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sabato 29 agosto 2009

Fini come Sarkozy, quasi

Da Liberazione di ieri riprendiamo questo articolo a sigla Gu.Ca. su Gianfranco Fini.
Il presidente della Camera interviene a tutto campo su testamento biologico e immigrati. Portare la destra "oltre la destra".
La calda estate di Gianfranco Fini.

Rassegna stampa.

Lo aveva annunciato più volte, con ampio anticipo, poi ha deciso che era venuto il momento di passare all'azione. Già da leader di Alleanza nazionale, negli anni scorsi, Gianfranco Fini aveva detto più volte di guardare a Nicolas Sarkozy come al possibile "modello" per la costruzione di una nuova e moderna destra anche nel nostro paese. Non solo, Fini aveva scritto alla vigilia delle presidenziali del 2007, quelle che hanno incoranato definitivamente l'astro della nouvelle droite d'oltralpe, la prefazione a Témoignage , il libro con cui lo stesso Sarko tracciava l'orizzonte della sua strategia di conquista. Certo, se Sarkozy si è posto l'obiettivo di rendere più aggressiva e spregiudicata la famiglia postgollista, pescando senza timore nel repertorio "identitario" di Le Pen, il compito di Fini era decisamente più difficile, e apparentemente opposto, vale a dire completare la traversata del deserto degli eredi del Ventennio e della fiamma tricolore. Il punto di approdo dei due percorsi appare però simile: la creazione di uno spazio politico a destra in grado di captare inquietudini e trasformazioni presenti nelle società europee. Una destra che non disdegna i toni muscolari ma che non esita neppure a denunciare le derive populiste presenti in alcuni suoi settori. Una destra che, forte di un'egemonia politica e culturale sia in Italia che in Francia può concentrarsi sul suo lavoro di "definizione" e di progetto, certa che le opposizioni di sinistra non le daranno troppi problemi. Sul piano concreto però, le similitudini tra Sarkozy e Fini finiscono qui, visto che ciascuno ha poi a che fare con un tradizione politica e un dibattito nazionale tra loro molto diversi.
Quel che è certo è che il presidende della Camera sembra aver scelto l'estate del 2009 come una sorta di banco di prova dei rapporti di forza interni alla maggioranza di destra che guida il paese. Si sta candidando alla sucessione di Berlusconi, minando quella leadership populista che ha fatto fin qui le fortune del Cavaliere dal 1994 a oggi? Sta rispondendo all'offensiva leghista che preme sugli equilibri interni del governo? Sta indirizzando il PdL su un terreno innovativo che possa conquistare nuovi elettori, meno targati ideologicamente di quanto non siano stati fin qui quelli di Forza Italia e Alleanza nazionale? Quel che è certo è che Fini gioca ormai a tutto campo: dalla riforma della legge sulla cittadinanza ai temi etici, passando per la difesa della laicità dello Stato. Per chi si augurava solo una quindicina di anni fa l'avvento del "fascismo del 2000", sembra trattarsi quasi di una rivoluzione. Anche se non si può dimenticare che la destra descritta dagli interventi di Fini assomiglia molto di più al suo possibile identikit elettorale, interclassista, postideologico, tendenzialmente laico, che non le sparate prolife di Sacconi e Roccella (ma non erano socialista il primo e femminista la seconda?). Diverso il discorso sull'immigrazione, visto che al nord "l'ammorbidimento" del PdL su questi temi sembra aver tirato la volata alla Lega e visto che il cuore del popolo di destra, o almeno quanto emerge del suo essere "opinione pubblica", interpretato da testate come Libero e il Giornale, parla esplicitamente della necessità di essere "cattivi" con gli immigrati. In attesa di misurarne gli esiti, restano le prese di posizione di Fini.
L'ultima è arrivata ieri con l'auspicio avanzato dal presidente della Camera in uno scambio di mail con il direttore del "Mulino", il politologo Piero Ignazi che ha studiato a metà degli anni Novanta con grande attenzione proprio il passaggio dal Msi ad An, per una trasformazione del PdL. «Un partito che raccoglie il 35% dei voti (e che ha un potenziale elettorale anche superiore) - ha spiegato Fini - non può essere strutturalmente un partito "populista". Può capitare che, in determinate circostanze, esso usi toni populistici, ma è obbligato a esprimere, prima o poi, una avanzata cultura di governo. Se così non avvenisse, le basi reali del suo consenso si indebolirebbero inesorabilmente. E tale partito finirebbe presto o tardi in un'orbita eccentrica rispetto all'evoluzione sociale, autocondannandosi fatalmente alla marginalità politica». Perciò, aggiungeva Fini, «Nel PdL ci potranno e dovranno essere diverse "anime" in una prospettiva di partito "plurale". Ma esse dovranno muoversi in una logica diversa rispetto al passato. Non seguendo la cultura della coalizione, bensì quella della sintesi (...) Tale circostanza può consentire al nuovo partito di sviluppare compiutamente quella cultura liberale, laica e modernizzatrice che al tempo della Dc (e anche del Pci) era decisamente minoritaria all'interno della società italiana».
Solo il giorno prima, intervenendo alla festa del Partito democratico in corso a Genova, Fini aveva lanciato un paio di affondi sul testamento biologico e sugli immigrati che non hanno mancato di scatenare reazioni rabbiose tra i suoi alleati politici e i suoi stessi ex colonelli dentro An. «Io non ho il dono della fede, anche se riconosco il grande ruolo della Chiesa, la sua storia, i suoi valori. Ma la contrapposizione su certi argomenti non può essere tra laici e cattolici. Lo scontro c'è solo tra laici e clericali». E sul testamento biologico aveva affermato: «Non si tratta di favorire la morte, ma di prendere atto dell'impossibilità di impedirla (...perciò), senza fare crociate contro i cattolici, se qualcuno pensa che decide il Vaticano e non il Parlamento, io, Costituzione alla mano, dico no».
Quanto all'immigrazione, Fini era stato altrettanto netto, criticando il sostegno del PdL alle posizioni della Lega: «Affrontare un tema così grande, con un'ottica riduttiva, che qualche esponente politico sembra avere, rischia di non portarci da nessun parte. L'approccio emotivo e fondato soltanto sulla questione della sicurezza dei cittadini italiani è miope e sbagliato». «Chi arriva in Italia è una persona - ha scandito Fini - La distinzione tra regolare e clandestino non può essere la cartina di tornasole per orientare una politica. Se chi arriva in Italia è una persona, alcune politiche fatte in Italia non dovevano essere inserite in un provvedimento normativo e sono lieto che il Parlamento abbia detto di no». In sintesi per il presidente della Camera ci deve essere «estremo rigore nel rispetto delle regole fondamentali per l'ingresso e la permanenza sul territorio nazionale, ma censura nei confronti di qualsiasi politica che sia vagamente discriminatoria, xenofoba, razzista».
Del resto, solo pochi giorni fa in un articolo che sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista Formiche , il presidente della Camera aveva ribadito la sua posizione sul futuro della cittadinanza italiana, sulla cui riforma sarà presto presentata una proposta di legge. «Il nuovo moderno e strategico impegno delle Istituzioni deve essere quello di far sentire l'Italia come patria anche a coloro che vengono da Paesi lontani, e che sono già o aspirano a diventare cittadini italiani», aveva scritto Fini, prima di concludere: «Non si può chiedere a questi nuovi italiani di identificarsi totalmente con la nostra storia e con i nostri costumi. Sarebbe ingiusto e sbagliato pretendere di assimilarli nella nostra cultura. Per loro la Patria non potrà mai essere la terra dei padri. Però si può e si deve chiedere loro di partecipare attivamente e lealmente alla vita collettiva, di fare propri i valori della Repubblica, di condividere gli obiettivi di fondo della nostra società e di contribuire alla loro realizzazione. Si può e si deve suscitare passione civile e patriottismo nei nuovi italiani anche promuovendo la conoscenza, non solo della nostra lingua e delle nostre leggi ma anche della nostra storia, specie quella politico-costituzionale più recente».
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