Rassegna stampa.
La Innse di Lambrate - assurta in questi giorni alla ribalta della cronaca per la lotta dei suoi 49 lavoratori - è l’ultimo segmento del grande complesso industriale Innocenti sopravvissuto al processo di deindustrializzazione dell’ultimo quindicennio. Il cav. Ferdinando Innocenti lo aveva costruito nel 1933 all’estrema periferia est di Milano per fabbricarvi tubi di acciaio, in particolare strutture per ponteggi edili, passerelle, tribune, palchi. Ma l’inizio della seconda guerra mondiale indusse i proprietari a una drastica riconversione produttiva per partecipare alle laute commesse belliche: l’Innocenti diventò così uno dei più efficienti stabilimenti per produrre bombe e proiettili per esercito, marina e aviazione. Le maestranze, inferiori al migliaio nel 1939, salirono a 2.000 nel 1940 e raggiunsero i 7.000 nel 1943. Ma, dopo l’8 settembre 1943, molti operai non furono più disposti ad assecondare un indirizzo produttivo che prolungava la guerra e favoriva l’occupante nazista. L’Innocenti diventò pertanto uno degli stabilimenti in cui fu più attiva la resistenza. Una lapide ancora presente oggi all’interno della fabbrica ricorda la deportazione nel marzo 1944 di 12 lavoratori della Innocenti, in occasione del grande sciopero operaio nel triangolo industriale del Nord. Quelli ricordati nella lapide non furono gli unici deportati, ma furono quelli che dal lager non tornarono. Tra di loro un lodigiano, Luigi (“Gino”) Marzagalli, che morì nel lager di Mauthausen il 22 aprile 1945. Per la verità storica Marzagalli non fu arrestato a seguito dello sciopero del 1944, bensì nel novembre 1943 e rimase detenuto a S. Vittore per alcuni mesi prima di prendere la via della deportazione.
Come non pensare a questo retroterra storico di fronte alla scelta delle maestranze della Innse di difendere la dignità di se stessi e del proprio lavoro? Questa lotta compendia tutte le lotte recedenti, perché è l’estremo tentativo di affermare che non tutto deve essere sottoposto alla legge del profitto puramente speculativo. L’Innse non è un’azienda decotta e senza prospettive di mercato, non è composta da lavoratori che lottano per spillare qualche migliaia di euro in più di liquidazione a chi la vuole chiudere: sono lavoratori che chiedono di poter continuare a lavorare, perché dal lavoro traggono dignità per sé e per le proprie famiglie. Ma attorno all’Innse si è addensata una bieca speculazione nella prospettiva di futuri lucrosissimi investimenti di edilizia residenziale e terziaria.
Gli operai che presidiano la fabbrica da quindici mesi impedendo lo smantellamento dei macchinari sono da ammirare per la tenacia con cui hanno resistito, nonostante siano stati spesso lasciati soli. Quella lapide che ricorda i lavoratori deportati nel 1944 ha però costitutito per loro un punto di riferimento, un orientamento nel cammino di resistenza intrapreso. Me lo hanno ribadito nel colloquio che ho avuto con alcuni di loro al presidio davanti al cancello chiuso della Innse e allo schieramento di polizia che impedisce l’accesso: ero andato per portare la solidarietà dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza, in ricordo della lotta resistenziale del 1943-45.
Oltretutto tra i 49 operai della Innse c’è pure un lodigiano, Massimo Merlo, che appartiene al manipolo di lavoratori che sono perfino riusciti scaltramente a entrare nello stabilimento, eludendo la sorveglianza di decine di agenti, e da alcuni giorni vivono barricati su un carro ponte sospeso a dodici metri dal suolo.
Una società, attanagliata dalla crisi economica, in cui i posti di lavoro si vanno perdendo a centinaia di migliaia, non può assistere indifferente al sopruso di chi vuole impedire a degli operai di continuare semplicemente a fare il proprio lavoro. Mantenere ulteriormente questi lavoratori dell’Innse nel limbo della “mobilità” assistita un ridotto salario in cambio dell’inattività significa umiliare delle persone che hanno dimostrato un coraggio e una tenacia straordinari, pagando un alto prezzo in termini di tenuta fisica e psicologica.
Nella recente enciclica sociale Benedetto XVI, dopo aver affermato che “l’estromissione dal lavoro per lungo tempo oppure la dipendenza prolungata dall’assistenza pubblica o privata minano la libertà e la creatività della persona e i suoi rapporti familiari e sociali con forti sofferenze sul piano psicologico e spirituale” , conclude che “il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo” (“Caritas in veritate”, n. 21).
La vicenda della Innse può essere risolta soltanto se la società civile non lascia isolati questi lavoratori, così che i proprietari della superficie e dell’azienda rinuncino al proprio esclusivo profitto in nome del quale calpestano i diritti degli altri portatori di interessi, in questo caso i lavoratori. Dobbiamo gratitudine a questi operai che, con la loro strenua resistenza, ci ricordano che la valorizzazione della persona resta un principio imprescindibile di umanità e di civiltà.
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