I due articoli sono introdotti da un occhiello significativo dell'antagonismo tra il Prc e la Lega su fondati motivi: Il recupero delle nostre radici così come è stato progettato dalla Lega avviene attraverso una "propaganda dell'esclusione"; e da un titolo che fa il punto sull'obiettivo bossiano dell'uso dell'«arma» dialetto: Il maligno intento di recuperare la tradizione per marcare la differenza, anche linguistica.
Veniamo al primo articolo di Barbara Beneforti.
Ho nel cassetto una laurea in dialettologia italiana, rispolverata soltanto per alcune rare pubblicazioni locali. Tuttavia la boria dialettofona sbandierata in questi giorni dai boss leghisti mi incoraggia ad esprimere un'opinione sulla questione dell'insegnamento dei dialetti. La Lega non solleva un problema nuovo. L'Italia ha una storia secolare di frammentazione linguistica, tanto che al momento dell'Unità l'italiano non era parlato che da un'esigua minoranza di popolazione agiata. Per agevolarne l'apprendimento, i programmi scolastici inviatavano i maestri ad evitare le espressioni dialettali e il fascismo esasperò questa politica. Dopo, complici i movimenti migratori interni e la diffusione della tv, le stesse famiglie proteggevano i figli dal dialetto, temendo gli insuccessi scolastici.
Solo negli anni '60 e '70 ci fu una valorizzazione dei dialetti nei loro aspetti storici e culturali, come strumento per l'insegnamento dell'italiano e come oggetto di studio interdisciplinare. Un interesse sacrosanto, poiché l'insegnamento dell'italiano trascurava la realtà di partenza degli alunni e proponeva una lingua ingessata, studiata sui libri ma con la quale le nuove classi sociali finalmente affacciatesi nelle aule non erano a proprio agio nella vita quotidiana. Era un interesse che si accompagnava a un tentativo di riscatto delle classi subalterne, che dette luogo a un uso del dialetto in letteratura e in musica, lungo un filone fortunatamente mai esaurito, che va - pescando a caso - da Buttitta a Camilleri, da De André fino al recentemente scomparso Ivan Della Mea. Poi, negli ultimi decenni, l'uso dei dialetti è diminuito, sono entrate nel sistema italofono altre lingue, tv e internet hanno moltiplicato le varietà linguistiche con le quali veniamo a contatto. Ecco dunque le proposte di "salvezza" dei dialetti, ma con vari problemi: quale dialetto insegnare, locale o regionale? Di quali indicatori deve tener conto la scelta degli insegnanti, la nascita, il Dna, il titolo di studio? Un alunno che cambia casa studia il veneziano fino alla seconda e il romanesco dalla terza in poi? E così via.
Ora la Lega innalza barriere attorno ai singoli localismi, più o meno geograficamente estesi. Vanno in questa direzione il pacchetto sicurezza con la criminalizzazione di ogni presunta differenza e devianza, il regionalismo fiscale, le gabbie salariali, nonché il progetto di salvaguardia dei dialetti, con il maligno intento di recuperare la tradizione al solo fine di marcare una differenza, un "altro da noi", anche linguisticamente estraneo. La minoranza cerca di proteggersi, conservando i propri particolarismi e isolandosi dagli altri. La causa di molti conflitti sta nel semplice fatto che "gli altri" sono "diversi", un po' come nel racconto biblico del libro dei Giudici, dove i galaditi uccisero 42 mila efraimiti riconoscendoli dal modo con cui pronunciavano la parola scìbbolet. La cosa noiosa di questa alzata d'ingegno della Lega è la reiterazione del danno, uno sfacciato martellamento di proposte malsane. Allora è meglio ribadire che la scuola italiana, quanto meno prima del ciclone-Gelmini, era una scuola decente, dove la didattica della lingua cercava di valorizzare il patrimonio locale, ma insegnando a padroneggiare la più ampia gamma possibile di varietà linguistiche, dall'italiano formale fino a quelle colloquiali e dialettali che ciascuno di noi ha il piacere di utilizzare quando parla con i propri amici. Considerando la varietà come arricchimento, in un quadro in cui si intrecciano fatti linguistici, sociali e culturali. All'interno di questo contesto, ogni insegnante della mia città, mentre insegna che strumento meraviglioso può essere ogni lingua, dovrà tener conto che da noi la parola cannella significa rubinetto e che granata significa scopa, e che tutte quante queste parole fanno parte del nostro patrimonio, cosa che ci consente di scegliere quella più adeguata per ogni specifico atto comunicativo. Mi pare che in questa estate narcotizzata stiamo prestando poca attenzione al fatto che allorché il recupero delle nostre radici non avviene con l'intento di costruire un saldo basamento per affrontare le sfide del presente, ma avviene attraverso una "propaganda dell'esclusione", a questo deve essere opposta un'alternativa sensata, combattendo con ogni forza civile e morale perché, senza che ce ne accorgiamo, quella popaganda dell'esclusione non si trasformi in pogrom.
Statalisti, centralisti e patriottici contro la Lega nessuna esitazione.
Da tempo, in realtà, dietro le provocazioni di Bossi, Calderoli, Maroni & Co., affiora un disegno, che, come ha ricordato il vecchio saggio Carlo Azeglio Ciampi, è semplicemente quello della dis-unità d'Italia. A cominciare dal federalismo, come lo propone, anzi lo impone ai recalcitranti alleati, la Lega Nord (è ora di smettere di parlare semplicemente di "Lega", nome nobile per cose nobili: si pensi alle leghe contadine alle origini del movimento socialista italiano: bisogna aggiungere quella specificazione regionale, cosa a cui del resto gli adepti tengono più di tutto. Nordisti, bisogna chiamarli, piuttosto!). Il federalismo nasce, di regola, come un prodotto di federazione, appunto, ossia di unione tra entità locali, non nasce, come finge di intenderlo Bossi, come uno strumento di frammentazione. Ci si federa, insomma, tra entità che sono distinte, per difendersi meglio, per produrre maggior reddito e dunque benessere per tutti; non si crea, invece, la federazione da una entità unica, per spezzettamento della stessa. Dunque, il federalismo, a cui colpevolmente la quasi totalità dello schieramento politico nazionale si piegò, facendo una specie di gara a chi per prima lo aveva proposto, è una proposta sbagliata e perversa. Antinazionale. E, necessariamente, posticcia, e antieconomica. Perché non lo si dice, a chiare lettere? Perché non si oppone un necessario statalismo, a questa sciagurata versione del "federalismo"?
Acquiescenti, in larga parte, verso il federalismo antiunitario, politici e opinionisti ora sorridono davanti alle ultime boutades dei signor Nessuno della Lega Nord, (ir)resistibilmente ascesi a sogli ministeriali o di guide parlamentari. E non si rendono conto che dietro le trovate caserecce, e non di rado pecorecce delle "camicie verdi" c'è la teorizzazione di un Paese egoista e menefreghista, un Paese dove la gente "si fa i fatti suoi", dove le tasse è meglio non pagarle e se proprio si debbono pagare, bisogna che vengano non redistribuite a tutti i cittadini, sotto forma di servizi di cui si avvantaggino in primo luogo i meno abbienti, i più disagiati; no, devono essere "restituite" a chi le paga, nel territorio dove egli le versa. Una concezione del fisco che farebbe rabbrividire un qualsiasi economista liberale. Ma perché gli economisti liberali, o i liberali economisti e non, tacciono? O la mettono sul ridere? Dietro la proposta del test dialettale, o di conoscenza della storia locale, o della introduzione dell'insegnamento e dello studio del dialetto (pardon: degli "idiomi locali"), dietro il grottesco attacco all'Inno di Mameli e dietro le sciocchezze sulle bandiere regionali (con altrettanti inni!), dietro le feste padane, dietro le gare sportive o i concorsi per Miss questo e Miss quello, all'insegna della stessa pseudo-nazione padana, c'è il progetto di spaccare l'Italia.
È un'idea poco originale, altre volte presentatasi nella storia. Si pensi alla secessione del Katanga, nei primi anni Sessanta del ‘900, che provocò una guerra e molti lutti: era la zona più ricca, per via delle miniere diamantifere, del Congo. E sotto sollecitazione esterna (compagnie franco-belghe dei diamanti), si arrivò a creare un effimero Stato indipendente. Fu proprio in quella vicenda che il primo ministro della neonata Repubblica democratica del Congo, Patrice Lumumba, liberamente eletto, fu rapito e ucciso (per ordine diretto di Eishenower, si è scoperto ora). La secessione aveva un chiaro significato economico, di riduzione dei beneficiari della ricchezza, come si sta tentando ora in Bolivia, sempre su sollecitazioni di multinazionali; e di controllo sulle sue fonti. Ma ogni secessione è miope, in realtà; riducendo i beneficiari della ricchezza prodotta in loco, si riduce anche il mercato. Se il Nord abbandona "la zavorra" del Sud, come andranno le sue esportazioni? Come andrà il turismo? Scacciati gli insegnanti e gli impiegati meridionali, come funzioneranno scuole e burocrazia? E così via.
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