Il vetero-comunista nazionalista al potere in Bielorussia dal ’94.
Rassegna stampa - Europa, Matteo Tacconi, 2 dicembre 2009.
Ma chi è quest’Alexander Lukashenko? «L’ultimo dittatore d’Europa», come lo apostrofiamo noi, da ovest? Oppure il bats’ka, il “padre” dei bielorussi? In entrambe le definizioni ci sono degli eccessi più o meno marcati. È che se Lukashenko è dittatore perché impedisce all’opposizione di tenere manifestazioni, controlla platealmente la stampa e sbatte in cella politici ostili al governo e giornalisti scomodi, lo sarebbero anche Dmitry Medvedev e Vladimir Putin, i vicini di Lukashenko. Che fanno grosso modo le stesse cose. Però, a Putin e Medvedev, l’etichetta di dittatore addosso mica gliel’appiccicano, gli europei.
I loro idrocarburi – quelli di cui la “Russia Bianca” di Lukashenko è invece sprovvista – fanno gola e con le definizioni, quindi, meglio non esagerare.
Lukashenko non è neanche il bats’ka che i suoi cortigiani dipingono. I motivi sopra elencati sono sufficienti a smentire l’esaltazione del capo e chi fa notare che un po’ padre lo è e al suo popolo ci tiene, considerata l’assistenza dalla culla alla tomba che Minsk offre a tutti i suoi cittadini, si può obiettare che gli stati autoritari sono sempre stati anche un po’ sociali. Anche a chi, come Silvio Berlusconi, ricorda quanto Lukashenko sia amato e come il fiume di voti ottenuti alle legislative del 2008 lo certifichi (i suoi deputati hanno ottenuto 110 seggi sui 110 di cui il parlamento si compone), andrebbe inviata una copia del rapporto che l’Osce ha dedicato all’ultima tornata elettorale tenutasi in Bielorussia: falsificazioni, procedure violate, mancata trasparenza, clima di stretto controllo, assenza di dibattito.
Ma allora, chi diavolo è Alexander Gregorevich Lukashenko? Il presidente bielorusso, ex direttore di kolchoz (fattoria collettiva, ndr) abile a proiettarsi in politica al tempo del crollo dell’Urss, a insediarsi al vertice della commissione contro la corruzione e a vivere quell’incarico con piglio maccartista per farne il trampolino di lancio per la presidenza, conquistata nel ’94, non è facilmente inquadrabile. Ha un po’ del dittatore e un po’ del vetero-comunista, se è vero che nella bandiera nazionale brilla ancora la stella rossa e che l’80 per cento dell’economia è tutt’oggi nelle mani dello stato. Lukashenko, poi, condivide qualcosa anche con i capi di stato dei paesi dell’Asia centrale, avendo come loro modificato a propria immagine e somiglianza la costituzione (correva l’anno 2004) per eliminare ogni limite al mandato presidenziale e potersi ricandidare nel 2006, quando ha riconquistato la poltrona con un più che bulgaro 84 per cento.
Infine, Lukashenko è anche un politico patriottico- nazionalista. Negli anni ha emesso molti decreti finalizzati a rafforzare l’identità bielorussa, alcuni dei quali dal sapore grottesco. Da segnalare quello che impone alle radio di mandare in onda almeno tre canzoni bielorusse ogni quattro trasmesse e quello che fa divieto di spiattellare, nei cartelloni pubblicitari dedicati alla moda, le foto di modelle straniere, perché – così sostengono a Minsk – inducono le bellezze locali a emularle e a cercare fortuna all’estero.
Insomma, Lukashenko è di tutto e di più. Ma, soprattutto, è un politico spregiudicato che sa muoversi tra le linee, tra l’Europa e la Russia, lesto a sfruttare la situazione per portare acqua al proprio mulino. In questo ricorda il vecchio maresciallo Tito, che blandiva i sovietici e si faceva corteggiare dagli occidentali, così da farsi staccare gli assegni e dagli uni e dagli altri.
Finora Lukashenko è stato molto filorusso e molto antieuropeo. Ha, come i russi, cavalcato la tesi della cittadella assediata. Ha, ancora una volta come i russi, denunciato trame e complotti orditi all’estero nell’intento di rovesciare l’autorità costituita. Ha, ancora e sempre come i russi, invocato la sovranità della sua piccola patria davanti all’espansione della Nato e allacciato relazioni solidali con altri governanti minacciati: Mahmoud Ahmadinejad e Hugo Chávez. Mosca gli ha concesso soldi, sostegno politico e risorse energetiche a prezzi stracciati. Poi, quando è stata toccata duramente dalla crisi e ha chiuso i rubinetti, iniziando oltretutto a percepire Lukashenko come una zavorra e a diversificare le rotte del metano lanciando il progetto Nord Stream (altrimenti noto come “pipeline” del Baltico) anche per evitare di sganciare ai bielorussi i dazi per il transito dei gasdotti, bats’ka ha rivolto lo sguardo altrove.
A occidente. Inserendosi magistralmente nel confronto/ scontro tra Ue e Russia, ha volutamente raffreddato i rapporti con il Cremlino cercando di ripararsi anche sotto l’ombrello europeo. Gli è riuscito bene. Bruxelles, dopo quindici anni di embargo diplomatico nei suoi confronti, gli ha permesso di tornare a calcare il suolo comunitario e ha incluso per giunta Minsk nella Eastern Partnership, un’iniziativa pensata all’epoca del semestre ceco di presidenza e tesa a rafforzare la cooperazione economica e istituzionale con i paesi dell’area postsovietica.
Non solo. Recentemente il “comunista” Lukashenko ha negoziato con il Fondo monetario internazionale, finora tenutosi alla larga da Minsk a causa dell’incompatibilità tra la propria visione liberoscambista e il dirigismo centralizzato dei bielorussi, la concessione di un finanziamento da tre miliardi di dollari.
Quando gli è stato chiesto se per caso non stava diventando filo-occidentale, Lukashenko ha fornito la più candida delle risposte: «La Russia ci aveva promesso 500 milioni di dollari, ma non ha versato ancora nulla nelle nostre casse. Il Fondo monetario è arrivato e ci ha dato subito i soldi».
Come a dire: gli affari si fanno con chi gli affari li vuole fare, subito. Tipo Roma, che a Minsk ha portato a casa importanti accordi industriali.
Ma Lukashenko, siccome fesso non lo è, non ci pensa proprio a rompere con il Cremlino. Tant’è che proprio in questi giorni ha stipulato, insieme all’omologo russo Dmitry Medvedev e a quello kazako Nursultan Nezarbayev, un’intesa che prevede la creazione, a partire dal prossimo luglio, di un’unione doganale tra i tre paesi. Al momento della firma ha tuttavia precisato che gli interessi bielorussi non sono completamente soddisfatti, ma che in nome di quelli comuni s’è deciso di fare un sacrificio. In altre parole, Alexander Gregorevich ha già chiesto la ricompensa.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.