Rassegna stampa - Liberazione, Lidia Menapace, 22 settembre 2009.
Benché io sia solo sottotenente («partigiana combattente con il grado di sottotenente» recita il «congedo assoluto illimitato» rilasciatomi dal Ministero della Difesa dopo la guerra) avevo capito durante l'estate che c'era una escalation della nostra presenza in Afghanistan. Tanto è vero che all'assemblea del 19 luglio che avviò la Federazione, tra l'altro proposi di costituire un comitato di donne per chiedere, unitamente alle associazioni delle donne afghane, una tregua con la quale avviare una conferenza internazionale di pace.
Furono anche raccolte delle firme: ma con ciò che è successo dopo, si può dire ormai che tutta la Federazione chiede la conferenza di pace, la trattativa a raggio ampio con grande forza. Le motivazioni erano ben riassunte e argomentate nel fondo di Liberazione di due giorni fa. Le altre posizioni in qualche modo concomitanti sono state espresse in un comunicato stampa dell'Anpi e mi pare molto importante la posizione molto ferma e non emotiva dei partigiani.
Intanto però viene rinviata la manifestazione sulla libertà di stampa e parte una valanga di pressioni emotive, patriottarde, invereconde di speculazione sui sei morti. Il Papa si mette addirittura alla destra del Governo, piangendo tutti i caduti di tutte le spedizioni, anche quelle che non vengono definite "di pace". E si dimentica una preghiera per le vittime innocenti, donne, bambini, popolazione civile. Anche il Presidente Napolitano si mette su questa china.
Che fare? Naturalmente preparare con il massimo di convinzione la manifestazione del 3 ottobre, allargare il discorso e riconfermare che è impossibile sostenere che la spedizione in Afghanistan abbia ancora un possibile significato di pace, addestramento civile, ricostruzione ambientale e territoriale.
Del resto la cosa è stata ottimamente chiarita dal ministro della Difesa al TG2 di domenica sera. Con grande fermezza ha detto che in Afghanistan non c'è più una missione di pace, bensì ormai è guerra. Può bastare forse uno scontro a fuoco di un minuto sul quale si discute molto. Ma il fatto è che il ministro sostiene che noi ora siamo lì per difendere gli interessi nazionali e la sicurezza del Paese in una guerra.
In questo modo La Russa assume il concetto di difesa proclamato anni fa dal generale Jean, secondo il quale difesa in senso moderno non significa tanto difesa del territorio quanto difesa degli interessi nazionali ovunque nel mondo, anche con strumenti di intervento rapido: solo che questo non è il testo della Costituzione, bensì una interpretazione addirittura fatta diventare un tabù. Invano infatti chiesi, quando ero membro della Commissione Difesa del Senato, di organizzare un convegno sul concetto di difesa e invano Raniero La Valle a suo tempo si battè per ottenere una definizione di livello costituzionale su questo argomento.
Sicché, ciò che vale è comunque la Costituzione che all'articolo 11 ci vieta formalmente di usare la guerra, ripudiandola, sia come strumento di aggressione, sia anche come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali: e i ministri quando entrano in carica giurano fedeltà alla Costituzione. La quale, assodato che lì siamo in guerra, ci obbliga ad uscirne subito. Se insieme riusciamo anche ad avviare un processo di risoluzione politica generale della vicenda afghana, non sarà che bene.
E mettiamo fuori le bandiere della pace, che va sempre bene, e forse risveglieranno il movimento.
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