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sabato 19 settembre 2009

L'ambiguità offende il Paese e i suoi morti

Il costo dell'ambiguità.
Rassegna stampa - Corriere della Sera, Sergio Romano, 19 settembre 2009.

La caccia ai responsabili, in una vicenda come quella di Kabul, è un esercizio che non rende omaggio ai morti e diventa spesso occasione di interessati bisticci politici. Non è inutile, invece, chiedersi se la presenza italiana in Afghanistan risponda a una ragionevole politica nazionale. È giusto inviare «truppe di pace» in un Paese dove si combatte? È giusto esporre i propri soldati alle insidie del nemico, ma evitare al tempo stesso che si comportino, in tutto e per tutto, come forze combattenti? L'invio di truppe in un Paese straniero per creare o mantenere condizioni di pace appartiene alla logica dell'Onu e ai principi della comunità internazionale. È stata questa la ragione per cui abbiamo inviato militari in Congo, Libano, Somalia, Bosnia e Kosovo. Atten- zione. Nessuna di queste operazioni è stata totalmente disinteressata. Siamo andati in Iraq, dopo l'occupazione americana, perché il governo Berlusconi riteneva utile, in quelle circostanze, essere al fianco degli Stati Uniti. Siamo andati in Libano perché il governo Prodi riteneva che la nostra presenza militare, dopo la guerra israeliana, avrebbe conferito maggiore credibilità alla nostra politica medio-orientale.
Siamo in Afghanistan perché gli Stati Uniti hanno chiesto alla Nato di essere aiutati a sbrogliare una matassa che la frettolosa guerra di Bush aveva reso particolarmente imbrogliata. Viviamo tempi tumultuosi in cui il prestigio internazionale di un Paese si misura dalla sua capacità di partecipare a un'operazione militare. Un contingente di truppe è stato molto spesso, in questi anni, il prezzo che il Paese doveva pagare per avere un rango internazionale corrispondente alle sue ambizioni. Ciò che ha fatto l'Italia non è sostanzialmente diverso da ciò che hanno fatto, tra gli altri, la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, la Polonia, l'Ucraina e da ultimo, con maggiori difficoltà, la Germania. Ma nel caso dell'Italia, come per certi aspetti in quello della Germania, esistono peculiarità che hanno condizionato la politica dei governi.
Il Paese è stato malamente sconfitto durante la Seconda guerra mondiale e ha sviluppato da allora una «cultura della pace» in cui si sono confuse componenti diverse: pensiero cattolico, neutralismo, odio per gli Stati Uniti e una concezione dogmatica dell'articolo della Costituzione in cui l'Italia «ripudia la guerra». I governi hanno dovuto venire a patti con questi sentimenti e hanno creduto di risolvere il problema mandando «truppe di pace» in teatri di guerra. E per di più, come se il tasso d'ambiguità non fosse già sufficientemente elevato, hanno ridotto i bilanci delle Forze Armate al limite della sopravvivenza. È questa la ragione per cui la perdita di un soldato, quando accade, appare alla società italiana molto più inattesa, incomprensibile e assurda di quanto non appaia in Paesi dove i governi hanno parlato alla loro opinione pubblica con maggiore chiarezza e hanno fornito ai loro soldati le armi di cui avevano bisogno. Forse è giunta anche per il governo italiano l'ora di dire francamente perché siamo in Afghanistan e quali siano i rischi da correre. L'ambiguità, dopo i fatti di Kabul, offende il Paese e i suoi morti.
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