveva chiesto 6 mila euro di multa pari a 1 anno e 5 mesi di reclusione. Il difensore di Gentilini, avvocato Luca Ravagnan, ha già annunciato ricorso in appello sostenendo che "non c'era alcuna maliziosità contro le razze ma il sostegno ad idee ben note nel mio assistito finalizzate all'integrazione tra etnie diverse". Gentilini sostiene di essere sempre pronto ad esporsi in prima persona "mentre c'è sempre qualcuno pronto a spararmi alle spalle". Il vicesindaco di Treviso quest'anno ha partecipato, acclamatissimo, al raduno veneziano di settembre, ma non ha parlato dal palco.»
Ma vediamo dalla sua stessa voce cosa Gentilini intende per, parole del suo avvocato, nessuna maliziosità contro le razze e sostegno alle proprie idee «finalizzate all'integrazione tra etnie diverse».
Nel sito Spreconi.it si può leggere sul prosindaco trevigiano questo: «Le parole di Giancarlo Gentilini spesso sono materia da aula di giustizia. Proprio ieri è stato rinviato a giudizio per istigazione all'odio razziale per le sue frasi su rom, immigrati e musulmani. Ma nella deriva italiana ci siamo abituati a tutto. E così non scandalizza scoprire che il Comune di Treviso ha stanziato diecimila euro per fare stampare un volume sull'opera del più celebre "sceriffo" leghista. Un finanziamento deciso mentre lo stesso municipio taglia con la scure i fondi per assistenza sociale e per altre iniziative di più diretta utilità. Gentilini, ex primo cittadino per due mandati ora costretto a fare il vice sindaco ma di fatto dominus dell'amministrazione, ha difeso l'auto-sovvenzione: "È giusto che i cittadini sappiano cosa è stato fatto. E anche quelli di Treviso devono sapere, altrimenti si dimenticano del casino che c'era prima del mio arrivo, nel 1994. I soldi quindi li spendo prima per i miei cittadini, per far vedere loro cosa abbiamo fatto per la città. Per i servizi sociali, per gli immigrati, arriveranno altre somme più avanti". Il popolo è sovrano e in ben quattro elezioni consecutive i trevigiani hanno ribadito la loro fiducia a "Super G". Resta il dubbio: ma se il libro venisse messo in vendita, non si potrebbe fare a meno della sovvenzione pubblica? Una raccolta delle frasi di Gentilini, da quando voleva far "vestire gli extracomunitari da leprotti" per sparargli addosso o l'invito a "mandare e pregare e pisciare i musulmani nel deserto" o l'ultimissimo appello per "l'eliminazione dei bambini rom che rubano agli anziani" potrebbe diventare un manuale di studio sull'era dell'intolleranza, di grandissima diffusione.»
E da un barbaro passiamo al Barbarossa.
Sempre lo stesso sito curato dall'Espresso leggiamo: «Barbarossa, flop a spese nostre
Tra le tante voci di spesa, ci sono 400 costumi, 100 carri falcati, 200 armature (perfette riproduzioni realizzate in India), 4.550 cavalli, 12 mila comparse, più i cachet degli attori, incluso Raz Degan nei panni di Alberto da Giussano. E tutto il resto, naturalmente. Spesa finale: 30 milioni di dollari, compresa la postproduzione per le 800 scene trattate con effetti speciali digitali.
Chi ha pagato? Al 60 per cento imprenditori privati vicino alla Lega, al 40 per cento la Rai: 12 milioni di euro di soldi dei contribuenti, quindi, a pesare sul bilancio già drammaticamente in rosso della tivù pubblica.
Soldi che, ormai è certo, non torneranno mai indietro: nei cinema "Barbarossa" è un flop e l'incasso dei botteghini - secondo le previsioni - non coprirà nemmeno un terzo delle spese sostenute.
L'ultimo spreco di denaro pubblico ha un nome e cognome preciso: Umberto Bossi, capo della Lega e grande sponsor politico del progetto, nonchè amico personale del regista e pure presente in un cameo nella pellicola di Renzo Martinelli.
Berlusconi insomma ha usato la Rai (che imporrà il film in due puntate anche sul piccolo schermo) per tenersi buono l'alleato di governo, a spese nostre.
Dev'essere questo il famoso "Roma ladrona", lo slogan con cui la Lega ha mosso i suoi primi passi fino ad arrivare direttamente a usufruire del bottino.»
Ma per meglio capire leggiamoci questo post tratto dal blog "Movimento Antilega":
« Berlusconi: Senti, io... poi avevo bisogno di vederti...
Saccà: Si.
Berlusconi: perché c'è Bossi che mi sta facendo una testa tanto...
Saccà: si... si...
Berlusconi: ... con questo cavolo di... fiction... di Barbarossa...
Saccà: Barbarossa è a posto per quello che riguarda... per quello che riguarda RAI fiction, cioè in qualunque momento...
Berlusconi: allora mi fai una cortesia...
Saccà: si.
Berlusconi: puoi chiamare la loro soldatessa che hanno dentro il consiglio...
Saccà: si.
Berlusconi: ... dicendogli testualmente che io t'ho chiamato...
Saccà: va bene, va bene...
Berlusconi: ... che tu mi hai dato garanzia che è a posto...
Saccà: si, si è tutto a posto...
Berlusconi: ... chiamala, perché ieri sera...
Saccà: la chiamo subito Presidente...
Berlusconi: ... a cena con lei e con Bossi, Bossi mi ha detto "ma insomma .. di qui di là"... dice... Ecco, se tu potevi fare sta roba... mi faresti una cortesia.
Saccà: allora diciamola tutta... diciamola tutta Presidente... cosi lei la sa tutta, intanto il signor regista ha fatto un errore madornale perché un mese fa... ha dato - e loro lo sanno - ha dato un'intervista alla Padania, dicendo che aveva parlato con Bossi e che era tutto... io, ero riuscito a rimetterla in moto la cosa, che era tutto a posto perché aveva parlato col Senatùr... bla, bla, bla... il giorno dopo il Corriere scrive...
Berlusconi: esiste... (parola incomprensibile)...
Saccà: in due pezzi, dicendo, Saccà fa quello che gli chiede la... (parola incomprensibile) le mando poi gli articoli... così...
Berlusconi: chi è il regista?
Saccà: il regista è Martinelli, che è un bravo regista, però è uno stupido,un ingenuo, un cretino proprio...
Berlusconi: uhm...
Saccà: un cretino, mi ha messo in una condizione molto difficile, perché mi ha scritto un articolo sul corriere della sera... e poi non contento, Grasso sul Magazine del Corriere della sera... scrive il potente Saccà fa quello che gli dice Berlusconi e basta... ecc... che poi, non è vero, lei non mi ha chiesto mai...
Berlusconi: allora ascoltami...
Saccà: lei è l'unica persona che non mi ha chiesto mai niente... voglio dire...
Berlusconi: io qualche volta di donne... e ti chiedo... perché...
Saccà: si,... ma mai...
Berlusconi: ... per sollevare il morale del capo... (ridendo)
Saccà: eh esatto, voglio dire... ma, mi ha lasciato una libertà culturale di... ideale totale... voglio dire... totale... e questo lo sanno tutti, allora perché, e, malgrado questo, io sono stato chiamato poi dal Presidente, dal Direttore Generale: "Mah! Com'è sta cosa!?" Questa cosa vale perché, vale perché Barbarossa è Barbarossa, perché Legnano è Legnano...
Berlusconi: certo, certo...
Saccà: perché i Comuni a Milano hanno segnato la civiltà dell'occidente... voglio dire...
Berlusconi: d'accordo... va bene...
Quanto riportato è la trascrizione dell'arcinota intercettazione della telefonata avvenuta il tardo pomeriggio del ventuno giugno 2007 fra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e l'allora direttore di RAI Fiction Agostino Saccà. Proprio quest'ultimo, fra una genuflessione e una riverenza, espone la questione del film "Barbarossa" all'epoca ancora in fase di elaborazione. E siamo sicuri che il nostro gioviale Presidente avrà fra sé e sé senza dubbio riso di gusto quando, alla prima del film, al Castello Sforzesco di Milano, gli hanno presentato Renzo Martinelli. "Uno stupido, un ingenuo, un cretino proprio..." come lo aveva apostrofato il collerico e fido Agostino.
Fatto sta che nel giro di neanche due anni, Renzo Martinelli ha tirato su una bella palandrana. Uno scherzetto da trenta milioni di dollari, finanziato circa per il quaranta per cento dal Ministero dei Beni Culturali, da RAI Fiction (quella di Agostino Saccà) e da RAI Cinema. Girato, insomma, con dodici milioni di tasca nostra. Niente a che vedere – per carità! – con la condanna dei ministri Bondi e Brunetta nei confronti degli "artisti parassiti", e neanche con la nota di biasimo del presidente del Veneto, il forzista Giancarlo Galan, indirizzata alla regione Sicilia per il finanziamento di Baarìa di Tornatore. Accusa che, anche non volendo per nulla parteggiare per il governatore Lombardo, non sta in piedi, dato che la regione Sicilia gode dello statuto speciale.
Forte di una troupe di centoquindici tecnici e di un plotone di circa dodicimila comparse – tutto "zingarume rumeno a quattrocento, cinquecento euro la settimana" come sostenuto dallo stesso umbertoso cineasta –, in ventiquattro settimane Renzo 'la Martinella' (è così che si chiama nella tradizione il campanaccio del Carroccio) riesce a portare a termine la sua faticosissima opera. "Internazionale" – asserisce – "perché si gira in inglese e sarà venduta all’estero. Con il montaggio serrato, le eccezionali scene di battaglia, è destinato al pubblico giovane che affolla le multisale in tutta Italia". Peccato che il 'Barbarossa' questa incredibile folla di giovani avidi di guerreggiamenti non l'abbia vista neanche da lontano. Tanto che, fino allo scorso fine settimana, in tutto il Veneto – in cui il sentimento d'identità padana scalda il cuore del 27% degli elettori – c'erano stati solo poco meno di settemila paganti, mentre in Calabria gli spettatori erano addirittura meno di quattrocento. Un flop clamoroso in tutto e per tutto.
Qualche gridolino solo da parte dei partecipanti alla annuale festa della Lega – nella quale è stato mandato a tutto schermo un promo del film –, i complimenti vivissimi dei rappresentanti del Carroccio e Pdl presenti al Castello Sforzesco, assieme alla pittoresca banda di cornamuse bergamasche, la "Berghem Bagatt", e addirittura con la confessione shock da parte di un emozionato Ignazio La Russa che ha rivelato agli attoniti astanti di aver interpretato anche lui, giovane virgulto siculo, Alberto da Giussano nel corso d’una recita scolastica. A parte tutto questo teatrino, tanto rumore per niente.
Perché neanche il tentativo di metempsicosi del 'Senatur' riesce nell'intento di chiamare all'adunata nei cinema quanti più legaioli possibile. "Il Barbarossa oggi non è una persona, ma è uno Stato: l'Italia centralista" – afferma – "e il nuovo Alberto da Giussano sono io". Insomma, un Bossi uno e trino, capace di essere contemporaneamente se stesso – il Senatùr da tutti acclamato -, Alberto da Giussano ed anche l'odiatissimo Barbarossa, essendo ancora, malauguratamente per lui e per noi, un ministro della Repubblica italiana «una e indivisibile» (art. 5), che ha prestato solenne giuramento di fedeltà alla Costituzione.
In un’intervista a “Famiglia Cristiana”, del suo "Barbarossa" il nostro Martinelli dice: "È un pezzo della nostra storia che pochi conoscono. E a me preme raccontare storie vere. Sulla mia scrivania ci sono montagne di documenti preparatori per girare film sulla tragedia del Moby Prince, sul dramma di Ustica, sulla morte di Mussolini".
E speriamo che sulla sua scrivania rimangano, questi benedetti documenti, se il risultato sarà anche solo lontano parente al 'Barbarossa', per ora campione soltanto di infedeltà storica. Perché dopo pochi fotogrammi del film si comprende subito che, fra "i pochi conoscitori della vicenda storica", Renzo Martinelli non c'è proprio.
Già un film che dovrebbe essere un'esaltazione della padanità – realizzato, fra l'altro, da uno che è favorevole all'idea di prendere le impronte digitali ai bambini immigrati perchè "vorrei sapere chi viene a casa mia" - ma che, invece, viene girato totalmente in Romania con tecnici e comparse rumene, e che ha come protagonisti un israeliano (Raz Degan) ed una polacca (Kasia Smutiniak), parte, sul piano della coerenza, certamente malissimo.
Per non parlare, poi, dello straordinario labor limae per cui il nostro regista-campanaccio ed il suo consulente storico Federico Rossi di Marignano – autore del saggio "Federico Barbarossa e Beatrice di Borgogna. Re e regina d'Italia", edito da Mondadori, guarda caso –, si sono distinti nella ricostruzione storica degli eventi.
In primo luogo, Alberto da Giussano non è mai esistito. O meglio, un Alberto da Giussano è sicuramente vissuto al tempo della Lega Lombarda, ma non se ne trovano tracce né negli atti della famiglia Giussani di Milano, né nelle cronache coeve alla battaglia di Legnano. La leggenda dell'Alberto da Giussano condottiero è senza dubbio da ricondursi alla cronaca che il frate domenicano Galvano Fiamma - vissuto fra il XIII e il XIV - scrisse per compiacere il signore dell'epoca Galeazzo Visconti, e a cui serviva una personalità milanese – reale o fittizia non aveva importanza - da contrapporre a Federico I Hohenstaufen, volendo arricchire d'eroismo la vicenda della battaglia. La "Cronica Galvaniana" fu poi edita nel 1869 da Ceruti in "Miscellanea di storia italiana". Ed è probabilmente grazie alla conoscenza di quest’opera che Giosuè Carducci, poeta nazionale, affascinato dalla figura di Alberto da Giussano, decise nel 1879 di farne uno dei protagonisti della sua celebre opera "Della Canzone di Legnano". Così come Garibaldi - lo stesso "stronzo" nizzardo di cui Bossi parla tanto – incoraggiò il comune di Legnano ad erigere una statua alla figura del comandante della Compagnia della Morte "per ricordare uno dei fasti più gloriosi della nostra storia, in cui ebbe parte tutta Italia. Il giorno in cui l'Italia avrà bisogno di noi, noi ci saremo tutti, non mancherà nessuno. Figli dei vincitori di Legnano, ove i nostri antenati menarono bastonate agli austriaci, noi non dobbiamo essere meno prodi di loro. Quando noi faremo quanto i nostri padri fecero a Legnano, nessuno straniero resterà fra noi".
L'effigie della statua di Alberto da Giussano campeggia ora al centro dello stemma della Lega Nord. E ci pare ridicolo che un simbolo del Risorgimento italiano, dell'unità e dell'identità nazionale sia stato scippato brutalmente dai legaioli, sempre talmente ignoranti da non sapere neppure la provenienza del vessillo sotto il quale militano. Ma la figura di Alberto da Giussano resta ancora così improbabile che Giuseppe Verdi – un patriota attento alla veridicità storica – nella sua opera "La battaglia di Legnano" non cita, né fa riferimento minimamente ad Alberto da Giussano, fantomatico condottiero milanese.
Per non parlare poi della assoluta mancanza di rispetto da parte delle due già citate brillanti menti padane per il quadro politico degli avvenimenti in cui si colloca la vicenda storica scarabocchiata, più che abbozzata, nel film. Perché dietro alle tante grida milanesi di "Libertà!" – una pappagallesca via di mezzo fra le cinematografiche urla di battaglia dei "300" di Leonida e il "Freedom!" di William Wallace – non si parla mai né di guelfi, né di ghibellini. Eppure la vicenda storico-politica del Barbarossa – quello vero – ruota tutta attorno a questo insanabile conflitto fra le due fazioni.
Federico I Hohenstaufen, ghibellino per parte di padre e guelfo per parte di madre, fu eletto imperatore nel 1152, destinato a porre fine al conflitto fra le potenti famiglie dei Welfen – i guelfi, appunto - e gli Hohenstaufen – i ghibellini, dal castello di Waiblingen. Per pacificarsi con i guelfi cedette al capo della loro coalizione, il cugino Enrico il Leone, Sassonia e Baviera, regioni settentrionali ed orientali, quasi a manifestare la volontà di ricostituire il Sacro Romano Impero puntando alla discesa in Italia. Pacificata la Germania, era intenzionato a volgere verso Roma, insorta contro il papa, spodestato, ed in cui era stato proclamato il governo comunale da parte di Arnaldo da Brescia; verso i comuni del nord Italia minacciati dalla smania d'espansione di Milano; e verso l'Italia meridionale, in mano ai normanni. Nel 1154 convocò una dieta a Roncaglia nella quale chiese che gli fossero versati i tributi che gli spettavano, in quanto sovrano, e che i comuni avevano smesso di pagare dopo le violente lotte per l'indipendenza. Dopo aver restituito ad Adriano IV il suolo pontificio, nel giugno del 1155 fu dallo stesso incoronato imperatore. Nonostante l'aiuto concessogli, il papa, temendo che l'estensione del dominio germanico potesse intaccare nuovamente il suo potere temporale, nel 1156 si accordò a Benevento coi Normanni, acerrimi rivali del Barbarossa. Questo, dopo aver annunciato la rinascita del Sacro Romano Impero, nel 1158 emanò la Costitutio de regalibus, che stabiliva che tutto ciò che spettava all'imperatore, a lui doveva tornare. Tornarono anni di guerra, che culminarono con la resa di Crema e la distruzione di Milano nel 1162.
Nel 1167 si formò la Lega lombarda, lega difensiva che combatteva contro le imposizioni di Roncaglia. Non si trattava, come sostenuto invero anche da una certa retorica risorgimentale, di un moto di riscossa nazionale contro il Tedesco, ma di un movimento per la difesa delle casse comunali dalle pretese fiscali di un potere lontano, quello imperiale. Le autonomie comunali in ogni caso non erano a rischio, poiché l’imperatore aveva poco interesse ad intromettersi nelle beghe della politica locale. Morto Adriano IV, Alessandro III, il nuovo papa, si fece campione di questo movimento, timoroso che il potere imperiale potesse divenire tanto forte da condizionare la libertà d’azione e l’influenza della politica papale. Grazie alla sua autorità ed alla sua vigorosa azione si unirono dunque in lega i normanni di Sicilia, i Bizantini ed i Veneziani, minacciati dall'ingerenza del Barbarossa. Nella battaglia di Legnano del 29 maggio 1176 Federico I fu sopraffatto e nel 1177 si riconciliò col papa riconoscendolo capo legittimo della Chiesa. Con la Pace di Costanza l'imperatore riconobbe ai comuni molte esenzioni fiscali, ma si riservò il diritto di convalidare le elezioni cittadine.
Tutto ciò che nel film è differente da quanto succintamente esposto è spudoratamente falso. Enrico il Leone non fu un traditore, Federico non si "scelse il papa", la lega non fu solo lombarda, e non furono in soli novecento coraggiosi difensori del "Carroccio" a sconfiggere l'imperatore anche se, certo, i bergamaschi ebbero un loro peso nella "Compagnia della morte", come l’ebbero, tuttavia, anche nell’impresa dei mille di Garibaldi. Già perché si dimentica troppo speso che Bergamo è la "città dei mille". La storia infatti, come la vita, non è mai a senso unico. Più di tutto, però, la partita vera la giocò il papato che volle difendere strenuamente la propria politica e le prerogative temporali. Ed è proprio questo profilo che, forse, dovrebbe attrarre l’attenzione del lettore attento alla storia. Il papato è stato sempre sensibile al tema delle autonomie locali, comunali, perché è in questo contesto che il suo potere si è potuto affermare ed accrescere, ed è per questo che è stato sempre fiero avversario di ogni progetto unitario e nazionale. Anche le proposte di un cattolico moderato come Gioberti per una confederazione di stati italiani sotto la guida della Chiesa, furono accolte con grande sospetto e freddezza dal papato che se ne disfece non appena le condizioni politiche lo permisero.
Forse è così che può comprendersi la singolare lettura che Federico Rossi di Marignano – che ha ispirato Martinelli – fa di questi avvenimenti storici, riportati spesso in maniera parziale e poco verosimile.
La critica cinematografica, poi, ha messo unanimemente in risalto la debolezza dell’opera di Martinelli dal punto di vista strettamente tecnico – come ad esempio le riprese ossessive dei cavalli, le scene confuse e deludenti della battaglia, la ricostruzione approssimativa della Milano comunale. Insomma, il Senatur è proprio sfigato: almeno Hitler aveva la Riefenstahl.»
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