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sabato 8 agosto 2009

Innse, che le istituzioni smettano di giocare a scaricabarile

La moglie è preoccupata: «Lì dentro fa troppo caldo».
Rassegna stampa - Il Cittadino di oggi.

Anche lei non dorme da tre giorni. Ha un letto a disposizione, al posto dei tubi. Però si sente spaccata in due. Vorrebbe essere lì, al presidio della Innse, con i compagni di lavoro di suo marito. Ma deve anche lavorare (almeno uno in famiglia) e occuparsi dei figli. Cristina Vercellone, giornalista, moglie di Massimo Merlo, è affranta.


Suo marito è sul carroponte, lei come si sente?
«Divisa. Vorrei essere lì, con i compagni di lavoro di Massimo, far sentire la mia voce. Invece devo stare qua a lavorare (almeno uno in famiglia), a coccolare i nostri bambini».
È preoccupata?
«Sì, sono preoccupata perché hanno dormito su quella gru per tre notti e si avviano a passare lì anche la quarta (quella tra ieri e oggi, ndr). Fa un caldo atroce in quel capannone a pochi centimetri dal tetto. È vero che gli portano da mangiare e da bere, ma non hanno una doccia, devono fare la pipì nelle bottiglie. E poi sono tesi e stanchi. I loro nervi terranno?».
Cosa vuole dire a suo marito?
«Che noi siamo con lui. Lo sosteniamo in questa battaglia».
I suoi figli cosa dicono?
«Sono abituati alle lotte operaie del babbo. È da un anno che questa storia va avanti. Hanno capito, a modo loro, che quella di Massimo è una battaglia giusta».
È duro sopportare?
«Sì. Era a cavallo tra maggio e giugno dello scorso anno. Hanno chiamato mio marito avvisandolo di una lettera dell’azienda che dichiarava la cessata attività. Lui e gli altri rappresentanti delle Rsu non ne sapevano niente. È partito un giro di telefonate per avvisare gli altri è salito in macchina ed è iniziata la lotta. Si sono organizzati e hanno continuato a lavorare in autogestione per alcuni mesi, con gli stessi turni di prima, senza stipendio ovviamente, anche se il proprietario Silvano Genta ha preso i soldi dei pezzi usciti dall’officina. Hanno prodotto quelli che avevano nel capannone e hanno preso nuove commesse. Poi la fabbrica è stata messa sotto sequestro, hanno dovuto sgomberare ed è iniziato il presidio, giorno, notte, sabato e domenica. Non ci sono più stati giorni di vacanza insieme per la nostra famiglia».
Non ci sono stati momenti di tensione tra voi?
«Sì, ovvio, ma poi si capisce e si va avanti. Quando è arrivata la lettera dovevamo partire per il mare, non è venuto, ma ha insistito perché portassi almeno i bambini. E la stessa cosa, lo sento, succederà anche quest’anno. La sua mente non si schioda da lì, dal presidio, dalla lotta operaia. Ogni volta che sale in macchina lo fa per andare in via Rubattino. Qualche volta cambia meta, ma sempre per la fabbrica, per raccontare la storia di resistenza, condividerla con chi vive la stessa situazione».
Pensa che ne valga la pena?
«Ne sono convinta. È difficile trovare uomini così, come lui e certi suoi compagni».
Quale messaggio vuole lanciare alle istituzioni?
«Si muovano, blocchino lo smantellamento dei macchinari: nessuno acquisterà un capannone vuoto. Devono dare il tempo e il modo alla trattativa di svilupparsi. Speculare sulla pelle degli operai e sul futuro produttivo del nostro Paese non è un reato? Chiedo che le istituzioni si mettano una mano sulla coscienza, smettano di giocare allo scaricabarile, lascino che mio marito torni a casa a farsi abbracciare».

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