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mercoledì 11 novembre 2009

Crocefissi, oggi

Il caso.
Nord Iraq, allarme per i cristiani. «Una catastrofe dei diritti umani».
Rassegna stampa - Avvenire, 11 novembre 2009.

È un conflitto territoriale nascosto ma che continua a fare moltissime vittime quello in corso nel nord dell’Iraq e che vede soccombere soprattutto le minoranze etniche e religiose, tra le quali in particolare i cristiani. Un conflitto che vede per protagonisti da una parte il governo centrale arabo di Baghdad e dall’altra i curdi del governo regionale del Kurdistan, con rapporti tra loro talmente tesi che si rischia «un’altra catastrofe dei diritti umani per le piccole comunità di minoranza che hanno vissuto per anni in quei territori». A lanciare l’allarme con la pubblicazione di un nuovo rapporto è stata ieri l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch, prima organizzazione laica a far ciò dopo le denunce di questi anni da parte di numerose associazioni religiose.
Nel documento dal titolo «On vulnerable grounds», l’Ong con sede a New York denuncia che le minoranze «sono prese a bersaglio nella lotta fra arabi e curdi per il controllo del territorio nella regione di Ninive», di cui Mosul è la capitale. Le minoranze prese di mira sono i 550mila cristiani, i 220 mila yazidi (setta accusata di essere adoratrice del diavolo) e i 60 mila shabaki (minoranza etnica), oltre che i turcomanni e i curdi kakai (comunità che pratica un culto sincretista). Queste minoranze, è scritto nel rapporto, «si ritrovano in una posizione sempre più precaria, mentre il governo centrale dominato dagli arabi e il governo regionale del Kurdistan lottano per il controllo dei territori contesi». Human Rights Watch accusa in particolare le forze curde di ricorrere «a detenzioni e arresti arbitrari, ad atti di intimidazione e in certi casi a violenze a bassa intensità contro le minoranze che sfidano il controllo del governo regionale sui territori contesi».
Viene ricordata inoltre la serie di attacchi contro i cristiani di Mosul nel settembre del 2008 che ha portato all’esodo di migliaia di cristiani dalla città, sottolineando che dal milione di cristiani presenti in Iraq nel 2003 si è passati ai 675mila del 2008 e che circa il 20% dei profughi nei Paesi confinanti sono cristiani. Human Rights Watch chiede quindi al governo regionale del Kurdistan «un’inchiesta imparziale e indipendente» sui responsabili delle violenze, «incluse le forze di sicurezza curde».

Il commento.
Siamo chiamati alla memoria e alla consapevolezza. Quegli «impossibili» martiri. E la nostra libertà talora sprecata.
Rassegna stampa - Avvenire, Marina Corradi, 11 novembre 2009.

«Davvero anche il nostro è tempo di màrtiri, per quanto ai popoli della libertà talora sprecata possa sembrare incredibile, e quasi impossibile». L’annotazione è nella prolusione del cardinale Bagnasco e commenta un massacro la cui notizia, data da Avvenire e poi filtrata nell’aula del Sinodo per l’Africa, non ha avuto grande eco: la morte per crocifissione di sette cristiani in Sudan. Ragazzi fra i quindici e i vent’anni uccisi in una macabra parodia del Golgota. Una sorte che, davvero, con gli occhi dell’Occidente pare «incredibile, e quasi impossibile». Come i massacri dei cristiani dell’Orissa; o in Pakistan dove può bastare una denuncia di blasfemia contro il Corano per essere giustiziati.
Incredibili, impossibili destini, allo sguardo dei «popoli della libertà talora sprecata». Noi: credenti o meno, o affatto, e però cresciuti nell’alveo accogliente di un Occidente da quasi duemila anni cristiano. Alveo in cui si è sedimentato, come un limo, l’idea cristiana di persona e di libertà e di diritti dell’uomo. Così che è ovvio, indiscusso che ciascuno preghi il suo Dio, o non ne preghi nessuno. In Stati laici maturati elaborando faticosamente nella storia il confronto con quella grande originaria matrice che è il cristianesimo. E, dunque, «impossibile, e quasi incredibile» oggi per noi la notizia di quelle sette croci innalzate in Sudan.
Noi, siamo i popoli liberi. Appena ieri a Berlino abbiamo festeggiato i vent’anni della caduta del Muro. Alle spalle, ormai, oltre sessant’anni di pace; e cos’è stato il totalitarismo in Europa, i nostri figli lo sanno appena. Guardano Schindler’s list come guarderebbero delle cronache marziane. Loro, sono nati liberi.
Ma, in questa libertà ereditata, scontata, qualcosa può perdersi. Prima di tutto, proprio la coscienza che niente è per sempre garantito, e che la ogni libertà va nutrita e cresciuta. In quanti ormai non andiamo nemmeno, disamorati, a votare. Don Carlo Gnocchi scriveva con passione di come l’occuparsi del «bene comune» fosse un obbligo morale dei cristiani. (Ma lui era stato sul Don con gli Alpini, nel fondo del massacro; lui aveva visto come finisce, quando un popolo abdica alla propria libertà).
Altro rischia anche di perdersi, nella libertà ricevuta senza una adeguata memoria. Il senso stesso del fare comune, del costruire insieme, che si frammenta in una galassia di individuali interessi. Leciti, oppure no. Ma comunque nella logica di un fare solo per sé. L’essere insieme, la relazione con l’altro impoverita a una, a volte infastidita, pura coabitazione. Nelle porte chiuse e anonime di mille quartieri dove, magari educatamente, ci si ignora.
Noi, popoli della libertà talora sprecata, la sera davanti alla tv, che ci insegna – lei veramente grande maestra – cosa fare, del nostro tempo e del nostro denaro. Che instilla desideri e imperativi. Che spiega che è naturale che i matrimoni finiscano, e che ora, ragazze, per abortire basta una pillola: è il progresso, che procede inarrestabile. Schiamazza dallo schermo la compagnia sguaiata del Grande Fratello: in sei milioni la contemplano e sognano di essere, un giorno, fra gli eletti.
C’è ancora tuttavia, nelle scuole e negli ospedali di questa Italia, appeso al muro un crocifisso. È Cristo in croce, e in quello scabro segno è rappresa, tacita, per molti quasi inconscia, la memoria dell’Occidente cristiano. Che sia tolto da lì, ha ordinato una Corte di sette saggi da Strasburgo – dal cuore dell’Europa, di quell’Europa dove ogni città s’è allargata attorno alla sua cattedrale come una vite dal tronco.
E noi qui a discettare se quella croce sul muro urti la libertà. Se non comprima le giovani coscienze. Quei là in Pakistan e in Orissa e in Iraq, perseguitati, nascosti. E quelle sette croci in Sudan, il martirio che matura di nuovo nel deserto del fondamentalismo, dell’odio, della negazione dell’uomo. Noi, popoli della libertà talora sprecata, che guardiamo vacui e distratti: «incredibile, quasi impossibile», che queste cose accadano ancora oggi, e davvero.
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