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domenica 23 agosto 2009

Evitare il nostro naufragio

Riprendiamo da Avvenire di oggi l'editoriale di Davide Rondoni.
Oggi come 30 anni fa.
Per non rischiare anche noi il naufragio.

Rassegna stampa.

Trent’anni fa gli italiani arrivaro­no fino nelle acque della Male­sia per soccorrere i profughi vietna­miti. La situazione politica del loro Paese li spingeva a fuggire in mare. Fu mobilitazione generale. È stata ricordata ieri a Jesolo, alla presenza dell’indimenticato Giuseppe Zam­berletti, fondatore e primo capo del­la protezione civile. Alcuni espo­nenti della comunità vietnamita hanno voluto così ringraziare l’Ita­lia per l’accoglienza di allora. In pri­ma fila, in quella mobilitazione mondiale, furono i cattolici assie­me ai fedeli di tante altre religioni. Un reale movimento di popolo che, tra le titubanze di ordine politico e diplomatico, spinse a interessarsi di quei poveracci in balia delle onde. Delle onde lontane. Come oggi spinge a interessarci di quelli in ba­lia delle onde vicine. Mai in nome della politica, ma in nome dell’uo­mo e della sua dignità che si fonda sull’esser creatura voluta da Dio, a sua immagine e somiglianza.
Molti sono gli attentati nella nostra epoca a tale dignità. Vengono da sot­tili ma decisive mutazioni in cam­po biogenetico, e dalle ipocrisie di una ricerca scientifica interessata più a vendere che alla vita. E ven­gono da corpose e altrettanto deci­sive mutazioni nei flussi migratori, e dalle ipocrisie di una politica che usa gli odierni boat people per bat­taglie di basso profilo. Ma ancora u­na volta i cattolici, assieme agli uo­mini e alle donne di buona volontà, non stanno zitti. E chiedono a tutti – in Italia, a Malta e nel resto d’Eu­ropa – di non far finta di niente. Per amore concretissimo all’uomo, non a una parte politica.
Trent’anni fa, noi italiani andammo a soccorrere i boat people remoti dalle nostre coste. Oggi i boat peo­ple sono nelle nostre acque. Ci so­no molte differenze. Ma tutte le dif­ferenze non valgono a oscurare la ben più importante somiglianza: è gente che rischia la deriva, che va soccorsa. Poi si deciderà dove sta­ranno, se e come rimarranno e tut­to il resto. I profughi vietnamiti di allora in Italia si integrarono bene: fanno parte di questo Paese e, in questa rovente estate del 2009, rin­graziano noi che navigammo per mezzo mondo decisi a soccorrere altri esseri umani in difficoltà. Ne fummo fieri. Fu giusto. Fu, per così dire, normale per la nostra sensibi­lità e per la nostra cultura. E siamo sicuri che la cultura e la sensibilità di una larga, larghissima, maggio­ranza della nostra gente si nutre del­la stessa convinzione: soccorrere chi ha bisogno. Quando è lontano, e quando è vicino.
Siamo un popolo educato all’aper­tura verso le persone. E i disperati del mare sono persone. Si tende a e­tichettarli come emergenza sociale da trattare 'politicamente', ma so­no di carne e ossa, di fiato e anima, di speranza e fatica, di anima e sguardo. Uomini, donne, ragazzi. La fermezza nel far rispettare gli ac­cordi internazionali, l’oculatezza nel gestire un fenomeno dai molti risvolti, l’ansia di segnare un punto nella polemica pubblica, il bisogno di dimostrarsi 'migliori' dell’avver­sario politico non possono mai spingerci a ridurre queste persone – vulnerabili e sofferenti – a stru­menti e alibi. Si tratta, in fondo, di imparare da noi stessi. Di non negare noi stessi. I noi stessi di trent’anni fa e, se ci scrutiamo davvero dentro, i noi stessi di oggi. Vedere e saper soc­correre l’uomo in difficoltà in mez­zo al mare significa vedere e sape­re, ancora e sempre, chi siamo. Si­gnifica evitare che i terribili naufra­gi di speranza al largo delle nostre coste siano il nostro naufragio.
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