Querele e intercettazioni. Perché la verità non diventi un lusso.
Rassegna stampa - Corriere della Sera, Luigi Ferrarella, 26 settembre 2009.
I giornalisti che avvertono sempre maggiori ostacoli all`esercizio della libertà di stampa vengono bruscamente liquidati come diffamatori piagnucolanti, che prima devastano le vite altrui e poi pretendono immunità per non ripagare i danni alla reputazione delle persone e aziende che li querelano (nel penale) o chiedono ingenti risarcimenti (nel civile).
Non è un caso. Sia perché per alcuni «cantori» della libertà di stampa è davvero così. Sia - soprattutto - perché è il prezzo, salato, che l'intera categoria paga per aver lasciato che dilagasse il contagio di prassi giornalistiche imprecise e superficiali, obliquamente omissive o dolosamente inveritiere, indulgenti verso lo «spaccio» di falsità in non sempre «modica quantità», a volte sconfinanti nel manganello a mezzo stampa per colpire l'avversario politico o economico dell'editore. Con il risultato che «quando un organo di informazione mente, avvelena la collettività, e anche gli articoli degli altri giornali diventano sospetti - anticipava già nel 1981 il mea culpa del direttore del Washington Post per un falso scoop -: il lettore colpito da una notizia si sente autorizzato a valutarla con sospetto, i fatti non soltanto vengono messi in discussione ma perdono anche il loro valore di realtà». Parabola che, in salsa italiana, affiorava sin nella parodia che nel 1992 il comico Loche faceva del giornalista «truffa-truffa-ambiguità» che «pare-sembra forse-non garantisco verità».
Ma ora anche le querele e le richieste di danni hanno perso il loro valore di verità. Sempre meno strumenti di ristoro della reputazione calpestata dall'errore colpevole o dal dolo scientifico del giornalista, le azioni legali diventano così tante e sono spesso talmente infondate da essere piuttosto brandite come uno strumento di intimidazione sul cronista («anche se stavolta hai scritto giusto, attento a riscrivere la prossima volta») e sull'editore, alle prese con rischi di risarcimenti e con spese di difesa tali da mettere in ginocchio il bilancio di un'azienda editoriale medio-piccola.
Si dirà: c'è un giudice, e se il giornalista sbaglia, è giusto che vada incontro a pena pecuniaria, reclusione, riparazione pecuniaria, risarcimento dei danni morali e patrimoniali, pagamento delle spese di giudizio. Certo. Solo che la partita, da quando è divenuto massiccio l'indiscriminato ricorso alle azioni legali, non è più ad armi pari. Non solo perché il giornalista, per non essere condannato, deve dimostrare non soltanto che ha scritto il vero, ma anche che esisteva un interesse pubblico a conoscerlo, e che la forma non era inutilmente aggressiva. Non solo perché, se diffonde dati personali veri ma senza i quali la notizia sarebbe stata ugualmente completa ed esauriente, incorre nei fulmini del Garante della privacy, del giudice penale, del giudice civile, dell'Ordine. Non solo perché, quando pubblica notizie vere tratte da atti giudiziari non più segreti in quanto già noti alle parti, è schiacciato nella tenaglia per cui se le riporta con precisione letterale si vede denunciare per aver commesso uno specifico reato, mentre se si limita a riassumerle si sente accusare di non essere stato abbastanza preciso da evitare la diffamazione. A truccare la partita, invece, non è l'azione legale in sé, ma il fatto che chi la intenta contro il giornalista, a differenza sua, non rischi mai e non paghi alcunché, nemmeno se il giudice accerta che le doglianze erano totalmente pretestuose: nel civile il giornalista recupera al più le spese, nel penale l'assoluzione «perché il fatto non costituisce reato» gli impedisce di denunciare per calunnia il querelante e ottenere i danni.
Il sacrosanto diritto dei diffamati (quando siano davvero tali) di rivalersi sul giornalista non deve essere intaccato. Ma forse una modifica normativa potrebbe conciliarlo con la non compressione dell'attività giornalistica: querela pure chi vuoi e per quello che vuoi, ma se poi la causa risulta del tutto campata per aria, allora paghi al giornale denunciato almeno una minima percentuale (anche solo il 10%?) delle maxicifre che pretendevi come risarcimento.
Liberi di scrivere, liberi di querelare. Ma responsabili entrambi. Nella trasparenza. Il contrario del terreno su cui muove il disegno di legge sulle intercettazioni che, dietro il pretesto della tutela della privacy, estende l'area del segreto sugli atti d'indagine, e di ogni «pubblicazione arbitraria» (da 2.500 a 5.000 euro per il giornalista) fa poi rispondere anche l'editore a titolo di responsabilità amministrativa della persona giuridica,per i reati commessi dai dipendenti nell'interesse aziendale (legge 231/2001). Tradotto? A ogni dettagliata pubblicazione di un atto vero, non più coperto da segreto investigativo e riportato in maniera corretta, l'editore pagherà da un minimo di 25 mila 8oo a un massimo di 465 mila euro per le testate nazionali. Il modo migliore per fare entrare «il padrone in redazione», visto che a quel punto la decisione editoriale sul «se» e «come» pubblicare una notizia sfuggirà all'autonomia (laddove esercitata) del tandem direttore-giornalisti, per consegnare l'ultima parola all'editore destinato a pagarne conseguenze tali da far chiudere in breve l'azienda.
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