Rassegna stampa - La Repubblica, Ilvo Diamanti, 14 settembre 2009.
Sono passati 13 anni da quando la Lega tentò di "strappare" l'Italia. Mobilitando il suo popolo, in marcia lungo il Po fino a Venezia. Dove, da allora, si riunisce puntualmente, ogni anno, a rinnovare il rito padano (e pagano) che vede Umberto Bossi versare in laguna l'ampolla con le acque del Po (ma anche del Piave e dell'Olona) per rammentare che l'indipendenza della Padania resta il vero orizzonte della Lega.
Anche se il fallimento della manifestazione del 1996 ha costretto la Lega ad accantonare la secessione tornando all'obiettivo del federalismo. Distintivo originario dell'esperienza leghista. Non più rivoluzionario come in origine. Anche per questo la Lega ha spostato, rapidamente e decisamente, la sua offerta politica, concentrandola sui temi della sicurezza. Intorno alle paure prodotte dalla criminalità e dall'immigrazione. Ha anche ridefinito i riferimenti del territorio. I nemici: non più (solo) Roma, ma il Mondo. La globalizzazione. L'Europa larga. I paesi dell'Est. La Cina.
Oggi la Lega è tornata forte come nel 1996, dal punto di vista elettorale. Ha ottenuto oltre il 10% alle europee. Un dato che i sondaggi confermano stabile e, semmai, in ulteriore crescita. Ma, dal punto di vista politico, molto più forte di allora. È Lega di governo. Alleata del Pdl di Berlusconi. Meglio: di Berlusconi e del suo Pmm (Partito mediale di massa). Ma, soprattutto, è la principale artefice dei temi che caratterizzano l'agenda di governo. Tremonti si occupa della crisi economica e finanziaria. Opera importante, ma impopolare. Brunetta insegue i fannulloni che affollano gli uffici pubblici. Ma le questioni che preoccupano maggiormente i cittadini le affrontano gli uomini della Lega. In primo luogo, Roberto Maroni, titolare dell'Interno. Il "ministro della paura", per citare il personaggio interpretato da Antonio Albanese. Ma anche Zaia, vista l'importanza assunta dalle minacce "alimentari". La Lega oggi è soprattutto il "partito securitario". E ciò le ha permesso di sfondare anche nelle zone rosse. In molte province della Toscana, dell'Emilia Romagna e delle Marche. Le più simili alle zone pedemontane del Nord dove è maggiormente radicata. Le aree di piccola e piccolissima impresa. Per altri versi, però, la Lega si è "normalizzata". È l'ultimo partito di massa. L'unico sopravvissuto al crollo della prima Repubblica (a cui ha contribuito attivamente). Ha un'organizzazione diffusa, una base di militanti fedeli - estesa e presente sul territorio. Un giornale, alcune emittenti. Governa in centinaia di comuni piccoli e medi. Ha anche appreso dai "vizi" dei partiti tradizionali, che un tempo contestava fieramente. Ha coltivato un ceto di professionisti politici. Inseriti negli enti e nelle amministrazioni, a livello locale e nazionale. Anche a Roma ladrona. Basta vedere come ha gestito la vicenda delle nomine Rai. La Lega oggi è un partito forte politicamente. Nel Nord come a Roma.
Ma ciò può sollevare qualche problema. Perché rischia, appunto, di normalizzarla. Farla apparire un partito come gli altri. I suoi obiettivi caratterizzanti non la caratterizzano più. Il federalismo è stato raggiunto, anche se non è chiaro cosa significhi. Il suo linguaggio, i suoi proclami, anche i più scandalosi, non scandalizzano più. D'altra parte, dopo le ronde, i respingimenti e il reato di clandestinità, non è chiaro quali altri obiettivi possano scaldare gli animi dei suoi elettori e degli antagonisti. E poi le parole più violente e le iniziative più grevi tendono a perdersi nel rumore di fondo che segna il dibattito politico - in questi tempi tristi. Quando tutti gridano e urlano. E i media frullano in modo indistinto ogni offesa e ogni minaccia, anche la più turpe. Da ciò il richiamo esplicito all'indipendenza padana. Espresso ieri ad alta voce da Bossi. Con echi secessionisti che non si udivano da un decennio. Non a caso. Perché, come nel 1996, il federalismo non basta più.
Inoltre, l'etichetta di partito populista e securitario - o xenofobo - non scandalizza nessuno. Ma, anzi, rende più confusa la sua missione originaria. La rappresentanza del Nord. Peraltro, non è casuale anche la sfida lanciata da Casini. Alla Lega e agli altri partiti maggiori. Nello stesso giorno in cui Bossi riprendeva il tema della secessione. Perché c`è simmetria fra la Lega e l'Udc. Anzitutto dal punto di vista territoriale. Perché l'Udc è impiantata nel Sud, dove alimenta, a sua volta, forti spinte autonomiste. Una minaccia per il Pdl, che nel 2008 ha raccolto oltre metà dei voti nel Mezzogiorno e nel Lazio ma solo un terzo nel Nord padano.
L'Udc, inoltre, nel Nord fa concorrenza alla Lega. Nel 2006 è cresciuta nelle zone dove è calata la Lega. Viceversa nel 2008. Entrambe, d'altronde, attingono dall'antico bacino elettorale democristiano. A maggior ragione, l'Udc è alternativa alla Lega nei rapporti con la Chiesa e i cattolici. Perché la Lega è una "chiesa locale", che usa i riferimenti della religiosità popolare - la famiglia, il lavoro autonomo, il localismo - come base della propria ideologia. Mentre l'Udc continua a riproporre l'antico modello collaterale. Partito al servizio degli interessi e dei valori della Chiesa. Un'ipotesi che sta raccogliendo nuova attenzione negli ambienti ecclesiali, dopo le tensioni recenti.
D'altra parte, nel 2007 Berlusconi respinse la "pretesa" dell'Udc di presentarsi con il proprio marchio. Come la Lega. Perché la Lega, più ancora di Berlusconi, non l'avrebbe accettato. Oggi Casini guarda aldilà del proprio "piccolo centro". Scommette sul declino del bipolarismo tradizionale per attrarre altri settori e altri leader politici. Ma anche del mondo imprenditoriale e associativo. Conta sulle difficoltà del Pd, impigliato in un percorso congressuale lungo. Che ne sta logorando l'identità e ancor più la leadership. Mentre il Pdl è ormai totalmente risucchiato - e sperduto - nelle vicende personali del suo leader.
La collisione Bossi e Casini pare, dunque, inevitabile. In nome di un nuovo bipolarismo. Fra il Grande Nord e il Grande Centro.
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