Rassegna stampa - Avvenire, Sergio Soave, 14 novembre 2009.
La questione giustizia torna a infiammare e quasi a monopolizzare il confronto politico, rendendolo nuovamente rovente. Si tratta di un tema che riceve letture almeno apparentemente opposte, il che ha impedito di affrontarlo in modo organico e ragionevole, sia sotto il profilo della reciproca autonomia tra il sistema politico e l’ordine giudiziario, su cui batte più spesso il centrodestra, sia sotto il profilo del miglioramento del servizio da rendere alla generalità dei cittadini, cavallo di battaglia delle argomentazioni prevalenti tra le diverse opposizioni. Il risultato è che, negli ultimi quindici anni, ogni tentativo di operare riforme significative, quale che fosse il colore del governo in carica, si è impantanato. C’è chi, non senza ragioni, addossa la responsabilità della paralisi alla resistenza corporativa della magistratura che, di fatto, non ha mai accettato il principio secondo cui spetta alla politica definire secondo le procedure democratiche l’assetto del sistema giudiziario, chi insiste sulla altrettanto innegabile influenza sulle iniziative legislative portate avanti dal centrodestra delle preoccupazioni per i processi intentati nei confronti del leader di questa parte politica. A causa anche di questa insanabile contrapposizione, si è finito per operare solo attraverso iniziative frammentarie e parziali che non hanno mai potuto o voluto affrontare il problema della giustizia, soprattutto di quella penale, in modo organico. Lo stato della 'grande malata' è sotto gli occhi di tutti. Le stesse proteste contro la proposta di accelerazione dei processi avanzata dai partiti di maggioranza contengono l’ammissione che in Italia per ottenere una sentenza definitiva bisogna aspettare dieci anni, il che è comunque intollerabile. Ora si tornerà a uno scontro frontale tra chi denuncia la proposta di legge Pdl-Lega di essere esclusivamente funzionale all’andamento dei procedimenti riguardanti Silvio Berlusconi e chi sostiene che l’accelerazione dei processi corrisponde a un interesse generale che viene negato solo per poter utilizzare in termini politici quella che viene considerata una persecuzione giudiziaria. L’effetto è che neanche stavolta si riuscirà a confrontarsi civilmente sul tema in sé di una trasformazione del sistema giudiziario che lo renda efficiente e rapido. L’esigenza di ottenere, nello stesso centrodestra, un sufficiente consenso politico attorno a quest’ennesima e controversa mini-riforma ha portato anche a inserire elementi piuttosto incomprensibili, come l’equiparazione della gravità dei reati di mafia e di terrorismo con la condizione di permanenza sul territorio italiano di immigrati privi di permesso di soggiorno (il molte volte contestato su queste colonne «reato di clandestinità»). Un dibattito e una critica non pregiudiziale potrebbero piallare le punte e cercare soluzioni meno unilaterali, ma il clima politico renderà ancora una volta impossibile far prevalere il ragionamento sull’invettiva reciproca. È difficile mettere d’accordo quelli che pensano che tutti i guai dell’Italia nascano dal cosiddetto 'fattore B.', cioè dalle peculiarità politico-imprenditoriali del presidente del Consiglio, con quelli che, al contrario li attribuiscono al 'fattore G.', come giustizia, cioè alle intromissioni di settori politicizzati della magistratura nella vita politica e istituzionale. È una contrapposizione che dura da quindici anni e che messo in circolo veleni potenti e ha prodotto, finora, solo la paralisi di ogni riforma organica della giustizia. E la via d’uscita ancora non si vede.
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