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sabato 19 settembre 2009

Capire il problema ampliando l'ottica

L'analisi.
L'elefante e le formiche.

Rassegna stampa - La Repubblica, Bernardo Valli, 19 settembre 2009.

Non basta guardare a quel che accade in Afghanistan per afferrare tutti i risvolti del conflitto. Quest'ultimo deve essere osservato da almeno due punti di vista. Si deve ovviamente studiare, anzitutto, la situazione sul terreno, entro i confini del Paese. Un paese indomito, o incontrollabile, nel senso che tante potenze straniere vi hanno lasciato le penne, negli ultimi secoli, nel vano tentativo di sottometterlo, o di imporvi, come adesso, le regole di un ordine internazionale. Al tempo stesso va tenuta d'occhio la simultanea, ampia azione politico-diplomatica destinata a rendere possibile quel che sul solo piano militare è di difficile soluzione. I due punti di osservazione finiscono col sovrapporsi; e comunque, nell'attesa di esiti non ancora immaginabili, già da adesso non possono essere disgiunti.
È significativo l'atteggiamento di Barak Obama per capire i dubbi, le perplessità della superpotenza che guida il conflitto. Il presidente non è venuto meno al principio di una «war of necessity», ossia di una guerra irrinunciabile per gli interessi americani, e occidentali in generale, tenuto conto della indispensabile stabilità della regione, infestata di terroristi e jihadisti, tra i quali i responsabili dell'11 settembre. Una regione in cui vi sono due grandi Paesi, in permanente tensione e dotati di armi atomiche, quali sono l'Unione Indiana e il Pakistan. Quest'ultimo contagiato dai taliban e ospitante i residui di Al Qaeda. Si dirà che allargando, con le speculazioni, un'area di crisi si sconfina spesso nella fantapolitica. È vero, ma la storia dell'Asia centrale non è un'opinione.
Senza venir meno al principio della «war of necessity», Barak Obama esita adesso a soddisfare le esigenze dei militari, espresse dall'ammiraglio Mike Mullen, capo di stato maggiore generale delle forze armate americane. Mullen ha fatto capire con chiarezza che il generale Stanley A. McChrystal, comandante delle truppe Nato in Afghanistan, non sarà nelle condizioni dí promuovere una efficace azione contro i taliban, sempre più aggressivi, se non sarà confortato da un cospicuo rinforzo di uomini e di mezzi, prima o al più tardi entro l'inverno. Obama ha preso tempo. Ha detto di non voler affrettare la decisione. Vuol conoscere prima la nuova strategia che i responsabili militari e civili vogliono applicare.
Nessun precipitoso invio di altre truppe. A frenarlo, prima di ampliare il coinvolgimento americano, contribuiscono le perplessità sempre più evidenti tra gli stessi democratici, e quelle altrettanto evidenti nell'opinione pubblica, sempre meno favorevole a un conflitto che si dilunga troppo, e che ha perduto di vista l'obiettivo originale. Nel 2001 gli americani sbarcarono in Afghanistan all'inseguimento di Al Qaeda, alla caccia dei mandanti, dei complici dell'11 settembre. Ma adesso Al Qaeda, secondo gli uomini dell'intelligence disposti a parlare, non sarebbe più in Afghanistan. Quel che resta dell'organizzazione di Bin Laden si troverebbe in Pakistan. Il crampo di Obama è di tipo vietnamita.
Senza stabilire un nesso tra i due conflitti egli ha nella memoria la drammatica scalata dei suoi predecessori, in particolare di Lyndon Johnson, che negli anni Sessanta riversarono via via mezzo milione di uomini nella penisola del Sud Est asiatico (dove all'inizio c'erano soltanto esperti e consiglieri), cadendo nella trappola delle guerre asimmetriche. Guerre in cui gli insorti mal armati ma con radici nella popolazione possono tenere in scacco eserciti stranieri, dotati di mezzi sofisticati. Non li sconfiggono militarmente ma li riducono al ruolo di elefanti che non riescono a schiacciare le formiche annidate nelle pieghe del terreno, vale a dire, appunto, della popolazione.
Un'intelligente capace di spiare guerriglieri e terroristi, ma anche di studiare la società, in tutti i suoi risvolti, piscologici, religiosi, economici, conta più degli squadroni corazzati. O dei reparti che vivono come nel «deserto dei tartari».
Siamo comunque ben lontani dal numero di GI che componevano l'armata americana, ritiratasi dal Vietnam nei primi giorni del '73, lasciandosi alle spalle esperti poi evacuati, nell'aprile del '75, da Saigon, con drammatici voli di elicotteri. Su uno degli ultimi decollati dal tetto dell'ambasciata c`era il capo missione Graham, con la bandiera a stelle e a striscie sotto il braccio.
Entro la fine di questo mese ci saranno in Afghanistan circa 68 mila americani e 39 mila altri soldati della Nato (tra i quali gli italiani). Appena entrato alla Casa Bianca, dopo avere deplorato l'iniziativa di Bush jr che aveva dirottato in Iraq non pochi reparti operanti in Afghanistan, Obama ha deciso un'operazione in senso inverso, mandando 17 mila 500 uomini da Baghdad a Kabul. E con loro quattromila militari incaricati di addestrare esercito e polizia afgani. Un rinforzo che non ha dato, per ora, gli effetti sperati. Da qui la cautela del presidente.
E adesso un'occhiata all'avvenimento politico diplomatico in programma il 1° ottobre, lontano dall'Afghanistan, ma con possibili conseguenze dirette su quel conflitto. Tra neppure un paio di settimane cominciano i colloqui tra l'Iran e il P5 + 1, vale a dire i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e in più la Germania. Di fatto, senza tenere conto dell'opposizione dei neo-conservatori di Washington e del governo di Gerusalemme, ostili al dialogo e favorevoli alle sanzioni contro Teheran, gli americani si siedono allo stesso tavolo degli iraniani. Quest'ultimi hanno posto come condizione che la questione nucleare non debba essere trattata. Ma lo sarà. È inevitabile. Mohammed El Baradei, responsabile dell'Agenzia atomica (IAEA) di Vienna, e veterano della vicenda, lo sa benissimo. Per questo ha accolto con entusiasmo la decisione americana di avviare un dialogo «senza precondizioni e sulla base del reciproco rispetto».
L'offensiva diplomatica di Obama verso il mondo musulmano passa obbligatoriamente per l'Iran. La rielezione contestata, forzata di Ahmedinejad è stato un contrattempo. È stata giustamente condannata, e resta come una macchia, una delle tante sul regime teocratico, ma Teheran è un interlocutore indispensabile per disinnescare la situazione mediorientale. Ed anche per l'Asia centrale. In Afghanistan l'Iran esercita un'influenza crescente, sul piano militare, economico, politico e religioso.
Pur avendo costanti, intensi rapporti con il presidente Karzai (che è stato in visita ufficiale a Teheran) gli iraniani forniscono armi agli insorti: armi leggere, mine, esplosivi vari, lancia granate ed anche missili SA-14, capaci di colpire gli elicotteri. E si prodigano presso gli afgani nel condannare la presenza straniera nel loro paese, in particolare quella americana.
L'influenza iraniana è visibile soprattutto nella provincia occidentale di Herat, dove imprenditori di Teheran hanno contribuito alla creazione dei servizi pubblici e dove si propongono di costruire una fabbrica di automobili. Lungo l'interminabile confine (600 miglia) il passaggio di uomini e droghe è intenso. L'Iran è il principale consumatore dell'oppio afgano ed è una zona di transito verso l'Asia e l'Europa. L'esercito e la polizia antinarcotici cercano di fermare quel traffico, con variabile successo e con tutte le inevitabili ambiguità che accompagnano un commercio tanto redditizio. Le autorità religiose temono gli effetti della droga nella loro società e sono severi nel proibirne la diffusione. Ma è come tentare di fermare un fiume in piena.
Nel conflitto afgano la teocrazia di Teheran ha spesso fatto un doppio gioco. Non ha amato Al Qaeda, pur avendo ospitato alcuni suoi affiliati (perché con la nazionalità saudita), né aveva una particolare simpatia per il regime dei taliban, tanto che autorizzò gli aerei americani a sorvolare il territorio iraniano nel 2001. Adesso sorride a Karzai ma arma gruppi di insorti. Se i colloqui che cominciano il 1° ottobre conducessero a un'intesa sull'Afghanistan, l'offensiva diplomatica di Obama darebbe i suoi primi importanti frutti.
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