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lunedì 26 ottobre 2009

Il giorno dopo

Che l'elezione di Bersani alla segreteria del Partito democratico sia la notizia del giorno al punto da oscurare le "vicende di letto" su cui qualcuno aveva speculato per "annebbiare" l'evento è un dato che si riscontra su tutti i media, sulle agenzie e su tutti gli aggregatori di notizie che sono ricchissimo patrimonio informativo della rete. Raccolgo qui alcuni articoli, scritti o pensati prima, quindi superati o visionari, ma diffusi oggi o scritti nell'alba del day after, del giorno dopo d'una manifestazione politica di tale portata che, va riconosciuto, solo il Partito democratico oggi in Italia per uomini, organizzazione e strutture, è in grado di attuare.

Vespa: Pd, le primarie dei paradossi.
Rassegna stampa - Panorama, Bruno Vespa, 26 ottobre 2009.
«Tra Ezio Mauro e Massimo D’Alema voterò scheda bianca». La battuta è di un prodiano deluso che non ha perso l’arguzia sarda. Ma il paradosso usato da Arturo Parisi fotografa i tanti dubbi presenti alla vigilia delle elezioni primarie che designeranno il nuovo segretario del Partito democratico. Designeranno? Forse sì, ma il condizionale sarebbe più corretto. L’11 ottobre gli iscritti al Pd hanno designato con larga maggioranza Pier Luigi Bersani. Però le primarie del 25 ottobre possono ribaltare il risultato: sono ammessi a votare infatti tutti i cittadini che versando 2 euro si dichiareranno elettori del partito.
Se nessuno dei tre candidati raggiungesse la maggioranza assoluta, basterebbe il richiamo allo statuto del terzo (prevedibilmente Ignazio Marino) a rinviare la scelta del segretario nell’assemblea nazionale del 7 novembre. Nessuno dei due primi piazzati avrebbe la maggioranza dei 1.000 delegati (eletti anch’essi dalle primarie) e comincerebbe un mercato di voti che certo non gioverebbe all’immagine del Pd, già piuttosto provata per le polemiche degli ultimi giorni.
Ma torniamo alla battuta di Parisi. Dario Franceschini è uno strumento di Repubblica? Quando in febbraio l’allora vicesegretario del Pd prese il posto di Walter Veltroni, dimessosi dopo la disfatta alle elezioni sarde, dette alla linea del partito una sterzata in senso antiberlusconiano. Il rapporto civile che faceva parte del dna veltroniano iniziale (già compromesso poco dopo la nascita del nuovo governo) si spezzò irreparabilmente. Le ragioni sono comprensibili. Franceschini è il primo segretario postdemocristiano alla guida di un partito a maggioranza postcomunista. Come spesso è accaduto nella politica italiana, bisogna farsi perdonare le origini. Non fu il conservatore Giulio Andreotti il gestore del compromesso storico con il Pci?
La barca di Franceschini si è trovata così fatalmente sulla stessa rotta (anzi, sulla scia) della corazzata diretta da Mauro, che non ha rinunciato alla tentazione storica di dettare la linea al partito di riferimento. Non lo fece Eugenio Scalfari con la Dc di Ciriaco De Mita? (Che poi questa tradizione porti bene al politico sponsorizzato è un altro discorso). Nel suo furore antiberlusconiano Franceschini aveva tuttavia un alibi: non cedere troppo spazio ad Antonio Di Pietro, che ha raddoppiato i voti alle elezioni europee.
Siamo così al paradosso che il candidato cattolico, erede del moderatismo democristiano, è assai meno dialogante del candidato che viene dal Pci. Se il segretario fosse confermato, infatti, la sua linea diventerebbe prevedibilmente ancora più dura. E se vincesse Bersani? Gli uomini di centrodestra tifano per lui: non perché siano più filocomunisti che filodemocristiani, ma perché puntano sul pragmatismo di un uomo di governo come il candidato emiliano e su una svolta nei rapporti determinata dal realismo dalemiano.
Non so francamente se la forte sponsorizzazione di D’Alema sia per Bersani un’opportunità o un rischio. L’opportunità sta nella forza che l’ex presidente del Consiglio conserva nell’apparato del partito, il rischio nelle formidabili antipatie che egli riesce a suscitare.
D’Alema non nasconde affatto il suo ruolo di king maker: è stato lui (e non Bersani) a prendersi pubblicamente a schiaffi fin nelle ultime ore con lo «spregiudicato» Franceschini. A chi gli nomina D’Alema, Bersani risponde con l’orgoglio della sua storia personale. Quando era presidente di una regione rosso fuoco come l’Emilia- Romagna e non aveva certo bisogno di alleati per governarla, fu il primo a formare una lista dell’Ulivo avanti lettera che lo sostenne alle elezioni regionali del 1995. Egli vuole ristabilire un minimo di rapporto con Silvio Berlusconi.
Niente inciuci, s’intenda: il normale rapporto di una opposizione con la maggioranza, un confronto civile in un Paese che ha bisogno di unità. Vista la decisione con cui il presidente del Consiglio annuncia di voler fare le riforme costituzionali, non è affatto detto che il dialogo sia facile e duri a lungo. Ma insomma, provare è un dovere. Il compito più difficile per Bersani, se fosse eletto, sarebbe convincere una parte dell’ala cattolica interna che il Pd non è la prosecuzione del Pci-Pds-Ds.
A Marino, infine, vanno le simpatie dei non allineati. Il suo laicismo rigoroso accresce le difficoltà della componente cattolica interna. Ma la sua linea garbatamente estremista potrebbe portargli più consensi di quanti non ne abbia avuti al congresso. Non tanti, sperano gli altri, da farne il paradossale arbitro della situazione.

Si rischia il ritorno allo schema-Prodi.
Il Pd ora ha il volto di Bersani, il corpo dei Ds e poche altre novità.

Rassegna stampa - L'Occidentale, Stefano Fossi, 26 ottobre 2009.

È un risultato in fotocopia rispetto a quello del congresso. Un’investitura scontata che consegna il Partito Democratico a Pierluigi Bersani con oltre il 50% dei consensi e chiude definitivamente l’estenuante processo di selezione del nuovo segretario.
La partita delle Primarie si chiude in maniera rapida. Dario Franceschini comunica appena due ore dopo la chiusura dei seggi il risultato – nonostante i ritardi nello spoglio al Sud - e dà il suo contributo alla riuscita di quella grande operazione di marketing politico che sono le Primarie.
Il messaggio che tutti i candidati si affrettano a intonare è quello della grande festa democratica coronata dal successo di un’ampia partecipazione popolare – circa due milioni e mezzo i votanti dichiarati - e dalla prova di sportività e compostezza fornita da Franceschini e Marino che ammettono subito la vittoria del loro rivale e dimostrano una sufficiente dose di fair-play. Un copione scontato, necessario a riscattare un confronto aspro che troppe volte, nelle ultime settimane aveva tracimato dal solco di una normale dialettica pre-voto facendo addirittura paventare, nei più pessimisti, lo spettro di possibili scissioni e ricomposizioni dei partiti di origine.
Al di là dell’inevitabile retorica autocelebrativa resta un dato, anzi due su cui riflettere. Il principale partito di opposizione ora ha un leader che può contare su una investitura chiara. E questo potrebbe significare – il condizionale è d’obbligo – che “la guerra dei capi” potrebbe fermarsi e tradursi in una tregua capace di reggere almeno per qualche mese, fino al primo test delle Regionali. Il secondo dato è che ora il Pd non ha più l’alibi della transizione post-veltroniana e, se vuole acquisire credibilità, deve diventare oltre che un partito di opposizione anche un partito di alternativa. Il primo passo di questo processo non può che essere uno: fare chiarezza.
Pochi hanno capito davvero – al di là del diverso appeal dei vari candidati – su quali piattaforme programmatiche Bersani, Franceschini e Marino si confrontassero. Antiberlusconismo a piene mani, certo. Richiami alla Costituzione. Generiche promesse di attenzione verso la scuola e il mondo del lavoro. Laicità declinata in diverse fogge. Ma in queste settimane, tra i colpi di sciabola e il tintinnio dei fioretti, tracce reali di un programma alternativo, di un’idea di Paese, di una concreta proposta di governo se ne sono viste davvero poche.
E così, in questo scenario costellato da tante ombre, si è consumato un curioso paradosso: la trasformazione delle Primarie da mezzo a fine in un gioco di specchi in cui la capacità democratica è stata tramutata in un succedaneo della capacità di governo. Ora però la stagione dei gazebo, delle alchimie, delle tessere di partito e dei certificati elettorali è finita. E il Pd non deve più legittimare un segretario ma legittimare se stesso di fronte agli italiani, cercando di smetterla di comunicare soltanto con lo zoccolo duro dei propri elettori attraverso l’eterno codice dell’antiberlusconismo.
Bersani, insomma, è chiamato a una sfida durissima: portare il partito fuori dalla palude degli strilli di tromba, abbandonare la politica degli allarmi democratici e delle iperboli resistenziali e ricostruire una visione e un approccio maturo rispetto alle necessità del Paese. I primi segnali, in questo senso, non sono confortanti. L’intenzione, più volte annunciata, di aprirsi a tutte le forze di opposizione e di favorire il ritorno del centro-sinistra, magari con l’aggiunta dell’Udc, non sembra il viatico migliore per costruire alleanze serie e compatibili con le sfide della modernità.
Il rischio di un ritorno allo schema-Prodi, insomma, c’è tutto. E questo non sarebbe un bene né per la sinistra italiana, né per il Paese.

Prodi: Bersani rinnoverà il partito.
L'Unione Sarda, 26 ottobre 2009.

"Bersani ha grandi capacità, sono convinto che saprà rinnovare il partito". Romano Prodi commenta la vittoria di Pierluigi Bersani alle primarie del Pd definite "una lotta vera". "Sull'affluenza i gufi sono stati sconfitti, milioni di persone hanno dimostrato che il Pd è l'unica forza che può costruire un'alternativa democratica. Ora - aggiunge Prodi - è il momento di agire con forza, coraggio e lucidità".

Gasparri (Pdl) ad Affaritaliani.it: Bersani sobrio, confronto sui grandi nodi.
Rassegna stampa - Affaritaliani.it, 26 ottobre 2009.

"Risultato annunciato e numero di partecipazione su cui non ci esprimiamo, perché la propaganda è sotto gli occhi di tutti. Se volessimo essere un po' azzardati potremmo dire che oramai le primarie sono le uniche elezioni che gli esponenti del Pd vincono. Perché comunque se la giocano in casa e quindi vedo che c'è molta enfasi ma quelle che contano sono le secondarie, cioè le elezioni vere dove la sinistra zoppica un po' di più". Il capogruppo del Popolo della Libertà al Senato, Maurizio Gasparri, sceglie Affaritaliani.it per commentare il risultato delle primarie del Partito Democratico.
"Detto questo, tutti si aspettano da Bersani più pragmatismo e meno furori declamatori nei quali Franceschini si è molto speso. Lo attendiamo alla prova dei fatti. Sui grandi nodi - riforme istituzionali e altre questioni - abbiamo sempre offerto la disponibilità al confronto. Vedremo in che misura Bersani dovrà pagare un prezzo agli ultrà del Pd e dell'area di sinistra e quanto riuscirà a essere autonomo da Di Pietro che ha dettato l'agenda e le parole di Franceschini. Bersani - spiega il presidente dei santori del Pdl - dovrebbe essere un po' più sobrio rispetto a questo condizionamento".
"Inoltre Bersani deve dimostrare che il suo partito non è un ritorno al Pci-Pds degli apparati e dei legami con Cgil e il mondo delle cooperative. Questa è la sua difficoltà interna e vedremo i vari Rutelli e le altre persone che hanno mostrato insofferenza come reagiranno. Lo giudicheremo alla prova dei fatti senza alcun pregiudizio. Deve stare sereno, perché parte con un Pd un po' sfasciato che da Castellammare alla Regione Lazio gli dà parecchi motivi di preoccupazione. E quindi gli auguro buon lavoro... perché certamente il lavoro non gli mancherà".
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